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Alcune (almeno per me) utili distinzioni terminologiche a proposito di integralismo, pluralismo, relativismo, democrazia, conflitto, dialogo e nonviolenza.
Non tutti i valori per me sono uguali; anzi quelli che per alcuni sono valori per me sono disvalori; e viceversa.
Meno che mai tutte le opinioni hanno per me lo stesso valore.
Non possiamo mettere indistintamente tutto – valori e opinioni – sullo stesso piano, come se fossero componenti di un’unica melassa.
Per ognuno di noi esiste (e deve esistere) una gerarchia di valori.
Ci saranno, inoltre, opinioni con le quali concordiamo, altre con le quali concordiamo solo in parte, altre dalle quali dissentiamo del tutto
Dichiararsi contro ogni integralismo e a favore del pluralismo etico e delle idee non equivale per me a sostenere la posizione opposta; e cioè che tutti i valori e tutte le idee sono eguali.
Perché questo sarebbe relativismo; che è altra cosa dal pluralismo.
Io sono per il rispetto massimo nei confronti dei valori e delle idee altrui, fossero anche ai miei occhi del tutto negativi e deteriori.
Per me vale l’antica massima “non sono d’accordo con le tue idee, ma darei la vita perché tu le possa sostenere”.
E tuttavia, per me, rispettare i valori e le idee altrui non solo non significa (come è del resto ovvio) che io li debba condividere; ma non significa manco che non li possa criticare e, in certi casi, perfino combattere.
Ovviamente (almeno per quanto mi riguarda) con le sole “armi” della nonviolenza.
D’altra parte questa è la democrazia: un regime politico nel quale non mancano (anzi è bene che ci siano) i conflitti, nel quale le idee (e, quindi anche i valori) si confrontano e spesso osteggiano.
Ma all’interno di un quadro di regole nonviolente.
Anzi possibilmente (questo sarebbe l’ideale!) in un clima di dialogo, nel quale ciascuno tende a persuadere, a convincere l’altro.
Non a sconfiggerlo; e, meno che mai, a distruggerlo, ad annullarlo.
© Giovanni Lamagna
Freud: pensatore conservatore o progressista?
Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.
Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.
Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?
No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.
Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.
Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).
E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.
Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.
Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:
“Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.
Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.
Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.
Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)
Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.
Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.
© Giovanni Lamagna
Sulla democrazia
La verità non sempre corrisponde all’opinione della maggioranza.
Ma per la democrazia non esiste altro metodo, per prendere delle decisioni, che quello di tener conto dell’opinione della maggioranza.
Se ne deduce che la democrazia non è un sistema politico perfetto.
E, pur tuttavia, tra i sistemi politici che gli esseri umani hanno inventato e realizzato nella storia, è comunque, valutati i pro e i contro, quello meno imperfetto.
© Giovanni Lamagna
Perché sussista una vera democrazia…
L’uguaglianza legale (“tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”) e quella civile (“tutti i cittadini godono di uguali diritti”) sono fondamentali, ma non bastano perché sussista una vera democrazia, cioè il “governo del popolo”.
In quanto i diritti legali e quelli civili garantiscono una uguaglianza solo formale.
Affinché tra i cittadini regni, invece, un’uguaglianza piena, vera ed effettiva, occorre che lo Stato garantisca anche la loro uguaglianza economica sostanziale.
Definendo un tetto massimo ai redditi più alti ed uno minimo a quelli più bassi.
Ostacolando e limitando al massimo gli oligopoli e favorendo il più possibile la distribuzione delle proprietà.
© Giovanni Lamagna
Marx, democrazia e dittatura del proletariato
Per Marx lo Stato è sempre una dittatura.
“… è irrilevante il COME si governa, mentre acquista rilievo il problema di CHI governa (borghesia o proletariato)”.
Io non sono d’accordo. Per me ci sono dittature e dittature. E non è rilevante solo CHI governa, ma anche il COME si governa.
Anche io vorrei che a governare fosse il proletariato, in quanto espressione la più ampia possibile del popolo, quindi “classe generale”.
Ma vorrei che il proletariato governasse rispettando le regole della democrazia, anche di quella formale.
Considero, infatti, la democrazia, pur con tutti i suoi limiti, la miglior forma di governo fino ad ora inventata dall’uomo.
Sono, insomma, contrario alla “dittatura del proletariato”, come lo sono ad ogni altra forma di dittatura.
