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Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

Sviluppo dell’autonomia e sviluppo del linguaggio.

C’è un rapporto strutturale tra lo sviluppo dell’autonomia di un bambino – che significa distacco, separazione simbolica e, almeno in parte, anche reale dalle figure genitoriali (specie da quella materna) – e sviluppo del linguaggio, della padronanza nell’uso della parola da parte dello stesso bambino.

Fin quando un bambino rimarrà attaccato alle figure genitoriali avrà difficoltà ad apprendere l’uso del linguaggio; e ciò creerà in lui una sorta di circolo vizioso: più egli si sentirà incerto nel parlare, più avvertirà il bisogno di rimanere aggrappato alle figure genitoriali, specie a quella materna.

© Giovanni Lamagna

Sacro.

Bisognerebbe imparare a dare alla propria vita una solennità di natura quasi liturgica.

Come se ogni nostro gesto, ogni nostra azione, ogni nostra parola costituissero un rito sacro.

Consapevoli che ogni momento della nostra vita è assolutamente irripetibile e, quindi, unico.

© Giovanni Lamagna

Viene prima il corpo o viene prima l’anima?

Giovanni evangelista afferma: “In principio era il Verbo… Ed il Verbo si fece carne.” (1, 1-14).

Io penso esattamente il contrario.

Penso che in principio c’era la carne (cioè il corpo, la materia) e che la carne successivamente, un poco alla volta, si sia fatta verbo, cioè parola.

E, quindi, coscienza, consapevolezza di sé.

Il principio primo è per me la materia; solo successivamente viene, subentra l’anima.

Come evoluzione, superfetazione della materia

© Giovanni Lamagna

Solitudine e Sè.

Chi cerca e vuole trovare sé stesso deve scendere nel fondo più profondo di sé stesso, laddove rimarrà solo, completamente, al primo impatto anche desolatamente, solo, come chi si avventura in abissi marini, senza alcuna compagnia ed assistenza.

Nella solitudine più totale, quando più nessun appiglio per rimanere a galla ci rimane, tocchiamo un fondo oltre il quale non possiamo più scendere.

Questo fondo è il nostro Sé; o, meglio, lì troviamo il nostro Sé, siamo messi a confronto con il nostro vero Sé.

Che poi, se ci pensiamo bene, è in realtà un Altro-da-sé, un Alter-ego, qualcuno con cui il nostro Ego è costretto da quel momento in poi a confrontarsi, a dialogare.

Solitudine (la solitudine più assoluta e radicale, non quella provvisoria e, quindi, un po’ finta, che tutti abbiamo sperimentato o sperimentiamo di tanto in tanto) e Sé (o Altro-da-sé) fanno la pariglia, sono, dunque, la stessa cosa, sono (quasi) sinonimi.

Non possiamo trovare il secondo, il Sé (o l’Altro-da-sé), se non sperimentiamo (fino in fondo) la prima (la solitudine).

Fin qui ho parlato di solitudine; bisogna dire, però, che, superato il primo impatto e nel momento in cui incontriamo l’Altro-da-sé, questa solitudine, non è più tale, perché in realtà non siamo più veramente soli, ma siamo in compagnia di qualcuno che, se vorremo, non ci abbandonerà mai, ci farà perenne compagnia.

Eppure, invece, una volta che abbiamo fatto, nella solitudine più profonda, questa esperienza di incontro col Sé, con l’Altro-da-sé, la tentazione immediata è quella di risalire subito a galla.

E non per tornare a riveder le stelle (come disse quel tale, che aveva appunto fatto questa discesa), ma per ritrovare immediatamente il conforto della compagnia (fisica) di altri corpi.

I motivi di questa tentazione sono fondamentalmente due: 1) la presenza dell’Altro-da-sé non ci sembra vera, perché non è una presenza fisica, corporea, ma del tutto spirituale, quindi ci apparirà in un primo momento non reale, ma fantasmatica; 2) il rapporto con l’Altro-da-sé ci appare, soprattutto all’inizio, difficile, faticoso, perché esigente, perché non si accontenta di quello che siamo già, in atto, ci chiede di diventare altro, di realizzare quello che siamo in potenza.

In questo caso, nel caso cioè in cui decideremo di abbandonare questo fondo appena raggiunto e di risalircene a galla, da dove siamo venuti, l’esperienza sarà stata completamente banale, superficiale, quindi vana, inutile.

Perché, invece, l’esperienza risulti utile, decisiva, un’esperienza radicale e di svolta nella nostra vita, occorre che, una volta toccato il fondo dell’abisso, da lì non risaliamo mai più, che decidiamo di vivere in solitudine o, meglio, in compagnia del nostro Alter-ego, il resto della nostra vita.

Intendiamoci: non sto dicendo qui che bisogna da questo momento in poi rinunciare ad avere rapporti con la gente altra, con le persone in carne ed ossa, per fare una scelta di natura monacale.

