Archivi Blog

Pornografia ed erotismo.

C’è una differenza abissale tra pornografia ed erotismo.

Associabile a quella che passa tra istinto e pulsione.

L’istinto appartiene all’uomo come a tutti gli altri animali.

La pulsione, invece, è propria, specifica degli uomini.

La pulsione è l’istinto raffinato, elaborato, l’istinto diventato cultura.

E’ l’istinto “perverso e polimorfo” di cui parla Freud, a proposito della sessualità.

Ma la stessa definizione potrebbe essere data anche di tutti gli altri istinti umani; o, meglio, di tutte le altre pulsioni.

L’istinto animale è unidirezionale e uniforme.

L’istinto umano è (o, meglio, tende ad essere) “perverso e polimorfo”; quindi pulsione.

E più è “perverso e polimorfo” più è umano.

Più è unidirezionale e uniforme più è – semplicemente, naturalmente – animale.

Faccio solo due esempi per evidenziare la profonda differenza: il primo relativo alla sessualità, di cui hanno parlato abbondantemente Freud e la psicoanalisi; il secondo relativo alla fame.

Negli animali la sessualità è mossa esclusivamente dall’istinto verso l’accoppiamento, generato dall’eccitazione sessuale.

Nell’uomo la sessualità trova indubbiamente nello stesso istinto degli animali la sua spinta primordiale.

Ma, mentre negli animali questo istinto si esprime in forme quasi meccaniche, sostanzialmente uguali per tutti gli animali, ripetitive e uniformi, nell’uomo si esprime nelle forme più varie (è, appunto, “polimorfo”), non solo a seconda degli individui, dei loro temperamenti, caratteri, culture e fasi della loro vita, ma anche a seconda dei tempi/contesti storici e dei luoghi/contesti geografici.

In altre parole, a differenza che negli animali, la sessualità negli uomini si fa storia e cultura.

Inoltre, mentre negli animali l’istinto sessuale è davvero solo “al servizio della specie”, cioè al servizio della riproduzione della specie (come affermava Schopenhauer di tutti gli animali, compreso l’uomo), per gli uomini l’istinto sessuale è anche, se non soprattutto, uno dei fattori principi del piacere e una spinta a relazionarsi all’altro/a in maniera empatica, simpatetica, affettiva, sentimentale.

Per questo nell’uomo l’istinto sessuale può definirsi “perverso”, nel senso che si perverte, allontana (almeno in parte) dal suo scopo principale, quello per cui lo ha previsto la natura, e ne acquisisce un altro, ben più complesso e articolato.

La stessa cosa avviene con la fame, l’istinto a cibarsi, a mettere cioè carburante nel nostro motore, per tenerlo in vita, per assicurargli la sopravvivenza.

Gli animali soddisfano questo istinto ingurgitando qualsiasi cosa trovino sulla loro strada, con l’unica differenza che alcuni di essi sono erbivori, altri carnivori.

Gli uomini, invece, non si accontentano di ingurgitare, gli uomini mangiano (che è cosa diversa dal semplice ingurgitare); in certi casi addirittura cucinano i loro cibi, non li mangiano crudi, così come li trovano in natura.

Non mangiano, quindi, solo per soddisfare un istinto, mangiano per soddisfare anche un gusto, un piacere, il piacere del cibo.

Ecco allora che anche in questo caso, come nel caso della sessualità, il mangiare diventa “perverso e polimorfo”.

“Perverso”, nel senso che si allontana, perverte, dal suo fine primario, che è quello di garantire la semplice sopravvivenza.

“Polimorfo”, nel senso che si soddisfa nelle forme più varie, complesse ed elaborate, a seconda degli individui, dei tempi e dei luoghi e, quindi, si fa storia e cultura.

La differenza tra ciò che rientra nella categoria di pornografia e ciò che possiamo considerare invece come erotismo (per tornare al punto da cui è iniziata questa riflessione) trova qui la sua radice: nella differenza tra istinto e pulsione.

La pornografia rappresenta l’atto sessuale e tutto ciò che ha a che fare col sesso come pura espressione di un istinto rozzo, primitivo, potremmo dire persino bestiale.

L’erotismo, invece, li rappresenta come manifestazione di una pulsione molto più complessa, evoluta, raffinata del semplice istinto; dunque specificamente umana.

© Giovanni Lamagna

Cultura cattolica, pornografia, sesso, natura ed amore.

