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In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

I limiti che ci vengono imposti dalla Realtà e quelli che ci imponiamo da soli coi sensi di colpa.

Non ci sono dubbi che la vita dell’uomo (come afferma Recalcati e come ha affermato, prima di lui, Lacan) sia segnata ineluttabilmente dall’atto della castrazione simbolica e che, quindi, il suo desiderio incontrerà sempre (e dovrà non solo riconoscere, ma accettare) il limite imposto dalla Legge.

Il perverso è colui che non solo non rispetta questo limite, ma non lo vede, non lo riconosce nemmeno; per il perverso il suo desiderio non ha limiti, non incontrerà mai il limite della Legge, semplicemente perché per lui la Legge non esiste, esiste solo il suo desiderio.

Quando andrà a sbattervi contro (perché prima o poi andrà a sbattervi contro) sarà troppo tardi; avrà fatto danni irreversibili non solo a coloro con i quali entrerà in una qualche relazione (ovviamente del tutto psicopatologica), ma anche e forse innanzitutto a sé stesso.

Fermo, quindi, restando questo concetto, che cioè il desiderio sano non si pone mai come un Assoluto, ma che deve confrontarsi sempre col Limite stabilito dalla Legge, è altrettanto indubitabile che in molti casi l’uomo impone a sé stesso limiti nevrotici, insani, quasi allo stesso livello della perversione di chi non riconosce alcun limite.

Ovverossia limiti che non sono fondati sul “principio di realtà” (l’equivalente della Legge lacaniana, di cui il perverso non riconosce l’esistenza, mentre la persona sana sì), ma sono stati creati e autoimposti dall’uomo stesso e dai suoi sensi di colpa, nei confronti di una libertà desiderata e però altrettanto temuta.

L’uomo sano deve dunque saper distinguere il limite strutturale, oggettivo della condizione umana (quello che è appunto all’origine dell’atto della castrazione simbolica) dal limite nevrotico, quello che ciascuno di noi (chi più e chi meno) tende a imporsi da solo, senza che ce ne sia un’oggettiva necessità.

La liberazione da questo limite, la liberazione in altre parole da quella istanza psichica che Freud ha chiamato Super-ego, è, a mio avviso, atto egualmente necessario e sano dell’accettazione del limite imposto dall’Io all’Es in nome del “principio di realtà”.

Pertanto, l’affermazione “Laddove c’era il Super-ego ci sarà l’Ego” potrebbe a buon diritto, opportunamente, secondo me, completare e integrare concettualmente la famosa affermazione freudiana “Laddove c’è l’Es ci sarà l’Ego”.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Perché alcuni uomini sono fortemente interessati alla vita spirituale, mentre altri non ne provano alcun bisogno?

Nel suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (2020; Garzanti), Vito Mancuso a pag. 173 si pone le seguenti domande, che a me sembrano di estremo interesse: “… che cosa portò il giovane Siddhartha a lasciare il ricco palazzo del padre per recarsi nella foresta a cercare la liberazione? Che cosa fa sì che anche oggi alcuni esseri umani vogliano vivere in modo più autentico e, per realizzare questo loro desiderio, si rivolgono alla spiritualità, mentre altri non avvertono nessun bisogno di salire sulla ruota del Dharma e stanno benissimo sulla ruota dell’esistenza?

In altre parole che cosa spinge la maggior parte degli uomini a vivere “nel mondo di Nietzsche”, che “è un mondo senza evoluzione e senza trascendenza… un mondo senza orientamento morale… dove tutto è al di là del bene e del male, un mondo dove non ha senso operare per la propria liberazione perché non vi è nessuna possibilità di liberazione ma solo l’eterno ritorno della medesima condizione di prigionia (o di beatitudine)” e altri uomini (pochi) ad uscire (o almeno provare ad uscire) dalla ruota dell’eterno ritorno dello stesso per cercare la propria crescita interiore, spirituale?

A queste domande Mancuso dà la seguente risposta: “A meno di non ammettere influssi soprannaturali (come fa il cristianesimo che parla di Spirito santo e di grazia divina), tale energia può venire solo dalla medesima fonte che fa girare la ruota dell’esistenza.

E si pone subito dopo un’altra domanda: “… che cosa fa girare la ruota dell’esistenza?

A cui dà questa risposta: “La voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi, direbbe Spinoza.