© Giovanni Lamagna
Sull’idea di comunità.
Nel numero 6/2018 di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, in un suo articolo, sostiene: “La logica della comunità… è la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi, autoritari e dogmatici.
Una logica che annienta proprio quel ciascuno che tutti noi siamo, esistenze singolari e irripetibili intorno a un nucleo di opinione irriducibilmente libera. E in nome di cui nessuna collettività, nessuna ipostasi, può parlare, senza ridurre l’individuo a mera replica. Per cui, parafrasando Marx, andrà sempre ricordato che una comunità può essere libera senza che liberi siano gli individui che la compongono”.
Ora, a mio avviso, tali affermazioni sono senz’altro vere e condivisibili, se riferite ad alcune tesi politiche attuali, quali ad esempio quelle sovraniste oggi tanto in voga, in primis quelle portate avanti dalla Lega (ex Nord) di Matteo Salvini.
Non lo sono, se riferite alla nozione stessa di “comunità”, quale categoria filosofica, sociologica e finanche religiosa, se per religione intendiamo una visione del mondo, più e prima che la sua incarnazione storica in una Chiesa.
Vorrei provare, quindi, a confrontarmi con le affermazioni di Flores, contestandole e smentendole in buona sostanza, almeno in alcuni loro passaggi.
Partendo da una domanda: la logica della comunità è davvero solo “la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi e autoritari e dogmatici”?
La mia risposta è: dipende da che cosa intendiamo, quando pensiamo al concetto di “comunità”. Perché ci sono comunità e comunità: non tutte le comunità concretamente esistenti (o esistite) sono, infatti, da far rientrare nella stessa categoria filosofica e perciò astratta di “comunità”.
Se per comunità intendiamo un gruppo chiuso, che si fonda sulla condivisione di credenze inossidabili, ritenute verità rivelate e perciò dogmatiche, dunque assolute, eterne e indiscutibili, sulla presunzione di possedere la Verità da trasmettere o perfino imporre a color che ne sono ritenuti privi, sulla fede e obbedienza ad un’autorità a cui si attribuiscono poteri sacri o addirittura derivati da Dio stesso, sulla emarginazione dal gruppo di colui o coloro che si permettano anche solo minimamente di avanzare dubbi, riserve, critiche, perplessità riguardo sia ai valori fondanti del gruppo che alle “autorità” che quei valori sono chiamati a custodire, sulla appartenenza alla stessa etnia o, perfino, nei casi estremi sui soli legami di sangue, se per comunità intendiamo, quindi, un gruppo che vive sulla difensiva o, in alcuni casi, sulla competizione e, perfino, sulla guerra con i gruppi “stranieri”, allora la “comunità” effettivamente è quello che dice Flores d’Arcais, cioè un ghetto.
Ma la comunità è solo questo? O, meglio, dato per scontato che alcune (molte) comunità sono quello che sostiene Flores, nel concetto di comunità rientra solo questo? Per comunità dobbiamo intendere solo lo scenario che ne ha descritto Flores, anche se esso è effettivamente e indubbiamente un’esatta e precisa descrizione di alcune (molte) comunità?
Io dico di no. Io dico che ci può essere, anzi c’è, un’altra idea di comunità. E che questa (in parte almeno) è stata non solo teorizzata ma anche praticata (e tuttora viene praticata) in alcune realtà. Realtà magari piccole, minoritarie, ma che non per questo vanno ignorate o escluse dal vocabolario che definisce il concetto di “comunità”.
Per “comunità” noi possiamo intendere anche altro. Io personalmente così la intendo. La comunità è innanzitutto un luogo, un gruppo che mette insieme le persone non certo in base alle etnie e manco in base ai legami familiari, ma sulla base di una scelta, di una decisione/adesione libere e consapevoli (quindi senza nessuna forma di coartazione, né fisica né psicologica, né plateale né subliminale), del singolo individuo. Altro che individuo, quindi, come “mera replica” del gruppo!
Per comunità, inoltre, possiamo intendere un gruppo di persone che si mettono insieme sulla base di alcuni interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Parliamoci chiaro: nessun gruppo nasce, potrebbe nascere, senza un denominatore comune, costituito appunto da interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Ma, rispetto alla logica della comunità-ghetto, questi interessi, opinioni, convinzioni… possono anche non avere nulla di dogmatico e di rigido. Bensì aperti al confronto con interessi, opinioni, convinzioni… diversi di altri gruppi.
