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Nasce prima l’odio o nasce prima l’amore?
“L’odio è più antico dell’amore”?
Come sostiene Freud in “Pulsioni e loro destini” (OSF, vol. 8, p.34).
Non ne sono sicuro.
A mio avviso non c’è un “prima” e un “dopo”.
Ma odio e amore nascono insieme, si intrecciano, formano un impasto indistinto.
Per cui non c’è amore senza una qualche traccia di odio.
E non c’è odio senza una qualche traccia di amore.
© Giovanni Lamagna
Attaccamento alla vita e amore per la vita.
L’attaccamento eccessivo alla vita non equivale affatto all’amore per la vita.
L’amore per la vita, infatti, presuppone un certo distacco dalla vita stessa.
Un atteggiamento di abbandono, che è il contrario dell’attaccamento, dell’aggrapparsi alla vita.
L’amore per la vita mette in conto (e vi si conforma) anche il destino inesorabile della vita.
Che è la morte.
Ama la vita nonostante la morte.
L’attaccamento alla vita, invece, rimuove, respinge, l’idea della morte.
© Giovanni Lamagna
Fedeltà e tradimenti.
La cosiddetta “fedeltà” nei rapporti di amore ha ben poco a che fare con il sesso; perlomeno col sesso effettivamente praticato.
Ci sono rapporti nei quali non c’è mai stato un tradimento fisico, sessuale, ma che sono pieni di tradimenti mentali, psicologici.
E ce ne sono altri, nei quali i due partner si concedono parecchie scappatelle sessuali, ma nei quali esiste una sostanziale fedeltà mentale, di anima.
I primi (tradimenti) sono molto più significativi e minano la solidità della coppia molto più dei secondi.
© Giovanni Lamagna
Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.
Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.
Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.
In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.
Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.
In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.
Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.
Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.
p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.
Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.
© Giovanni Lamagna
Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?
Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.
Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.
Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.
Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.
Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.
Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.
Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.
Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.
In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.
Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!
Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.
Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.
© Giovanni Lamagna
Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.
James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.
Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.
Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.
Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.
1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.
Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.
L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.
2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.
In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.
Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.
L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.
3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…
Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.
4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.
Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.
Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.
Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.
Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.
La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.
Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.
5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.
“Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.
“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.
“Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.
Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.
Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.
© Giovanni Lamagna
Intelligenza e amore.
Senza intelligenza l’amore è cieco.
Va a sbattere.
Ma senza amore l’intelligenza è fredda e arida.
Triste!
© Giovanni Lamagna
Sesso e amore.
Quando il sesso è strappato con violenza, certo non vede la presenza dell’amore: in questo caso sarebbe assurdo parlare di amore.
Ma, quando il sesso è condiviso, è desiderato da entrambe le parti, non è mai totalmente privo di amore.
Anche se il rapporto finisse lì, un attimo dopo aver copulato; quell’attimo sarebbe stato pur sempre un momento di amore.
Breve, fine a sé stesso, ma pur sempre un momento di amore.
Come quando due persone si scambiano un sorriso in metropolitana o un uomo fa sedere al suo posto una signora.
Anche questi – in fondo – sono gesti di amore.
Piccoli, ma comunque gesti di amore.
© Giovanni Lamagna
L’amore per gli altri.
L’amore per gli altri è premio a sé stesso.
Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.
Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.
Che è pura illusione.
In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.
Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.
Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.
E, quindi, è terapeutico.
Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.
© Giovanni Lamagna