Dico solo che i rapporti con gli altri in carne ed ossa dovranno tenere presente d’ora in poi questa esperienza “fondamentale” che abbiamo fatto, dovranno convivere con questo rapporto primario che abbiamo finalmente trovato dentro di noi, il rapporto con l’Altro-da-sé.

E avere la consapevolezza che, anche quando siamo in compagnia di altri, perfino quando siamo in mezzo a una folla, siamo in realtà soli, che nulla e nessuno potrà sconfiggere ed annullare mai questa nostra solitudine fondamentale, diciamo pure ontologica.

Questo ci consentirà, ci darà modo, di non vivere gli altri come appoggio, come conforto, come appiglio illusorio, ma di stabilire con loro un rapporto vero, autentico perché basato su un “principio di realtà” e non di illusione.

I rapporti, i rapporti veri, non quelli, ad esempio, fondati sulla chiacchiera e sulla consuetudine, sono sempre incontri di due solitudini, perfettamente consapevoli di questa loro strutturale e insuperabile condizione.

E, in fondo, manco desiderosi di prescinderne, di farne a meno.

Per non rischiare di smarrire l’unico rapporto dal quale, se vogliamo, possiamo non separarci mai: quello col nostro vero Sé, l’Altro-da-sé; l’unico rapporto, dunque, davvero non precario.

Da considerare, infine, – cosa non da poco – che è dalla solitudine (e dal silenzio ad essa indissolubilmente legato) che nasce la parola che ha un senso, un peso, un valore; che non sia, insomma, un puro flatus vocis, quello del chiacchiericcio che normalmente ci circonda, che caratterizza la maggior parte dei rapporti tra gli uomini.

© Giovanni Lamagna

Letterina di Pasqua 2023

Io non credo in nessun Dio che risorge.

Credo però nella possibilità che l’uomo possa rialzarsi dalle sue cadute,

che ogni giorno possa diventare una persona un poco migliore.

Credo nei piccoli passi, nei piccoli gesti,

quelli che appena si notano

o non si notano per nulla

ma che, a lungo andare, fanno la Storia.

Non credo nei miracoli: quelli soprannaturali.

Credo però che un sorriso, una carezza,

la parola giusta detta al momento giusto,

un gesto di aiuto, un atto di solidarietà,

la fraternità, l’amicizia, l’amore

possano fare miracoli: quelli naturali.

Simili al seme che prima muore e poi dà frutto,

all’arcobaleno che colora il cielo dopo la tempesta,

al sole che risorge ogni giorno,

al corpo stanco che va dormire la sera e

si risveglia fresco e riposato la mattina dopo,

al tempo che guarisce molte ferite, corporali e spirituali.

Queste sono le resurrezioni in cui credo!

© Giovanni Lamagna

Thomas Hobbes e la mia visione del mondo.

Voglio riportare qui alcune affermazioni, tra le più esemplificative, di Thomas Hobbes (1588-1679) per confrontarmi col suo pensiero e definire, anche grazie a questo confronto, chiaramente il mio di pensiero, sulle questioni da lui – nei passi citati – affrontate:

La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. In questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici… Ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo.” (dal “Leviatano”; I, IV).

 “Vi è in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte.” (dal “Leviatano”; I, XI).

 “È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un’altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo: in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo; in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti.” (dal “De cive”).

Molti studiosi hanno esaltato in passato ed esaltano ancora oggi il pensiero di questo filosofo britannico, considerato uno dei principali punti di riferimento del pensiero politico moderno, come esaltano quello di Machiavelli (1469-1527), col quale esso ha molte concordanze.

Io, invece, non riesco ad apprezzarlo profondamente, meno che mai a condividerlo.

La sua, infatti, mi appare una visione del tutto unilaterale e parziale dell’Umanità; apparentemente e fintamente aderente alla realtà, in realtà molto deformante della realtà.

Non ci sono dubbi che molti uomini sono come li descrive Hobbes; ma questo non vuol dire che tutti gli uomini lo siano.

Non è affatto vero, infatti, che tutti gli uomini desiderino “senza tregua… un potere dopo l’altro”.

Non è affatto vero che tutti gli uomini siano in “continua competizione”tra di loro.

Infatti, ci sono oggi e ci sono stati in passato tanti uomini e donne (la Storia ne è piena; io stesso ne ho conosciuti tanti e tante di persona) che non ambiscono affatto ad avere più potere; il fine della vita per loro non è il potere, ma altro, ben altro!

Come ci sono tanti uomini e donne che vivono in spirito di collaborazione e cooperazione (in certi casi perfino di solidarietà, amicizia ed amore) coi loro simili, senza alcuno spirito di prevaricazione o invidia o gelosia, meno che mai in un clima di odio o conflitto.

Hobbes vede e descrive solo una parte dell’Umanità, non vede e non descrive un’altra parte di umanità, che pure esiste e che, forse, è addirittura maggioritaria.

In ogni caso è quella che, nonostante tutto, da sempre tiene in piedi il mondo, impedendo che esso vada in rovina.

Perlomeno ha impedito finora che andasse in rovina.

