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La gelosia si può educare.

Certo che gelosia, orgoglio ferito, delusione, rabbia fanno parte della natura umana; che in buona parte è simile a quella degli altri animali!

Ma l’uomo, a differenza degli altri animali, ha una coscienza e un’intelligenza che possono aiutarlo a divenire consapevole dei suoi impulsi e ad educarli, per non restarne prigioniero.

L’uomo – volendo – si può educare a non essere possessivo, a non considerare l’altro/a una sua proprietà; e, quindi, a non essere più geloso.

Tra l’altro io sento che, quando l’altro/a non ci appartiene mai del tutto e in qualche modo ci sfugge, si sviluppa in noi un’adrenalina, un’eccitazione, che appassisce, muore, quando egli/ella sono invece per noi troppo scontati.

Un rapporto in cui non c’è la presenza di un “terzo” (quantomeno immaginario, simbolico) tende a diventare fatalmente “incestuoso”, più fraterno e amicale, che passionale ed erotico.

Accettare questa presenza ha (può avere) due effetti: ci aiuta a diventare meno possessivi e gelosi nei confronti di un nostro “rivale” (potenziale o reale) ed alimenta il nostro desiderio nei confronti del “nostro” partner.

© Giovanni Lamagna

Odi et amo.

La natura umana è caratterizzata da una strutturale e radicale ambivalenza.

L’uomo ha un disperato bisogno dell’Altro, per vincere (o, quantomeno, illudersi di vincere) la propria radicale e strutturale solitudine.

Potremmo anche dire, quindi, che l’uomo ha un disperato bisogno d’amore.

Dell’amore che riceve, ma anche dell’amore che dà.

Senza amore l’uomo muore.

Spiritualmente sempre; in certi casi, perfino fisicamente.

Allo stesso tempo l’uomo vive l’Altro come limite, come barriera, come ostacolo alla sua ingordigia, alla sua ambizione di essere come Dio, al suo desiderio di sconfinamento e onnipotenza.

E, quindi, l’uomo – allo stesso tempo che ama – odia pure.

Il suo amore è, dunque, sempre viziato, ambiguo, ambivalente, contraddittorio.

Non è mai puro, diritto, univoco, senza macchie.

Lo colse bene Gaio Valerio Catullo, quando, quasi ventuno secoli fa, scrisse il famoso carme 85:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.

Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato

……………………………………………

A sua volta, l’odio in fondo è sempre il segno di una dipendenza, di un bisogno mai del tutto soddisfatto, impossibile da soddisfare pienamente: quello di inglobare l’altro, di assimilarlo a noi.

Io ti odio perché la tua presenza mi dice nei fatti che io non sono Tutto, che io manco di qualcosa, che tu sei una parte di me che mi manca, che è insuperabilmente, irrimediabilmente e irrecuperabilmente separata da me.

La tua presenza/esistenza non conforta solo la mia solitudine, come in certi momenti felici accade.

Ma la conferma, la sancisce; e in maniera radicale, strutturale.

Questa ambivalenza radicale e strutturale si manifesta a volte, in tutta la sua massima evidenza e con esplosiva violenza, nell’assassinio della persona che si dice di amare.

Più spesso femminicidio che omicidio.

Come a confermare l’antico mito, secondo il quale Eva sarebbe stata creata manipolando una costola di Adamo.

Eva, quindi, prima della sua creazione, sarebbe stata una sola cosa con Adamo.

Mentre, dal momento della sua creazione, non lo sarà più; e non lo sarà più per sempre.

Nessun amore potrà mai colmare questa distanza, suturare questa separazione.

E per questo (forse) l’amore è sempre venato dall’odio.

O, quantomeno, da una quota parte di aggressività, se non proprio di odio.

© Giovanni Lamagna

“Natura umana” e/o “condizione umana”.

Sartre (e con lui, in generale, tutto il pensiero filosofico contemporaneo) fa una distinzione tra il concetto di “natura umana” e quello di “condizione umana”.

La prima non esisterebbe; esisterebbe solo la seconda.

Trovo tale affermazione più un gioco di parole che l’affermazione di una verità, la descrizione di una realtà.

Per me, infatti, se esiste una condizione umana universale è perché esiste (in fondo, in fondo) un quid strutturale (fosse anche minimo; anche se, a mio avviso, poi tanto minimo non è) che caratterizza e accomuna, pur nella loro diversità, la condizion0e degli umani.

Sul fatto che questo fondo, questo quid, non sia un che di fisso ed immutabile, ma di plasmabile, continuamente trasformabile nel corso della storia, sono d’accordo.

Ma il fatto che una realtà sia evolutiva, che sia trasformabile nel tempo, non vuol dire che non abbia un suo fondo stabile e, quindi, una sua identità, una sua riconoscibilità nel corso del tempo, una sua “natura” permanente.

L’acqua del fiume che bagna i piedi dell’uomo non è mai la stessa acqua, come giustamente ci ha fatto rilevare Eraclito già 25 secoli fa.