La comunità che intendo io è una comunità fondata sul dialogo con le diversità, sulla collaborazione e sulla cooperazione e non sulla competizione e sulla ostilità della comunità-ghetto.
E’ una comunità che ha sposato convintamente il motto (erroneamente attribuito a Voltaire, in realtà di una sua amica-discepola, la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
E’, insomma, una comunità aperta al pluralismo delle idee e niente affatto integralista.
E’ un gruppo che, come tutti i gruppi, ha una sua leadership, ma essa è di natura democratica e per nulla autoritaria. Il leader è tale per le sue qualità umane, cioè caratteriali, relazionali, intellettuali, spirituali. Viene riconosciuto quindi come tale dal gruppo e non investito dall’alto e subìto dal gruppo.
Tanto è vero che, nel momento in cui egli non dovesse più esprimere il sentire e la volontà della comunità, questa prevede (formalmente o informalmente) meccanismi piuttosto semplici, fluidi e rapidi per la sua sostituzione con altra persona ritenuta più adeguata alla funzione.
In questo tipo di comunità il leader è un “primus inter pares” e la struttura psicodinamica del gruppo è circolare e non verticale, come invece lo è nelle comunità-ghetto, di cui parlava Flores.
Infine, la comunità, per come la intendo io, è tenuta insieme dal sentimento caldo e affettuoso dell’amicizia fraterna e non dalla condivisione di una fede fanatica, che lascia in realtà estranei gli uni agli altri i membri della comunità-ghetto.
La comunità di cui parlo io è un gruppo, nel quale si pratica concretamente, non solo a parole, ed è quindi realizzato il motto del 1789: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.
E’ un gruppo nel quale l’individuo lungi dall’essere sacrificato e mortificato (come avviene nelle comunità-ghetto dei paesi sottosviluppati, ma anche nelle società-massa dei paesi cosiddetti ipersviluppati) è esaltato al massimo, è considerato una persona umana e non un soggetto anonimo.
E’ un gruppo allora che realizza pienamente, almeno nel micro, gli ideali che la rivoluzione francese avrebbe voluto realizzare nel macro e che in realtà non furono mai portati a compimento, perché realizzati solo in minima parte; certamente molto poco (o per niente) per quanto riguarda la dimensione della fraternità.
E’, quindi, in qualche modo, la prefigurazione micro di una società “altra” rispetto a quella macro nella quale pure è inserita.
Una realtà micro, fondata sui principi-ideali della libertà individuale, della laicità, del pluralismo, della tolleranza, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della fraternità, che aspira (perché no?) a diventare macro.
Ma senza coltivare alcun fanatismo, senza teorizzare alcuna prevaricazione e, soprattutto, senza praticare nessuna forma di violenza, ma utilizzando esclusivamente gli strumenti e le vie della democrazia formale e sostanziale.
© Giovanni Lamagna
Corsi e ricorsi storici
Sembra proprio che la Storia proceda per corsi e ricorsi, come aveva detto Giambattista Vico.
Infatti, possiamo osservare che a periodi in cui predomina il vento della libertà (sia pur sempre relativa e parziale), che si manifesta in genere nella forma di governo comunemente denominata “democrazia”, fanno seguito fasi in cui predominano il caos, la confusione, il disordine, la babele delle lingue, i conflitti permanenti e paralizzanti, il dibattito inconcludente, e in certi momenti addirittura l’anarchia, che originano il quasi naturale e diffuso bisogno di ordine, di un qualsivoglia ordine, purché restituisca alla società un potere, un qualsiasi potere: è questa la fase in cui si afferma un governo autoritario, un governo dei pochi sui molti (oligarchia) o, addirittura, il governo di uno solo sul resto degli altri resi sudditi (monarchia o dittatura ovverossia tirannide).
Queste cose le avevano comprese molto bene già gli antichi Greci, in modo particolare (e per primi) Platone e Aristotele.
Ma chi elaborò in forma sistematica la teoria dell’alternarsi ciclico dei regimi politici (l’anaciclosi) fu Polibio, che in qualche modo, quindi, anticipò il pensiero di Machiavelli e, perfino, quello di Vico.
Possiamo negare, alla luce degli eventi storici, anche quelli più recenti e più vicini a noi, che Polibio ci avesse azzeccato, che avesse visto giusto?
Giovanni Lamagna