Che a me non soddisfa, in quanto la voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi spinoziano, a me sembra muovono sia coloro che si adattano rassegnati all’eterno ritorno, alla ripetizione coattiva dello Stesso, che coloro i quali provano a spezzare questa catena, ad uscire dall’eterna ripetizione, a rinnovare, ricreare se stessi, anche se a partire da una condizione data, che è stata data loro in consegna e di cui essi non sono né padroni né autori, sebbene dunque – potremmo dire – in una condizione di non assoluta ma limitata e relativa libertà.

La risposta di Mancuso, quindi, non risolve per me il problema da lui posto del perché alcuni uomini (la grande maggioranza) prendono una certa strada, quella della eterna ripetizione dello Stesso, mentre altri (pochi) prendono la strada della evoluzione e della crescita spirituale.

Sento perciò il bisogno di cercarne un’altra.

Intendiamoci, per rispondere a questa domanda, manco per me valgono le categorie cristiane dello Spirito santo e della grazia divina, nel senso che manco io credo a chiamate di natura soprannaturale che spingerebbero alcuni sulla “buona via”, mentre altri (magari pure “chiamati”, ma non “eletti”, a voler riprendere due termini evangelici) sarebbero destinati alla “perdizione”, ad una vita senza salvezza.

Io propendo per una risposta di natura del tutto laica: la direzione che ciascuno di noi prende nella vita (mi riferisco qui ovviamente alla direzione spirituale) dipende dal contesto nel quale nasce e cresce, soprattutto dal grado e dal tipo di amore che riceve, dall’educazione e dalla formazione che gli viene impartita, dalle opportunità (fisiche, economiche, sociali, culturali…) che la vita gli offre, soprattutto dalle persone che incontrato nel corso del suo cammino, oltre che (perché anche questa probabilmente entra in gioco) da una qualche predisposizione congenita.

Da questo punto di vista (ma solo da questo punto di vista) ritengo che possa essere allora recuperato persino il concetto di “grazia”, anche se la grazia come la intendo io è lontanissima dalla grazia che intende il Cristianesimo.

La grazia cristiana, infatti, dipende totalmente da un intervento divino, quindi extra-terreno, del tutto imperscrutabile a noi mortali, con caratteristiche e tratti del tutto discrezionali, che potremmo definire addirittura capricciosi, se ciò non offendesse la sensibilità religiosa dei (cosiddetti) “credenti”.

La grazia come la intendo io è, invece, tutta legata a fattori terreni, di natura biologica, psicologica, relazionale, sociologica, che scienze quali appunto la biologia, la psicologia, la sociologia potrebbero ricostruire perfettamente o almeno per grandi linee, se potessero analizzare l’organismo e la storia del soggetto raggiunto o meno dal fenomeno “grazia”.

Da questo punto di vista il concetto di “grazia”, come la intendo io, è assimilabile al (se non proprio identificabile col) concetto di “caso”.

Che cosa, infatti, può spiegare perché alcuni individui nascono in luoghi dove regnano benessere e pace e altri in luoghi dove predominano povertà e guerra, alcuni nascono in famiglie sane e amorevoli e altri in famiglie sbandate e disamorate, alcuni nascono perfettamente sani ed altri molto malati; a voler indicare indicare solo tre dei molteplici fattori che influenzano profondamente la nostra storia personale?

Che cosa lo può spiegare se non la pura (e capricciosa) casualità?

© Giovanni Lamagna

Gaudium e apertura all’altro.

Non esiste “gaudium”, gioia interiore, se non nell’apertura all’altro.

All’Altro da sé, innanzitutto.

Che è una forma di liberazione dalla prigione del ripiegamento su di sé, a cui pure tende naturalmente e non di rado la nostra anima, a causa in parte della paura della vita e in parte della pigrizia.

Il rapporto con l’Altro da sé, con quella voce interiore che abita in ognuno di noi, anche se spesso non le diamo ascolto, è il primo moto di apertura dell’anima.

E già esso produce automaticamente una prima forma di gaudium, di gioia, espansione interiore; perché ci fa uscire dalla tristezza e dalla malinconia che sono frutti bacati del malsano ripiegamento su di sé.

Il secondo è l’apertura agli altri in carne ed ossa, che è un movimento non esclusivamente intrapsichico e spirituale, come lo era invece il primo, ma anche fisico e materiale.

Il primo movimento senza il secondo è astratto, puramente teorico, quindi falso.