La realtà non è solo quella che ha descritto Hobbes (“homo homini lupus”, in guerra continua l’uno con l’altro; il mondo come una giungla), ma anche quella di tanti uomini e donne che si vivono come fratelli, impegnati nella costruzione di comunità dove regna la pace e la cooperazione.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mistico nei confronti degli affetti familiari.

Nel suo libro “I quattro maestri” (Garzanti; 2020) Vito Mancuso illustra e valuta il rapporto che Socrate, Buddha, Confucio e Gesù avevano con i loro parenti e con l’istituzione “famiglia” in generale.

E, in estrema sintesi, afferma che l’unico ad avere un buon rapporto con i suoi parenti ed un’alta considerazione dell’istituto familiare era Confucio.

Per Confucio la costruzione di buoni rapporti sociali, la concretizzazione di quel “senso di umanità” che era il fine più alto e la sintesi del suo insegnamento, doveva cominciare dalla famiglia: il padre doveva essere un buon padre e i figli dei bravi figli.

Degli altri tre maestri il più vicino a Confucio – per Mancuso – può essere considerato Socrate, che ebbe una regolare famiglia, anche se un rapporto molto difficile e conflittuale con la moglie Santippe, e non parlò mai contro l’istituto familiare.

Bisogna però dire che per Socrate non era certo la famiglia il cuore dei suoi interessi e perfino dei suoi affetti.

Egli, infatti, trascorreva la maggior parte del suo tempo per le vie e le piazze della polis ateniese e probabilmente teneva, sul piano affettivo e, forse, perfino erotico, molto di più ai suoi allievi che ai suoi figli e a sua moglie.

Ancora più radicale e antistituzionale è il rapporto che ebbero Buddha e Gesù coi loro familiari e con l’idea stessa di parentela e di famiglia.

Buddha a circa 30 anni lasciò la moglie e il figlio e si dedicò ad una vita totalmente spirituale, mistica e contemplativa; radunando attorno a sé una comunità di discepoli decisi a seguire la sua stessa via, che costituirono a questo punto la sua nuova e vera famiglia.

Quello che Buddha e, per alcuni aspetti, anche Socrate fecero nei fatti, Gesù non solo lo praticò in modo molto radicale, ma lo teorizzò perfino.

Ci sono molte affermazioni di Gesù che ci descrivono il suo distacco/separazione dalla sua famiglia di origine e che di questo distacco/separazione indicano, professano, la necessità, come una delle condizioni base, per mettersi alla sua sequela, per dedicarsi cioè alla missione di annuncio dell’imminente avvento del regno di Dio.

Due affermazioni in modo particolare ci dicono di questa sorta di “disamore” di Gesù per i suoi familiari e di (quasi) disprezzo nei confronti dell’istituto familiare, in nome di un amore e di una comunità di intenti e di affetti più grandi.

La prima: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo.” (Luca, 14, 26).

La seconda: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, riferendosi a Maria e ai suoi fratelli di sangue; che viene così completata da Gesù: “Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Marco; 3; 33-34), riferendosi a coloro che ascoltavano la sua parola.

Vito Mancuso, tra i due atteggiamenti, quello di Confucio e (in parte) di Socrate e quello di Gesù e (in parte) di Buddha, propende per quello di Confucio e di Socrate, ritenendolo (lo dico a parole mie) più equilibrato, meno fanatico e, quindi, più sano.

Io, invece, pur respingendo ogni estremismo e (ancora di più) ogni fanatismo, per la mia formazione culturale ed umana, propendo di più per l’atteggiamento di Buddha e di Gesù.

Non perché ritenga che, per abbracciare una vita dedita alla filosofia e alla mistica, sia necessario rinunciare alla famiglia come anche agli amori ed agli affetti (in questo senso respingo ogni estremismo e fanatismo), ma perché pure io ritengo che prima degli affetti di sangue e di ogni altro amore debba venire l’amore per la Sapienza.

Perlomeno l’amore per la Sapienza deve venire prima di ogni altro amore in chi intenda abbracciare una vita dedita alla via filosofica o alla via mistica.; che, tra l’altro per me, sono due vie contigue, molto affini.

Contigue e affini non fosse altro che per la radicalità che deve (o, meglio, dovrebbe) a mio avviso caratterizzare il pensiero e la vita sia dei filosofi che dei mistici; se aspirano ad essere dei veri filosofi e dei veri mistici.

In altre parole sono memore e ben consapevole di quanto affermò Aristotele di se stesso: “Amicus Plato, sed magis amica veritas” (“Platone mi è amico, ma più amica mi è la verità”).

Consapevole, come lo fu Aristotele, che non si può davvero amare se non si è (almeno un po’) sapienti, non si possono amare gli uomini, se non si ama prima la Sapienza.

E Aristotele non era certo un estremista e, tantomeno, un fanatico; ma un uomo molto mite e saggio; per giunta un grande filosofo (“amante della Sapienza”); anzi sicuramente uno dei più grandi filosofi comparsi fino ad oggi sulla faccia della terra.

© Giovanni Lamagna