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“Desiderio di società” o desiderio di comunità?

Ad un certo punto del suo libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis Minima; 2019), tra pag. 61 e pag. 64, Sartre e il suo intervistatore Benny Levy parlano di “desiderio di società”.

E Sartre sostiene che bisogna definirlo bene.

Per lui “non è la democrazia”; tantomeno “la pseudo-democrazia della Quinta Repubblica” francese.

“Non è neanche il rapporto socioeconomico che Marx ha contemplato.”.

“Si tratta di un rapporto completamente diverso degli uomini tra di loro.”.

Riflettendo su queste parole, mi viene allora di dire che il “desiderio di società” di cui parla Sartre è piuttosto un “desiderio di comunità”; e come tale andrebbe dunque definito.

In una società, infatti, anche la più socialdemocratica possibile, perfino in una società comunista, i rapporti tra gli uomini rimangono piuttosto freddi, anonimi e impersonali.

Sono rapporti improntati tutt’al più al valore dell’uguaglianza e della giustizia, non a quelli dell’amore e della fraternità.

E’ in una comunità (e solo in una vera comunità) che i rapporti tra gli uomini diventano caldi, affettuosi e personalizzati, come forse (azzardo a pensare) l’intendevano e volevano dire Sartre e il suo intervistatore nel libro citato.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Sui concetti di comunità democratica, reciprocità, eguaglianza, condivisione, comune, comunione, identità, setta, raggruppamento

Nel libro “Critica della ragione psicoanalitica” (Ponte alle Grazie, 2020), tra pag. 34 e pag. 35, Massimo Recalcati così scrive: “La condizione per una comunità democratica di eguali non è la reciprocità (mito incestuoso di una società dove “uno vale uno”; secondo Lacan luogo della rivalità immaginaria più oscena), ma l’assenza di reciprocità, ovvero, quello che Facchinelli qui definisce come l’eguaglianza tra i non eguali. In altre parole, seguendo Jean-Luc-Nancy, la condizione della condivisione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’incondivisibile; la condizione del “comune” è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione. Nel lessico di Facchinelli si tratta, come vedremo tra poco, del rapporto sempre conflittuale tra tendenza alla settarizzazione e la spinta all’accomunamento che caratterizza la vita di ogni insieme umano.

Ci sono alcuni passaggi in questo testo che non condivido (almeno nella loro formulazione letterale), anche se metto in conto che forse non li ho capiti.

Non capisco, per incominciare, perché una comunità democratica non dovrebbe basarsi sulla “reciprocità”, ma dovrebbe invece fondarsi addirittura sulla “non reciprocità”.

A me (che sono cresciuto da ragazzo in ambito cristiano-cattolico) è stato insegnato “l’amore reciproco” ed io ho sempre pensato che era questo a fondare una qualsiasi forma di raggruppamento comunitario: da quello “di sangue” della famiglia a quello scelto e informale del gruppo di amici, fino a quello (più o meno istituzionale) di una comunità unita da ideali e forme di impegno di vario tipo: umanitario, sociale, intellettuale…

Non capisco, dunque, perché la “reciprocità” sarebbe, invece, inevitabilmente un “mito incestuoso… luogo della rivalità immaginaria più oscena”, come sostiene Lacan.

Certo, non mi sfugge che una comunità possa essere o diventare quello che denuncia Lacan. Non capisco, però, perché lo debba essere necessariamente, inevitabilmente, fatalmente, per sua struttura intrinseca, come mi sembra di leggere nel passo su citato.

Per me la comunità può essere benissimo allo stesso tempo un luogo di legami forti, stretti, di interdipendenza, ed il luogo della distinzione, della individuazione, dei confini netti e ben distinti tra le persone che la compongono, dotate ciascuna di una sua peculiare identità e autonomia.

Sono d’accordo che in una comunità le persone che la compongono non sono (e non debbono essere) uguali, cioè omologate, in quanto ognuna di esse è e deve restare diversa, con sue caratteristiche (e competenze) proprie e specifiche.

Il che non impedisce (o, meglio, non dovrebbe impedire) che esse siano eguali, nel senso profondo, valoriale, assiologico, della parità dei diritti e dei doveri, della “uguale” dignità umana.

Da questo punto di vista l’espressione “uno vale uno” torna ad avere allora un senso e un suo pieno e alto valore sul piano della democrazia (livello istituzionale) oltre che su quello della fraternità (livello dei rapporti interpersonali).

Non capisco inoltre (per continuare il mio commento) espressioni come “la condizione che rende possibile la vita della comunità come vita aperta è il riconoscimento dell’esistenza dell’’incondivisibile” o “la condizione del comune è il riconoscimento dell’assenza del comune, dell’impossibilità di ridurre la comunità a comunione”.