La cultura cattolica, nella quale siamo (quasi) tutti nati e cresciuti e di cui tutti (chi più e chi meno) siamo ancora intrisi, tende a farci vivere il sesso come una realtà buona e giusta solo se vissuta all’interno di un rapporto affettivo, cosiddetto “d’amore”.

Il dilagare (quasi) senza limiti della pornografia, in tempi tutto sommato recenti, ha avuto, se non altro, questo merito: di mettere in discussione, e ad un certo punto in vera e propria crisi, l’antica cultura cattolica, almeno sotto questo aspetto.

Sdoganando il sesso come realtà buona e giusta in sé, a prescindere dal suo contesto emotivo ed affettivo.

D’altra parte il sesso – nessuno certo lo può negare – corrisponde a bisogni e desideri del tutto naturali, quindi legittimi in sé, al pari delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti.

Tanto è vero che gli animali (i quali, certo, fanno parte della natura) non si pongono tutti i problemi che ci poniamo noi, quando praticano la loro sessualità.

E poi l’atto sessuale, quando avviene in un contesto di pieno, libero e reciproco desiderio e, quindi, consenso, non è già nei fatti (e a pieno titolo) uno scambio d’amore?

© Giovanni Lamagna

Funzione sociale di pornografia e prostituzione

Sono convinto che la pornografia svolga una sua funzione sociale. Così come la svolge, perfino, la prostituzione.

Il fatto che poi entrambi i fenomeni siano terreno fertile per un mercato obiettivamente di basso livello speculativo e, in certi casi (soprattutto nel campo della prostituzione), di sfruttamento perfino criminale, non invalida l’assunto – altrettanto obiettivo – della loro indubbia funzione sociale.

La prostituzione risponde alla domanda (soprattutto maschile, ma che da un po’ di tempo sta diventando anche femminile) di una sessualità diversa, altra, diciamo pure trasgressiva, rispetto ai canoni della sessualità di norma vissuta all’interno del legame coniugale o, quantomeno, della coppia stabile.

Oltre che alla domanda ovvia di chi, non avendo un partner fisso, in questo modo soddisfa le sue voglie sessuali.

Domande (entrambe) alle quali il più delle volte vengono date risposte scadenti e, nella grande maggioranza dei casi, del tutto insoddisfacenti o addirittura frustranti.

Il che non vuol dire che le domande in sé non abbiano un loro fondamento (se non fosse così, non si capirebbe perché milioni di persone nel mondo siano coinvolte nel fenomeno) e che ad esse non sarebbe giusto che venissero date delle risposte, ovviamente e auspicabilmente meno degradanti e più gratificanti.

La stessa funzione più o meno la svolge anche la pornografia.

Con la differenza che la prostituzione è pratica reale, materiale; la pornografia è pratica soprattutto dell’immaginario.

La funzione sociale della prostituzione è, infatti, quella di soddisfare in qualche modo, per quanto, come dicevo prima, del tutto insoddisfacente e surrogatorio, un istinto, una pulsione, che altrimenti rimarrebbero del tutto negati, frustrati.

La funzione sociale più specifica della pornografia è, invece, quella di sdoganare (almeno a livello dell’immaginario, del cosiddetto “virtuale”) ciò che nella pratica reale viene considerato proibito, perché giudicato peccaminoso o, quantomeno, offensivo del “comune senso del pudore”.

“Comune senso del pudore” che – lo sappiamo benissimo – è un valore quantomeno elastico, anzi estremamente variabile, a seconda dei contesti geografici e dei tempi storici.

In questo senso la pornografia (o, meglio, ciò che viene ritenuto pornografico in un determinato contesto sociale) aiuta (o quantomeno può aiutare, almeno in alcuni casi) chi vi fa ricorso a liberarsi di pregiudizi e tabù sociali che non hanno nessun fondamento reale obiettivo nel codice etico naturale, ma sono solo (almeno in alcuni casi) il frutto di proibizioni di una società repressiva, ancora lontana dall’aver espresso tutto il suo pieno potenziale libidico.

La pornografia contribuisce, quindi, ad alzare (o ad abbassare: dipende dai punti di vista, dall’ottica morale dalla quale ci poniamo) sempre di più il livello dell’asticella che separa ciò che nel sesso – in un dato momento storico – viene ritenuto socialmente lecito da ciò che è considerato ancora illecito.