Il secondo senza il primo è superficiale, epidermico, senza profonde radici.

Entrambi da soli non producono vero “gaudium”; per sperimentare la pienezza della vera gioia interiore vanno vissuti entrambi, all’unisono.

© Giovanni Lamagna

Due modi di fare sesso.

Esistono due modi di fare sesso, profondamente diversi tra di loro.

Il primo mira essenzialmente alla penetrazione del fallo nella vagina e all’accettazione-accoglimento del fallo da parte della vagina.

E’ il modo tipicamente maschile (o, perlomeno, quello più diffuso tra i maschi) di fare l’amore o, sarebbe meglio dire, di fare sesso.

Utilizzando al posto della vagina un organo od organi diversi questo è anche il modo di alcuni omosessuali di fare sesso.

E’ un modo che differisce, come è del tutto evidente, poco o nulla dal modo degli altri animali di congiungersi sessualmente.

Esso si basa sulla seguente sequenza, biologico-fisiologica più che psicologica: insorgenza di una pressione ormonale, incontro con lo stimolo sessuale in grado di farla sfogare, accoppiamento, soddisfazione e liberazione della pressione ormonale attraverso l’orgasmo.

Questa modalità di fare sesso abbisogna di tempi molto rapidi: alcuni secondi, al massimo alcuni minuti.

L’altro modo è più tipico della femminilità, nel senso che è più diffuso tra le femmine.

Anche se alcune femmine prediligono pure loro il primo modo: sono forse le femmine che hanno dei problemi non del tutto risolti con la loro sessualità e che vivono (e preferiscono vivere) l’atto sessuale (almeno a livello di fantasia inconscia) come una sorta di violenza da subire e non di relazione del tutto paritaria e reciproca da condividere.

Questa fantasia inconscia, forse (è l’ipotesi che faccio), consente loro di deresponsabilizzarsi rispetto all’atto vissuto e di goderne (quando e seppure ne godono) senza una piena consapevolezza e consensualità.

Questo secondo modo di vivere la sessualità, che ho definito più tipicamente – anche se non necessariamente – femminile, si basa sulla sequenza, che – al contrario della prima – è psicologica almeno allo stesso modo che biologico-fisiologica: insorgenza della pressione ormonale, incontro col potenziale oggetto sessuale, nascita del desiderio, cerimoniali di seduzione, prolungati preliminari sessuali non ancora genitali, accoppiamento (neanche del tutto e sempre indispensabile) degli organi genitali, infine liberazione della pressione ormonale attraverso l’orgasmo.

Per questo modo di fare sesso, la fase dei preliminari, che precede il vero e proprio accoppiamento, è la fase, potremmo dire, più importante del rapporto, quella che lo rende propriamente umano, in quanto lo contraddistingue nettamente dal modo di fare sesso degli altri animali.

In questa fase un ruolo fondamentale, primario, lo rivestono i baci, gli abbracci e le carezze: si fa sesso con l’intero corpo e non solo con gli organi genitali.

Ma lo rivestono anche gli sguardi, gli odori, i profumi, i sapori, i suoni (sospiri, gemiti, urla…): si fa sesso con tutti e cinque i sensi e non solo con uno o, al massimo, due.

Lo rivestono, infine, anche il contesto (mi verrebbe di dire) scenico, il luogo, nel quale si fa sesso (per alcuni deve essere quello tradizionale della camera da letto; altri prediligono la natura, altri ancora posti insoliti e strani, che devono dare il senso della trasgressione…) e poi l’abbigliamento, le movenze del corpo, alcuni gesti allusivi e seduttivi, il ricorso ad alcuni rituali ed oggetti (che potremmo definire feticci) e, per chiudere, l’uso della parola, del racconto, a volte del turpiloquio: si fa sesso non solo col corpo e con i sensi, ma anche (se non soprattutto) con la mente e l’immaginazione, la fantasia.

Inutile dire che questa seconda modalità di fare sesso richiede tempi molto più lunghi del primo: chi la sceglie può arrivare a fare sesso per ore o anche per intere giornate.

In conclusione: nel primo modo di fare sesso (quello che all’inizio ho definito “maschile”, non in quanto genere, ma in quanto categoria, quasi archetipica) il corpo dell’altro è vissuto come puro oggetto, pretesto per un atto che è prevalentemente fisiologico, con caratteristiche che potremmo definire perfino (e al limite) onanistiche.