Certo, se esse vogliono dire che in una qualsiasi comunità c’è sempre un quid che non sarà mai del tutto e pienamente condiviso e condivisibile da tutti, se esse vogliono dire che una comunione totale (che poi vorrebbe dire la fusione, la simbiosi totale) è impossibile (e manco auspicabile), sono d’accordo.

Ma allora vanno dette in maniera diversa, meno apodittica e più articolata.

Cosa sarebbe, infatti, una comunità, per quanto aperta e non chiusa essa voglia essere e rimanere nel tempo, se non avesse delle cose (anzi molte cose) da condividere, se non ci fosse un “comune” che la tiene unita, se “comunità” non significasse anche “comunione” di anime e perfino di corpi, di beni spirituali e persino (in alcuni casi) materiali?

Concordo, infine, nel segnalare il rischio che una comunità diventi una setta e nell’indicare l’opportunità che essa rimanga invece sempre aperta e in dialogo con l’esterno, con i diversi e con le diversità.

Ma questo non mi porta a pensare che una comunità possa costituirsi e durare senza una sua identità ben precisa e autonoma, che la distingua da altre comunità.

In altre parole, il termine “identità”, per me, non è sinonimo (ovviamente negativo) di separatismo o, addirittura, di settarismo e di chiusura.

Esistono indubbiamente le identità chiuse, integraliste e intolleranti verso le diversità, ma esistono anche le identità aperte e disponibili al dialogo e al confronto con l’altro da sè.

Di questa “verità”, d’altra parte, ci dà conferma utile anche ciò che accade a livello intrapsichico.

Come ci ha insegnato Erich Erikson, nella vita affettiva di una persona adulta non è possibile l’esperienza dell’intimità, cioè di relazioni salde, calde e significative (quindi potremmo dire – anche e per estensione – l’esperienza della comunità), se la persona non ha raggiunto, al termine della sua adolescenza, una forte e salda identità individuale, se non ha completato il suo percorso di “individuazione”, come avrebbe detto Jung.

© Giovanni Lamagna

Sulla democrazia

La verità non sempre corrisponde all’opinione della maggioranza.

Ma per la democrazia non esiste altro metodo, per prendere delle decisioni, che quello di tener conto dell’opinione della maggioranza.

Se ne deduce che la democrazia non è un sistema politico perfetto.

E, pur tuttavia, tra i sistemi politici che gli esseri umani hanno inventato e realizzato nella storia, è comunque, valutati i pro e i contro, quello meno imperfetto.

© Giovanni Lamagna

Perché sussista una vera democrazia…

L’uguaglianza legale (“tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”) e quella civile (“tutti i cittadini godono di uguali diritti”) sono fondamentali, ma non bastano perché sussista una vera democrazia, cioè il “governo del popolo”.

In quanto i diritti legali e quelli civili garantiscono una uguaglianza solo formale.

Affinché tra i cittadini regni, invece, un’uguaglianza piena, vera ed effettiva, occorre che lo Stato garantisca anche la loro uguaglianza economica sostanziale.

Definendo un tetto massimo ai redditi più alti ed uno minimo a quelli più bassi.

Ostacolando e limitando al massimo gli oligopoli e favorendo il più possibile la distribuzione delle proprietà.

© Giovanni Lamagna

Marx, democrazia e dittatura del proletariato

Per Marx lo Stato è sempre una dittatura.

“… è irrilevante il COME si governa, mentre acquista rilievo il problema di CHI governa (borghesia o proletariato)”.

Io non sono d’accordo. Per me ci sono dittature e dittature. E non è rilevante solo CHI governa, ma anche il COME si governa.

Anche io vorrei che a governare fosse il proletariato, in quanto espressione la più ampia possibile del popolo, quindi “classe generale”.

Ma vorrei che il proletariato governasse rispettando le regole della democrazia, anche di quella formale.

Considero, infatti, la democrazia, pur con tutti i suoi limiti, la miglior forma di governo fino ad ora inventata dall’uomo.

Sono, insomma, contrario alla “dittatura del proletariato”, come lo sono ad ogni altra forma di dittatura.

© Giovanni Lamagna

L’uomo nuovo di Nietzsche e l’uomo nuovo di Cristo.

Per me è vero quello che afferma Nietzsche (come mi ricorda il mio amico Lino Picca nel suo bel libro “Alla ricerca di senso”): “l’uomo nuovo, rappresentato dall’oltre-uomo”, che si libera di tutte le autorità, consapevole di essere la fonte di tutti i valori e del senso stesso delle cose e della vita, non è un modo di essere raggiungibile da tutti gli uomini, ma è prerogativa, privilegio solo di una ristretta élite.

D’altra parte questo pensiero di Nietzsche è l’equivalente di quello che aveva già affermato Gesù Cristo 18 secoli prima del filosofo tedesco, con altre parole, però anch’esse molto vere: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Matteo; 22, 14).