E in questo senso può svolgere (e in alcuni casi effettivamente svolge), pur con tutti i suoi grandi limiti e le sue forti contraddizioni (che qui, sia bene inteso, non intendo minimamente nascondermi o sottovalutare), una sua (per certi aspetti persino utile) funzione culturale e, quindi, sociale.

© Giovanni Lamagna

Crisi dell’istituto matrimoniale e ipotesi alternative alla coppia monogamica.

Con gli anni e l’esperienza sono arrivato alla conclusione che il matrimonio sia da sempre (praticamente da quando esiste sulla faccia della terra) un’istituzione debole, precaria, checché ne dicano i borghesi benpensanti, perché limitativa delle risorse libidiche e relazionali che uomini e donne avrebbero la possibilità di mettere a frutto nella loro vita, se non esistessero divieti e censure sociali oramai ataviche.

Una istituzione, quella del matrimonio, che da sempre, anche nel suo lontano oltre che recente passato, ha manifestato crepe e contraddizioni piuttosto vistose.

Ma che negli ultimi decenni si sono ulteriormente allargate, fino ad esplodere in maniera eclatante e in forme che, a questo punto, impongono (e molti oramai l’hanno avviata) una seria riflessione sulla tenuta futura di una struttura relazionale e giuridica, che ancora oggi e con grande miopia viene da molti considerata addirittura la cellula base della società, senza realistiche alternative.

Due a mio avviso sono i fattori che segnalano e comprovano questa crisi, che per me è oramai irreversibile, arrivata ad un punto di non ritorno.

Crisi che, intendiamoci e sia detto tra parentesi, non è solo dell’istituto giuridico-formale del matrimonio, ma della stessa struttura sociopsicologica della coppia, anche quando non è sanzionata da un legame giuridico formale.

Il primo fattore: lo stato emotivo, affettivo, sessuale e spirituale in senso lato (caratterizzato nel migliore dei casi da una cameratesca amicizia, nel peggiore da una separazione di fatto) nel quale si riducono la maggior parte delle coppie (unite in matrimonio o anche solo realtà di fatto: qui la distinzione ha poca importanza), dopo un certo numero di anni di convivenza; anche coppie che si erano formate in seguito ad una forte attrazione reciproca e avevano vissuto, prima di mettersi a vivere assieme, una fase di intensa passione e di autentico innamoramento.

Il secondo fattore: i fenomeni frequentissimi di adulterio o, peggio, di ricorso alla pornografia e alla prostituzione (soprattutto da parte dei maschi, ma da qualche tempo il fenomeno, almeno in alcuni ambienti sociali, si sta estendendo anche alle femmine), che, salvaguardando in maniera solo formale, esteriore ed ipocrita, il “vincolo” della fedeltà, segnalano in maniera evidente l’insoddisfazione profonda, se non la vera e propria crisi del legame matrimoniale o della coppia di fatto.

Di qui la necessità di pensare e (perché no?) cominciare a sperimentare soluzioni alternative al profondo bisogno umano di rapporti affettivi e sessuali solidi e continuativi, che superino però i limiti e risolvano (almeno in parte) le contraddizioni, manifestate dall’istituto giuridico-formale del matrimonio e dalla stessa struttura informale della coppia di fatto.

L’alternativa, a mio avviso, sta in strutture relazionali che provino a dare soluzioni ai problemi evidenziati nelle diverse epoche storiche e nelle diverse società dal rapporto monogamico su cui si fonda il matrimonio.

Problemi che potremmo dire (ancora di più oggi, col senno del poi) si evidenziavano in maniera vistosa già nella radice etimologica del termine (mater: madre, genitrice+ munus: compito, dovere); come se nel matrimonio i doveri fossero essenzialmente della donna e il maschio potesse vantare soprattutto diritti; segno inequivocabile della genesi e quindi natura profondamente patriarcale di tale istituto giuridico.

Una coppia aperta, cioè un legame non più fondato sull’esclusività del rapporto, quindi sull’idea che l’altro/a sia una mia esclusiva proprietà (non a caso al matrimonio è collegato il concetto di patrimonio: da pater: padre, genitore + munus: dovere, compito), potrebbe già cominciare ad essere un embrione di alternativa al matrimonio.

Perché, a mio avviso, in primo luogo limiterebbe (se non addirittura estinguerebbe) il fenomeno (squallido) dell’adulterio, che già rappresenta in fondo un’apertura della coppia, che si realizza di fatto, ma nella clandestinità, con l’inganno del partner, e nella ipocrisia, con la salvaguardia solo formale ed apparente della fedeltà.