Nel secondo modo di fare sesso, invece, più che il corpo viene in risalto la psicologia, l’intera persona dell’altro/a; l’atto non è solo sessuale, ma erotico in senso pieno: è un vero incontro con l’altro/a e in quanto tale può essere definito atto d’amore; sesso e amore convergono, si unificano, non sono più separati.

© Giovanni Lamagna

Incontri e destino

Sono convinto che non sia il caso, ma il destino a fare incontrare due persone.

Sia ben chiaro, qui non sto parlando di un destino programmato dagli astri, meno che mai di un destino assegnato da magie e sortilegi, meno che mai di un destino deciso da una qualche volontà divina.

Sto parlando molto più laicamente del destino legato al nostro patrimonio genetico e a quel complesso di esperienze che ci hanno formato e fatto diventare quello che siamo, specie – come ci ha insegnato la psicoanalisi – nell’infanzia e nel contesto socio-ambientale nel quale siamo nati e cresciuti.

In base a questo destino ognuno di noi, chi più e chi meno, si porta inevitabilmente appresso, dentro di sé, nodi psicologici irrisolti, più o meo profondi, più o meno estesi.

E sono proprio questi nodi irrisolti (parti di noi che si devono – o dovrebbero- sciogliere, risolvere, semplificare, organizzare altrimenti, incanalare su strade diverse da quelle su cui l’educazione ricevuta ci ha portato, senza che noi lo volessimo o lo avessimo deciso…) che ci fanno incontrare determinate persone e non altre.

Le persone che incontriamo vengono quindi “scelte” inconsciamente da noi, in base a un sorta/complesso di algoritmi psicologici, di cui siamo il più delle volte del tutto inconsapevoli e, quindi, per la gran parte misteriosi ai nostri occhi, indecifrabili o molto, molto difficilmente decifrabili.

E’ a questa sorta/complesso di algoritmi psicologici che io do il nome di “destino”.

E cosa vuole da noi questo destino, quale compito ci assegna, soprattutto attraverso le persone che incontriamo sulla nostra strada?

La mia risposta a questa domanda è: vuole che sciogliamo i nodi irrisolti che ci portiamo appresso da una vita, vuole che, anche, anzi soprattutto, attraverso la relazione con le persone di cui ci innamoriamo o con cui entriamo semplicemente in relazione, facciamo un ulteriore passo avanti nella nostra crescita umana, specie in quella emotivo-affettiva.

Vuole che introduciamo un elemento di discontinuità, se non di vera e propria rottura, rispetto al nostro passato, che interrompiamo la replica continua, la coazione a ripetere, che hanno fino ad allora caratterizzato il nostro comportamento e le nostre scelte.

Per questo ci innamoriamo di qualcuno o di qualcuna o ne diventiamo amico/a.

A questo qualcuno o qualcuna arriviamo perciò grazie ad una sorta di destino o, meglio, di pensiero inconscio, che ci indica la strada per evolvere, per districare nodi che da soli non saremmo in grado di sciogliere; probabilmente manco con l’aiuto di uno psicoterapeuta.

Forse per questo il sentimento dell’innamoramento (e, in qualche caso, della stessa amicizia) è così forte e travolgente: perché nella persona di cui ci innamoriamo o diventiamo amici intimi intravediamo (ecco perché è impossibile separare l’amore e l’amicizia da un certo quota di egoismo) una via di salvezza per noi, di uscita da un vicolo cieco, la possibilità di nuove aperture da esplorare e nuovi orizzonti da raggiungere.

Ed ecco perché l’amore e l’amicizia durano fin tanto che questo processo di apertura, scioglimento, liberazione, evoluzione si mantiene attivo, vivo.

Muoiono, invece, si estinguono, si esauriscono o quantomeno di assopiscono e appassiscono, quando quel movimento, quel processo, si arenano, finiscono in qualche secca, perdono, in parte o del tutto, la loro carica propulsiva, propellente indispensabile per la nostra evoluzione psicologica.

© Giovanni Lamagna

Che cosa è e cosa dovrebbe e potrebbe essere un rapporto sessuale

Che cosa è (per i più) e che cosa dovrebbe e potrebbe essere (per me) un rapporto sessuale?

La mia impressione è che per molte persone, se non per la maggioranza delle persone, il rapporto sessuale sia poco più che uno sfregamento reciproco dei loro corpi: gesto meccanico, ripetitivo, sempre uguale a se stesso, monotono, per cui, alla lunga, perfino noioso.