Anch’io penso, come Nietzsche, che (ancora oggi) pochi siano gli uomini capaci di liberarsi dal giogo dei comandamenti esterni, a loro imposti da quello che il filosofo tedesco chiama “il tempo della metafisica”.

Anch’io penso che la maggior parte degli uomini siano ancora oggi come “l’uomo cammello”, di cui parla Nietzsche, succubi delle regole e delle prescrizioni soffocanti che sono loro imposti dall’esterno e che essi accettano pazienti, umili e schiavi, come il cammello, appunto, che si inginocchia e si fa mettere sulla schiena, senza ribellarsi, un pesante fardello.

Pochi sono gli “uomini leone”, di cui pure parla Nietzsche, cioè gli uomini che si ribellano ai comandamenti e alle prescrizioni esterne e decidono di obbedire solo ai comandamenti interni. Gli uomini che al “tu devi”, di kantiana memoria, sostituiscono l’ “io voglio”, dell’uomo nuovo, liberatosi dalle catene del tempo della metafisica.

Fatta questa premessa, non ci sono dubbi, però, che l’analogia, tra gli eletti di cui parla Nietzsche e quelli di cui parla Gesù, finisce qui.

Innanzitutto perché la élite di cui parla Gesù non è una élite dominatrice, come, invece, la immagina Nietzsche. Ma, anzi, è una élite chiamata, paradossalmente, addirittura a servire.

Come ci racconta il Vangelo di Marco (10; 42-45): “42Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. 43Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, 44e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.45Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».”

E poi perché la élite di cui parla Gesù è una élite provvisoria, chiamata a farsi lievito affinché anche gli altri uomini (quelli restati a far parte del gregge) scoprano e vivano, prima o poi, il “regno di Dio”, considerato come il Regno di tutti coloro che non sono solo “chiamati”, ma si fanno anche “eletti”, il Regno di tutti coloro che, liberatisi delle catene dell’antica schiavitù, scoprono la libertà dell’essere “figli di Dio”, metafora dell’essere pienamente umani.

La élite di cui parla, invece, Nietzsche non è solo momentaneamente ristretta, ma è destinata a rimanere tale in eterno, chiamata, dunque, a dominare gli altri uomini, rimasti nella condizione di gregge e condannati dalla natura a rimanere pecore, anzi cammelli, per usare la metafora a cui fa ricorso Nietzsche.

La élite di cui parla Gesù è la élite che anima (potremmo dire con un linguaggio certo non suo, perché non apparteneva ai suoi tempi, ma che probabilmente egli oggi avrebbe condiviso) la democrazia.

Non è la élite aristocratica, fatta di superuomini che tengono sotto il loro giogo gli uomini gregge, di cui parla Nietzsche, avvalorando, in questo caso e per innegabili aspetti, la lettura che di lui hanno inteso dare nel secolo XX° ideologie autoritarie (e per me devastanti), come, in primo luogo, fu il nazismo.

Insomma, tra l’uomo nuovo di cui parla Nietzsche e l’uomo nuovo di cui parla Cristo esistono delle abissali differenze.

Ed io non ho dubbi su quale dei due preferire: per me l’uomo nuovo di Cristo è di gran lunga più “nuovo” di quello di Nietzsche. Anche per questo lo preferisco.

Giovanni Lamagna

Corsi e ricorsi storici

Sembra proprio che la Storia proceda per corsi e ricorsi, come aveva detto Giambattista Vico.

Infatti, possiamo osservare che a periodi in cui predomina il vento della libertà (sia pur sempre relativa e parziale), che si manifesta in genere nella forma di governo comunemente denominata “democrazia”, fanno seguito fasi in cui predominano il caos, la confusione, il disordine, la babele delle lingue, i conflitti permanenti e paralizzanti, il dibattito inconcludente, e in certi momenti addirittura l’anarchia, che originano il quasi naturale e diffuso bisogno di ordine, di un qualsivoglia ordine, purché restituisca alla società un potere, un qualsiasi potere: è questa la fase in cui si afferma un governo autoritario, un governo dei pochi sui molti (oligarchia) o, addirittura, il governo di uno solo sul resto degli altri resi sudditi (monarchia o dittatura ovverossia tirannide).

Queste cose le avevano comprese molto bene già gli antichi Greci, in modo particolare (e per primi) Platone e Aristotele.

Ma chi elaborò in forma sistematica la teoria dell’alternarsi ciclico dei regimi politici (l’anaciclosi) fu Polibio, che in qualche modo, quindi, anticipò il pensiero di Machiavelli e, perfino, quello di Vico.

Possiamo negare, alla luce degli eventi storici, anche quelli più recenti e più vicini a noi, che Polibio ci avesse azzeccato, che avesse visto giusto?

Giovanni Lamagna