Il fenomeno dell’adulterio ha accompagnato sempre e su scala abbastanza estesa, in tutte le epoche e in tutti i contesti geografici, la storia del matrimonio: tutti lo sanno ma i più si ostinano a non volerlo riconoscere.

In secondo luogo, l’apertura della coppia ridarebbe vitalità ed energie sempre fresche e nuove ad un rapporto che col tempo tende fatalmente a diventare abitudinario e perciò monotono e noioso.

Gli ridà aria laddove i rapporti di coppia tendono ad essere (o a diventare) asfissianti. Impedisce che gli interessi sessuali, emotivo-affettivi, intellettuali, spirituali di una persona si concentrino (a volte in maniera ossessiva) su un solo partner e ne impediscano il necessario distanziamento e il benefico respiro.

Crea momenti di allontanamento momentanei che, se vissuti serenamente e senza ingiustificate angosce, rinfocolano il desiderio reciproco, laddove una vicinanza ininterrotta, esagerata, tende a indebolirlo e prima o poi a spegnerlo.

L’apertura della coppia introdurrebbe poi all’interno della relazione un fattore di sana e naturale competizione, che, lungi dal metterla in crisi, laddove i due coniugi fossero in grado di superare e di vincere i naturali sentimenti di gelosia e di possesso (come, a mio avviso, è possibile), la movimenterebbe e quindi la vivacizzerebbe, rinnovandola e dandole sempre nuovi stimoli, utili ad una sua evoluzione continua.

Un’altra struttura alternativa al matrimonio o alla coppia monogamica di fatto potrebbe essere la costituzione di piccole o grandi comunità promiscue (un tempo si chiamavano “comuni”), che avrebbero il vantaggio di garantire una certa stabilità/continuità e quindi profondità di rapporti affettivi (in qualche modo paragonabile a quella dei matrimoni) senza avere però il limite della monogamia, che è causa di ingiustificata repressione libidica e quindi di logoramento della coppia chiusa ed esclusiva.

So molto bene che la grandissima maggioranza di queste esperienze tentate in passato hanno avuto esiti disastrosi. Non hanno retto cioè alle dinamiche di competizione, soprattutto di gelosia e di possesso (sentimenti connaturati all’animo umano), che inevitabilmente insorgono prima o poi  anche in comunità nate con le migliori e più lodevoli intenzioni.

Questo, però, a mio avviso, non esclude che possano essere riprovate, risperimentate, magari traendo insegnamenti proprio dai limiti evidenziati dalle esperienze finite male.

In fondo la scienza (ma anche l’evoluzione storica) procede per tentativi ed errori. Perché ritenere allora il matrimonio (e, a maggior ragione, la coppia monogamica) realtà immutabili, eterne e del tutto irrealizzabili ipotesi di convivenza alternative?

© Giovanni Lamagna

Sulla pornografia

I molti uomini (e le poche donne) che sono compulsivamente attratti dalla pornografia sono con tutta evidenza insoddisfatti della loro vita sessuale reale.

Vivono cioè una discrasia tra i loro desideri e le loro fantasie e la realizzazione di questi desideri e di queste fantasie.

Che vengono realizzati in una maniera del tutto surrogatoria e virtuale, quindi parziale e insoddisfacente, attraverso la pornografia.

Col risultato che a frustrazione si aggiunge frustrazione.

© Giovanni Lamagna

Sulla pornografia

Gli uomini (e le donne) compulsivamente attratti dalla pornografia sono uomini (e donne) con tutta evidenza insoddisfatti/e della loro vita sessuale reale.

Che vivono cioè una discrasia tra i loro desideri e le loro fantasie e la soddisfazione di questi desideri e di queste fantasie nella vita reale.

Attraverso la pornografia fantasie e desideri vengono (almeno in parte) soddisfatti, ma in una maniera del tutto surrogatoria e quindi insoddisfacente.

Col risultato che a frustrazione si aggiunge frustrazione.

© Giovanni Lamagna

Sulla performance di Roberto Benigni all’ultimo Festival di Sanremo. Due modi diversi (e, per molti aspetti, opposti) di guardare lo stesso fatto.