Oppure il semplice (e triste) soddisfacimento di un bisogno fisiologico (prevalentemente autoerotico e ben poco condiviso), dovuto ad un periodico aumento di pressione ormonale. Nel corso e al termine del quale si prova un modesto e non proprio entusiasmante piacere.

Nel migliore dei casi, un’occasione, un momento di conferma e rassicurazione affettiva reciproche delle due persone in rapporto. Qualcosa, insomma, che attiene più alla sfera emotiva, sentimentale ed affettiva, che a quella specificamente corporea dell’erotismo, della libido, in senso stretto.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che per la maggior parte degli individui la vita sessuale risulti (alla lunga, una volta esauritasi – ammesso che ci sia mai stata – la breve fase iniziale della passione e dell’entusiasmo) ben poco gratificante, se non del tutto insoddisfacente.

E che, soprattutto ad una certa età, arrivi ad occupare un posto tutto sommato poco o per nulla significativo nella “economia” del loro benessere esistenziale: fisico, emotivo, intellettuale, spirituale in senso lato.

La vita sessuale delle persone, invece, almeno a mio avviso, potrebbe essere molto diversa, molto più soddisfacente, se solo si avesse un poco di consapevolezza in più delle sue enormi potenzialità.

E, soprattutto, se si fosse disposti a liberarsi dei tanti tabù (un misto di paure e di pregiudizi) che ancora oggi l’affliggono, nonostante l’apparente liberazione che essa sembra avere avuto soprattutto negli ultimi 50/60 anni.

Cosa potrebbe (e, a mio avviso, cosa dovrebbe) essere, dunque, un rapporto sessuale?

1.Dovrebbe essere innanzitutto un atto di conoscenza, di vera conoscenza, dell’altra/o.

A questo proposito mi colpisce il fatto che nella Bibbia il verbo “conoscere” venga utilizzato più di una volta per indicare il rapporto carnale, ovverossia il rapporto sessuale.

Viene utilizzato per la prima volta in Genesi 4, 1: “Or Adamo conobbe Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino…”. E viene utilizzato poi in Matteo 1, 25: “Giuseppe non conobbe Maria finché ella generò un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Ora può anche darsi che tale uso fosse dovuto alla pruderie, che impedisce di chiamare una cosa (specie se riguarda il sesso) col suo nome proprio. Anzi è senz’altro così.

E però colpisce (almeno a me colpisce) il fatto che il verbo usato nella Bibbia in alternativa all’espressione “rapporto sessuale” sia proprio quello di “conoscere”. In fondo poteva anche essere usato un altro verbo.

A me piace pensare allora che l’uso di questo termine in qualche modo avvalori (quasi conferma di natura antropologica, visto il suo uso così antico presso la cultura ebraica) la mia tesi che l’atto sessuale è (o almeno potrebbe essere) un vero e proprio atto di conoscenza.

Conoscenza non solo perché nell’atto sessuale si vengono a conoscere parti del corpo dell’altro/a che normalmente non si conoscono, anzi manco si vedono, perché sono coperte, a causa del comune senso del pudore: questa sarebbe una spiegazione piuttosto banale e restrittiva dell’uso del termine.

Bensì conoscenza soprattutto perché l’atto sessuale offre la possibilità di conoscere l’altro/a in una molteplicità di dimensioni, che non si fermano alle sole “parti intime” del corpo (quelle che una volta venivano anche definite “pudenda”, cioè “parti di cui vergognarsi”), ma includono anche (e, forse, soprattutto) le emozioni, i sentimenti, i desideri, le fantasie…, ovverossia il complesso mondo della libido dell’altro/a.

Conoscenza, quindi, che non si ferma, non può concludersi al primo rapporto sessuale. Ma ha bisogno di approfondirsi, crescere, con il ripetersi, il reiterarsi dei rapporti sessuali.

Per cui ogni nuovo rapporto sessuale può essere diverso da quelli che lo hanno preceduto. Quindi non un atto meccanico, stancamente ripetitivo e routinario, come purtroppo è (o prima poi diventa) nella maggioranza dei casi. Ma un atto sempre nuovo, che aggiunge ulteriori tasselli alla conoscenza libidica dell’altro/a, che è potenzialmente infinita, inesauribile.