Così come l’uomo che bagna i suoi piedi nell’acqua dello stesso fiume non è mai lo stesso uomo ad ogni passaggio dell’acqua.

E su questo siamo tutti d’accordo.

Nel corso degli anni, dal momento della mia nascita a quello della mia morte, io – come soggetto – cambio innumerevoli volte: posso dire che ad ogni attimo che passa sono/divento una persona diversa da quella che ero nell’attimo precedente.

E, però, allo stesso tempo, resto indubitabilmente sempre la stessa persona, come è attestato dai miei documenti di identità e riconosciuto da coloro che mi sono familiari e amici.

Gli altri mi riconoscono ed io stesso mi riconosco come la stessa persona uguale nel tempo, anche se soggetta a cambiamento.

Questo cosa vuol dire rispetto al discorso che avevo avviato all’inizio sui concetti di “natura umana” e di “condizione umana”?

Vuol dire che la “natura umana”, qualcosa che possa essere definito con l’espressione “natura umana”, esiste, non può essere negato.

E’ ciò che permane come essenza, – riconoscibile, persistente, sostanzialmente identica a se stessa – nei diversi individui e nei diversi gruppi sociali di cui si compone l’Umanità.

Anche se – nelle varie epoche storiche e nei diversi contesti geografici – assume forme diverse, a volte anche molto diverse, persino in certi casi (quasi) irriconoscibili tra di loro.

E che, quindi e per concludere, il concetto di “condizione umana” non annulla, non cancella, quello di “natura umana”.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Bene e Male, pulsione di vita e pulsione di morte.

Ho la sensazione forte che i pensatori che nel corso della Storia hanno evidenziato soprattutto il lato negativo, quello cattivo, quello distruttivo, violento, dell’animo umano (penso in primo luogo a Machiavelli, ad Hobbes, a Nietzsche e, infine, a Freud, per fare solo alcuni nomi del pensiero moderno e contemporaneo; ma ce ne furono anche nell’antichità), anteponendolo a quello positivo, basato sui sentimenti della bontà, della compassione della solidarietà umana e dell’amore fraterno, lo abbiano fatto per una sorta di narcisistico e snobistico crogiolarsi, di realismo più realista del Re, più che di effettivo  e spietato realismo (come essi hanno voluto dare a intendere), se non addirittura mossi (mi viene il sospetto) da un’inconscia e consolatoria volontà di autogiustificare, in qualche modo, le proprie debolezze umane.

Come a dire: siamo tutti cattivi, ma lo siamo perché così è fatta strutturalmente, geneticamente, la natura umana; quindi nessuno è soggettivamente cattivo, per una qualche sua scelta e, quindi, responsabilità personale.

Per carità, con questo non voglio sostenere la tesi opposta a quella di tanto cotanto senno e, cioè, che nel mondo siano assenti il male e la cattiveria, la perfidia e l’odio, la competizione violenta, che porta a guerre e distruzioni, persino a carneficine.

Sono ben consapevole che il mondo e l’Umanità sono malati, che hanno vizi gravissimi e profondi, che ne minano la salute spirituale e producono danni incalcolabili alla civile convivenza.

Pensiamo solo a quello di cui è stato capace il regime nazista, con la complicità più o meno consapevole di buona parte del popolo tedesco, in pieno XX secolo, inventando le camere a gas e provocando la morte di milioni di esseri umani, che avevano avuto la sorte di nascere Ebrei o zingari od omosessuali.

E pur tuttavia sono convinto che, assieme a tanto male e a tanta crudeltà, nell’Umanità siano presenti anche tanto bene e tanta generosità, che vizi enormi, in alcuni casi persino mostruosi, si mescolino ad altrettanto enormi virtù, persino eroiche.

Bene, generosità, virtù, che si manifestarono addirittura in molteplici momenti e situazioni nel corso della stessa vicenda orrenda dell’Olocausto.

Sono convinto in altre parole che non sia possibile affermare con assoluta risolutezza, come fa, ad esempio, l’ultimo Freud, che la pulsione di morte addirittura preceda filogeneticamente la pulsione di vita e che, sia nella vita individuale di ciascuno di noi che sui lunghi tempi della Storia, sarà la prima a prevalere fatalmente sulla seconda.

Penso, invece, che nel mondo, come del resto nel cuore di ogni singolo uomo, si combatta una battaglia continua ed infinita tra queste due pulsioni, tra Eros e Thanatos, il cui esito è sempre incerto, altalenante: in alcuni momenti e in alcuni individui vince la prima, in altri prevale la seconda.

Affermare come hanno fatto gli illustri pensatori di cui sopra che, invece, a prevalere è sempre e senza alcun dubbio il male contro il bene, la morte contro la vita, non fa che contribuire all’avveramento di quella che si presenta come una profezia, più che come una ricostruzione storico/antropologica.