Qualche giorno dopo la performance di Roberto Benigni all’ultimo festival di Sanremo ho avuto modo di leggere l’articolo di Luigino Bruni, comparso l’11 febbraio scorso su “Avvenire”, il quotidiano della CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

L’articolo esprime un giudizio sulla apparizione di Benigni, dal quale dissento profondamente. Lo riporto qui sotto integralmente e subito dopo esprimo le mie valutazioni.

Cantico dei cantici. Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)

di Luigino Bruni

Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.

Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi. Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.

Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio. Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).

Una ragazza ‘bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.

Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni. Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova: «Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ‘Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3). Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).

Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.

L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).

La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ‘nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.

……………………………………………………………

E qui di seguito le mie valutazioni, articolate per punti, seguendo la falsariga dell’articolo di Luigino Bruni.

1.Dico subito che io non sono rimasto deluso dalla performance di Benigni. Anche se non l’ho ascoltata e vista in diretta. Un po’ per l’ora tarda, non conciliabile col mio sonno, un po’ perché da tempo non nutro nei confronti di Roberto Benigni grandi aspettative.

Ritengo infatti che Roberto Benigni, uomo di spettacolo, abbia dato il meglio di sé quando ha fatto il comico. E’ scaduto, invece, almeno ai miei occhi, quando ha voluto mettersi a fare il poeta, ancora di più quando ha assunto i toni del retore, quasi del predicatore.

Nell’ultimo Sanremo l’attore toscano è stato ancora una volta enfatico, retorico e ridondante, ma almeno è uscito fuori dai canoni del prevedibile e del conformismo, nei quali invece si era spesso ridotto negli ultimi anni. Sono andato a vedermi la sua performance su Raiplay, dopo aver letto i commenti del giorno dopo e soprattutto quello di Luigino Bruni, che provo qui a chiosare.

  1. Sono d’accordo con Bruni, che il corpo delle donne è stato per millenni (e ancora oggi lo è) oggetto di potere, violenza, sfruttamento da parte del maschio. E che quindi noi maschi per parlarne dovremmo usare mille precauzioni e prudenze.

E’ pur vero, però, che ciò non deve sfociare nell’inibizione o, peggio ancora, nel bigottismo. Che ci fanno vedere il brutto e il peccato e, quindi, gridare allo scandalo, appena si parla di corpi e di eros. Eros che (sia detto per inciso) è ben altra cosa dal semplice sesso.

Faccio notare qui che Benigni nella sua performance sanremese non ha nominato solo il corpo della donna e le sue parti intime, ma anche quello del maschio e le sue parti intime.

Ha inteso parlare poi precipuamente dell’eros e non dell’amore in generale o di altre forme di amore (filia, agape…). E l’eros non lo si può neanche nominare, se non si fa riferimento ai corpi, alle sensazioni, ai sentimenti e a tutto ciò che si prova nell’atto sessuale.

Ovviamente dipende da come se ne parla. Se ne può parlare in modo volgare, con riferimento alla pura e sola anatomia: e qui sta la pornografia. O se ne può parlare con stile, delicatezza, tatto e con riferimento alle emozioni e ai sentimenti, in altre parole all’amore: e qui sta l’erotismo. A me pare con tutta evidenza che Benigni ne abbia parlato nel secondo modo. Quindi non vedo dove poggi la critica del Bruni.

  1. Capisco l’imbarazzo e il disagio che possono aver provocato le parole di Benigni, non mi riesce difficile comprenderne le ragioni e motivazioni. E però non le condivido.

C’è un pudore che non sento in me: è quello che ci fa sentire scabroso anche solo il nominare certe parole, come se esse fossero qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascoste per la loro stessa natura.

Non a caso le parti intime dei nostri corpi (in altre parole i nostri organi sessuali) sono state definite per secoli “pudenda”, cioè organi di cui avere vergogna, dal verbo latino “pudeo” (“vergognarsi, arrossire di vergogna”).

Credo che l’intervento di Benigni abbia voluto (e, a mio avviso, avuto il merito) di portare alla luce ciò che si tende a nascondere, di “nominare” esplicitamente ciò che si tende a tacere o nominare solo per metafore, a decontaminare e rendere innocente ciò che si tende a ritenere in qualche modo colpevole, se non peccaminoso, o quantomeno non del tutto puro (ancora oggi, nonostante l’apparente evoluzione e disinibizione dei costumi sessuali).

  1. Ha molto probabilmente ragione il professor Bruni ad affermare che le donne, la maggior parte delle donne, dell’epoca in cui fu scritto il “Cantico dei cantici” non conoscevano affatto l’eros come vi viene lì descritto. Perché erano “… donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate”.