E sfuggire così al malinconico destino che hanno le storie della maggior parte dei rapporti sessuali: monotonia, stanchezza, noia, rinuncia. Tanto da essere stato definito addirittura (e, secondo me, non a caso) con l’espressione triste di “dovere coniugale”, una delle clausole su cui si fonda il contratto giuridico del matrimonio.

2. In secondo luogo l’atto sessuale dovrebbe e potrebbe essere la situazione esistenziale nella quale si realizza (forse) nella maniera più appagante possibile il bisogno, l’esigenza di trascendenza che sono insiti in ogni esistenza umana.

Gli uomini, infatti, al contrario delle cose, delle piante e degli altri animali, non sono chiamati a “stare” semplicemente in questo mondo; ma sono chiamati ad “esistere”, che è qualcosa di diverso dallo “stare”; perché è uno “stare” che si proietta continuamente fuori, oltre (perciò “esistere”; da “ex”: fuori + “sistere”: “porsi, stare”: “uscire, levarsi”).

Un andare oltre, un uscire da sé, che non presuppone però un mondo altro, oltre questo mondo, perciò meta-fisico; ma un andare oltre per ritrovare sempre nuovi mondi all’interno di questo mondo, un uscire da sé per trovare sempre nuove dimensioni di sé; non certo per allontanarsi, alienarsi da sé.

Da questo punto di vista ogni atto sessuale dovrebbe (e potrebbe) essere un atto di trasgressione, nel senso letterale del termine, dell’ “andare oltre” (“trans” + “ire”).

Non tanto (o non solo) nel senso di trasgredire le norme del comune senso del pudore, ma nel senso di sfidare e superare continuamente le proprie paure, le proprie vergogne, le proprie ritrosie, i propri tabù, confrontandosi in continuazione con i lati e gli aspetti più scabrosi e perturbanti (perché ancora sconosciuti e, quindi, misteriosi) di sé.

3. In terzo luogo, infine, l’atto sessuale, se si realizzasse nelle forme che ho provato a descrivere fin qui, potrebbe essere o diventare una vera e propria esperienza mistica. Come ci insegna una delle più importanti tradizioni orientali: quella tantrica.

Se per mistica intendiamo un’esperienza del tutto laica, che non ha niente a che fare con le religioni tradizionali e con la realtà di un Dio trascendente.

Se per mistica intendiamo l’esperienza della unione il più possibile intima e completa con il Tutto, con l’Universo mondo che ci circonda.

Se per esperienza mistica intendiamo il superamento (almeno spirituale) dei nostri confini per raggiungere il massimo di integrazione e di unione possibili con l’Altro.

L’Altro inteso non solo come la persona con la quale compiamo l’atto sessuale, ma l’Altro come il Tutto cosmico, di cui l’altro psicofisico con cui facciamo l’amore è “solo” la porta d’accesso, anche se necessaria, anzi indispensabile.

In questa esperienza (al contrario delle esperienze mistiche comunemente intese, nelle quali la maggior parte di esse vengono normalmente mortificate) entrano in gioco tutte le facoltà umane, a cominciare da quelle corporee, sensitive, a quelle emozionali, sentimentali ed affettive, per finire a quelle razionali e intellettive.

In un’armonia e in una sintesi, che in poche altre situazioni è possibile raggiungere, almeno a così alti livelli di intensità, di piacere e di gioia psicofisici.

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E mi fermo qui. Nella consapevolezza, però, che il discorso potrebbe continuare ed essere ulteriormente approfondito.

Anche se mi pare che quello fatto fin qui basti e avanzi per dare un’idea, per quanto solo iniziale e molto parziale, di quante grandissime potenzialità contenga l’esperienza sessuale umana.

E di come la maggior parte di noi si accontenti, invece, di sperimentarne solo una minima parte, rinunciando così alle enormi gratificazioni – fisiche, emotive, intellettuali e spirituali – che essa potrebbe donarci.

Offrendo indubbi argomenti alla famosa (ma per me non convincente) tesi lacaniana della “impossibilità del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Le tre fasi principali di una psicoterapia

Una terapia psicologica, di qualsiasi natura e scuola essa sia, ha un suo protocollo, una sua procedura fondamentali, che sono essenzialmente simili, se vuole risultare efficace.

Essi sono fatti di alcune tappe essenziali, che ricorrono (ripeto) in ogni psicoterapia, che sia riuscita ad affrontare i problemi del soggetto in terapia e in qualche modo, nella misura umanamente possibile, a risolverli.