E, però, forse proprio per questo il Cantico dei cantici è un testo profetico, perché come tutti i testi profetici si situa fuori dal tempo in cui è stato scritto, anticipa i tempi che verranno, libera il tempo presente dai pregiudizi e dai tabù, di cui il tempo storico è prigioniero. Perfino quello attuale. Se la sua lettura (non solo quella presunta integrale fatta da Benigni, ma anche quella che ha l’imprimatur della CEI) ancora oggi genera imbarazzo e disagio, se non proprio scandalo.

  1. E’ vero, molto vero, che l’eros, il desiderio erotico, si nutrono “di mancanza, di assenza, di limite”. E’ un concetto questo su cui batte continuamente e da anni anche Massimo Recalcati, che su questi argomenti ha detto e scritto parole memorabili.

E però non vedo dove stia la contraddizione tra questo modo di intendere l’eros e il “gioco” (inteso come dinamica relazionale – vedi Erich Berne- e non frivolo passatempo) o la “ricerca del piacere” (perché questa ricerca sarebbe “sterile”, come la definisce Bruni, e non legittima aspirazione dell’essere umano?)

  1. Anch’io non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna: effettivamente sarebbe stato pretendere troppo per l’epoca in cui il Cantico fu scritto. E però questo significa una cosa niente affatto positiva, ma semmai negativa: significa che le donne sono vissute per secoli, anzi per millenni, sotto il peso dell’oppressione maschile, che le voleva (e ancora oggi in gran parte le vuole) oggetto del desiderio e, magari, della lussuria (“l’amante”, “la prostituta”) e, allo stesso tempo, inibite e iper-pudiche (“la madonna”, “la madre”).
  2. Non sono, infine, d’accordo che “quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro”. Non sono d’accordo: perché dipende – come ho già detto prima – da come se ne parla; se ne può parlare in maniera “volgare” ed è una cosa; se ne può parlare in maniera “colta”, per quanto esplicita, ed è un’altra cosa. A me pare che Benigni ne abbia parlato nella seconda maniera.

Ancora: non sono d’accordo che “La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento”.

Forse Luigino Bruni voleva dire che la Chiesa (non la Bibbia) ha sempre letto il Cantico dei cantici in maniera allegorica.

E, però, qui io condivido in pieno la critica (tutto sommato abbastanza garbata) che Benigni fa alla Chiesa, la quale con la sua sessuofobia (chiamiamo pure le cose col loro nome!) preferiva leggere quell’antico canto in maniera allegorica e non letterale, esattamente e con l’intento di negare o rimuovere l’eros, non certo per salvarlo. E qui, proprio qui, sta a mio avviso la positività (e, forse, persino la grandezza) della performance di Benigni.

Ancora, non sono d’accordo sul fatto che leggere il Cantico “senza ideologie e manipolazioni” porta a fare non “un’esperienza erotica”, ma “una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica”.

Questo sarebbe vero se esperienza erotica ed esperienza poetica, spirituale e persino mistica fossero esperienze radicalmente diverse o, addirittura, incompatibili. Come – debbo dedurre – ritiene Luigino Bruni.

Io, invece, penso che l’erotismo possa andare benissimo d’accordo con la poesia, con la spiritualità e, perfino, col misticismo. Anzi tanto più è forte l’erotismo, quanto più è poetico, spirituale e, perfino, mistico.

Così come la poesia, l’esperienza spirituale e, perfino, quella mistica sono tanto più sane e autentiche nella misura in cui sono anche erotiche, vanno in accordo con l’eros e non lo rimuovono, né tanto meno lo demonizzano.

  1. La poesia è stata la grande assente dalla lettura di Benigni? Dipende da cosa si intende per poesia o per arte. Se fosse vero quello che afferma Luigino Bruni, dovremmo allora giudicare non poetiche molte delle poesie di Pablo Neruda (per non parlare delle novelle del “Decamerone” di Boccaccio) o non artistiche molte delle opere scultoree o pittoriche di autori antichi e moderni, oltre che contemporanei, che hanno esposto il corpo delle donne (e non solo delle donne, anche quello dei maschi: pensiamo a Michelangelo) in tutte le forme e maniere.

Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience.”: su questo sono pienamente d’accordo con Luigino Bruni. Il che non mi porta però a dire (come, invece, fa lui), con un eccesso opposto e speculare, che, per non mercificare il corpo delle donne, allora non bisogna parlare di sesso o che bisogna parlarne il meno possibile.

Io credo (e per concludere) che parlare di eros e di sesso, non solo nell’intimità del rapporto a due, ma pubblicamente, perfino su un palco, nel corso di uno spettacolo, sia pienamente legittimo.

Dipende ovviamente da come se ne parla. A me sembra, però, che Roberto Benigni nella sua performance all’ultimo Sanremo ne abbia parlato in maniera (almeno dal mio punto di vista) esemplare.

Giovanni Lamagna

Fare sesso e vedere fare sesso.

Che cos’è la pornografia se non “il sesso che si vede” e, quindi, in un certo senso il sesso a cui si partecipa da fuori e non da dentro?

Io posso “vedere il sesso”, se sto fuori dall’atto sessuale che si compie, se ne sono spettatore, fruitore visivo, e non attore, protagonista.

“Vedere il sesso” è, dunque, cosa diversa dal “fare sesso”.

Il primo corrisponde ad un piacere diverso dal secondo. I due piaceri non si escludono, non sono opposti, ma sono comunque diversi.

Tanto è vero che la maggior parte degli uomini si riconosce il diritto di godere del secondo, ma non del primo.

La morale comune, il comune senso del pudore, si fondano su questo assunto: è lecito “fare sesso”, non è lecito “guardare il sesso”, il sesso fatto dagli altri.

Tanto è vero che sono stati coniati due termini, entrambi dispregiativi e perciò disonorevoli, per definire, il primo, l’atto di “vedere fare sesso”, “pornografia”, appunto, (dal greco πόρνη, porne, “prostituta” e γραφή, graphè, “disegno” e “scritto, documento”), il secondo per definire la persona che si concede il piacere cosiddetto “pornografico”: il termine di “guardone”.

Ma, a pensarci bene, dov’è il fondamento etico di un tale divieto, di un tale tabù e della censura sociale che ne consegue?

In altre parole: perché sarebbe lecito “fare sesso” e immorale, invece, “guardare fare sesso”?

Perché, se “fare sesso” non è solo cosa lecita, ma anche legittima, anzi persino “buona e giusta” (in quanto è una delle modalità con cui si manifesta l’amore tra gli esseri umani, oltre che essere l’atto che garantisce la riproduzione della specie), il “guardare fare sesso” sarebbe, invece, cosa riprovevole?

C’è una pruderie in questa censura sociale che non si manifesta neanche rispetto ad altre manifestazioni del “guardare”, che a voler utilizzare i normali canoni etici dovrebbero essere giudicate con ben maggiore severità.

Infatti, se guardo un film dell’horror o un triller o un film di guerra, in cui abbondano scene di violenza e omicidi anche molto crudeli, perfino di tortura, nessuno mi dirà mai che sto facendo una cosa immorale e, quindi, riprovevole.

Se, invece, guardo un film sexy (peggio ancora se decisamente pornografico: vai poi a spiegare la distinzione!) o (ancora di più) se assisto a scene di sesso in diretta, allora la cosa mi viene rimproverata, scatta il codice rosso della riprovazione.

Indubbiamente singolare!

Segno che in fondo, in fondo, manco il “fare sesso” viene considerato in sé una cosa veramente legittima e, meno che mai, “buona e giusta”, ma solo un’azione tollerata.

E, in fondo, tollerata unicamente perché essa è funzionale, anzi (per certi benpensanti “purtroppo”) indispensabile, alla riproduzione della specie.

Se il “fare sesso” si fosse veramente liberato (come un po’ tutti i contemporanei sono portati a ritenere, compresi insigni psicologi), non ci sarebbe nessuna censura sociale neanche rispetto al “guardare fare sesso”.

E, forse, anche lo stesso mercato, che prospera attorno alla cosiddetta “pornografia”, si sarebbe sgonfiato. Perché essa avrebbe perso quell’alone di “mistero”, “peccato”, “proibito”, “trasgressivo”, che ne alimenta in tanti il desiderio.

Cosa che avrebbe consentito al sesso di essere finalmente vissuto con quella naturalezza e quella innocenza, che ancora oggi (nonostante le apparenze) spesso mancano nel modo di sentirlo, pensarlo e praticarlo di molti uomini e donne.

Giovanni Lamagna