1).La prima tappa è quella di entrare in contatto col desiderio profondo del soggetto, di prenderne visione il più possibile piena, di portare quindi allo scoperto tutto ciò che fino ad allora era stato da lui(lei) rimosso, sotto l’oppressione di una Legge non scritta, ma ben presente, anzi conficcata, nella sua coscienza.

La prima tappa è, quindi, essenzialmente e per sua natura sovversiva, destabilizzante, di ribellione alla legge e di liberazione della libido, ovvero del desiderio profondo.

In questa fase la psicoterapia è (e non può non esserlo) essenzialmente trasgressiva. Il “paziente” che non riesce a compiere questa trasgressione si ferma subito, fallisce la sua analisi; ancor prima di cominciarla.

Egli può affrontare questa prima fase (a dire il vero, anche le altre due, ma soprattutto questa prima fase) solo grazie al sostegno del suo terapeuta, che è (diventa) per lui(lei) un nuovo padre e una nuova madre, grazie al famoso meccanismo del transfert, per cui il paziente trasferisce sul suo terapeuta tutti suoi desideri e le paure/resistenze che contrastano con questi desideri.

2) La seconda tappa è quella di guardare in faccia fino in fondo la Legge che fino ad allora opprimeva il desiderio, gli impediva di affiorare, gli impediva perfino di riconoscersi.

E’ questo un percorso che potremmo definire autobiografico, che mira a ricostruire le fasi attraverso le quali si è costituita la Legge nel corpo, nel cuore e nella mente del soggetto in analisi.

Questo percorso non può non riandare alla prima infanzia, alla fanciullezza e poi all’adolescenza del soggetto, alle sue figure primarie di riferimento: in primis ai suoi genitori o, in assenza, alle eventuali figure sostitutive di questi.

Per ricostruire e riconoscere il tragitto attraverso il quale è venuta a costituirsi la Legge, che ha oppresso ed, in alcuni casi, addirittura castrato, annullato, ucciso il desiderio.

In questa fase il soggetto impara ad esercitare il suo discernimento, a distinguere ciò che è giusto ed è sano, perché ha un fondamento razionale, della Legge che gli è stata autoritariamente inculcata (quindi da accettare) e ciò che è falso, insano, perché irrazionale, immotivato, inutilmente castratore del desiderio (quindi da respingere e rifiutare).

3) Così un poco alla volta inizia la terza ed ultima fase dell’analisi, quella che si spera la concluda positivamente.

Il soggetto, dopo aver visto e riconosciuto il suo Desiderio, dopo aver sfidato la Legge esterna, quella che gli era stata imposta da autorità esteriori, si rende conto che la Realtà, il Mondo esterno gli pone di fatto dei limiti, pone dei limiti al suo desiderio.

Prende consapevolezza, dunque, che il suo desiderio non è e non può essere onnipotente, ma che deve confrontarsi con la dimensione del Limite, questa volta reale e non fantasmatico.

E allora comincia a porre dei confini ai suoi desideri, che tenderebbero a debordare, a diventare assoluti, cioè sciolti da ogni limite.

In questa operazione o fase la Legge rinasce e si oppone al Desiderio, ma è una Legge ben diversa dalla Legge alla quale il soggetto si era ribellato nella prima fase dell’analisi: non è più una Legge esterna, esteriore, dettatagli dagli Altri, ma è una Legge tutta interna, interiore, che si dà lui stesso e autonomamente.

Se questa operazione va a buon fine, nel senso che Desiderio e Legge finalmente si incontrano (non più scontrano) e fanno pace, allora l’analisi può dirsi conclusa.

Anche se l’analisi, come dice Freud in uno dei suoi ultimi libri, nello splendido “Analisi terminabile e interminabile”, non può mai dirsi veramente conclusa.

Essa dovrà anche in seguito alla conclusione della psicoterapia affrontare altri momenti dialettici di scontro tra Desiderio e Legge, tra i quali la ricomposizione/pacificazione non sarà mai raggiunta una volta e per tutte.

Con la conclusione dell’analisi il soggetto avrà però appreso il metodo, il modo per affrontare i nuovi problemi e i nuovi momenti di inevitabile e mai del tutto risolta conflittualità.

Momenti che ci si augura avranno perciò caratteristiche meno drammatiche e violente della prima volta in analisi.

© Giovanni Lamagna