Chi dice che il male è prevalente, anzi domina, nel cuore dell’uomo, a mio avviso, non fa che avallare (e, in un certo senso, persino fomentare) questo male, dando argomenti a chi con il male è schierato, infondendo scoramento, producendo rassegnazione, distruggendo la speranza, incoraggiando quindi, al di là delle sue (a volte pur nobili) intenzioni, il male e contribuendo così, indirettamente ma di fatto, al suo perdurare, se non al suo prevalere, nella storia del mondo.

© Giovanni Lamagna

Le donne prediligono l’amore e gli uomini la guerra?

Ieri pomeriggio (chissà perché? sarà per questo clima di guerra che in questi giorni fa da sfondo angoscioso alle mie giornate) mi è venuta in mente la famosa commedia “Lisistrata”, scritta da Aristofane e rappresentata ad Atene nel 411 a. C.

Nella commedia si racconta lo “sciopero del sesso” (ovverossia l’astensione dai rapporti sessuali) messo in atto dalle donne ateniesi come forma di protesta contro i loro uomini, che, impegnati nella guerra del Peloponneso, trascorrevano pochissimo tempo con le loro famiglie.

Dalla commedia viene fuori un’immagine delle donne che preferirebbero fare l’amore anziché la guerra, mentre gli uomini preferirebbero il contrario.

A me questa commedia piace molto, la trovo molto divertente, in certi passaggi addirittura esilarante.

Ma non credo – francamente – che descriva bene la psicologia maschile e quella femminile.

La mia esperienza, infatti, mi porta a dire che le donne amano la violenza (se non proprio la guerra, che della violenza è la manifestazione estrema) esattamente come la amano gli uomini.

Per carità, non voglio certo dire tutte le donne, ma sicuramente molte donne (ed io propendo a dire la maggioranza delle donne) amano, prediligono (e per me non a caso) il maschio “macho”, il maschio guerriero, molto più del maschio mite, pacifico, nonviolento, che in cuor loro evidentemente giudicano poco macho, quasi femmineo.

E talvolta arrivano a invaghirsi persino del maschio che è violento, anche estremamente violento, nei loro confronti: misteri della psicologia umana!

Cosa voglio dire con questa breve riflessione?

Voglio dire che la violenza, il machismo, lo spirito guerrafondaio sono radicati nella natura umana molto più di quanto noi siamo comunemente portati a pensare; sono presenti a volte anche nelle persone nelle quali non lo sospetteresti neppure lontanamente.

Sono un tarlo, un cancro, che spesso si insediano nell’animo umano (magari vi si radicano sin dal momento della nascita) e lo corrodono, devastano, portandolo alla distruzione di sé e di ciò che è fuori di sé.

Se davvero metà del genere umano fosse così refrattaria all’uso della violenza ed ostile alla guerra, come sembra dirci la commedia di Aristofane, forse la Storia non sarebbe stata contrassegnata da così tante guerre, come invece lo è stata.

E forse si sarebbe riuscita ad evitare anche quest’ultima guerra, quella attualmente in corso in Ucraina, a due passi da casa nostra.

Sento e vedo, infatti, donne – anche nell’odierna vicenda – parlare come i maschi, esaltate e quasi fanatiche allo stesso modo; donne che, anziché mettere pace, aggiungono benzina sul fuoco già acceso della guerra.

© Giovanni Lamagna

Mistica, eros e sessualità

E’ notorio che l’esperienza mistica, anche quella religiosa, soprattutto quella delle donne, ha mutuato spesso il linguaggio erotico.

Non a caso, alcune opere artistiche raffiguranti le estasi mistiche potrebbero essere confuse con quelle raffiguranti veri e propri orgasmi; una per tutte: la transverberazione di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini in santa Maria della Vittoria a Roma.

Questo sta a dimostrare che tra mistica, erotismo e sessualità sussiste, è sempre esistito, un legame manco tanto sotterraneo, anzi in alcuni casi del tutto esplicito.

Anche se la teologia cattolica lo ha sempre visto – com’era ovvio – con sospetto.

Secondo Anselm Grun (teologo e monaco benedettino, autore di “Mistica”; 2011; Morcelliana) ci sono due strade per coniugare mistica ed eros (p. 149-154).

La prima è quella di prendere consapevolezza fino in fondo della propria energia sessuale e poi sublimarla, quasi trasfigurarla, al fine di vivere un amore totalitario ed esclusivo per Dio: è questa la strada di coloro che si votano al celibato.

Questa strada prevede un taglio, un sacrificio, una rinuncia alla sessualità carnale, materiale, corporea, per vivere una sessualità di natura tutta spirituale, nella consapevolezza che nessuna creatura umana potrà mai estinguere la propria sete d’amore (ogni amore umano è sempre limitato, finito) e che questa potrà essere soddisfatta solo dal rapporto con Dio, che è, al contrario di quello umano, amore infinito.

La spiritualità del mistico celibe si alimenta dunque paradossalmente del “bisogno umano di tenerezza e di amore”, succhia continuamente del sangue dalla ferita “di non essere sposato e di non avere rapporti sessuali”.

L’amore per Dio – aggiunge Grun – non deve sostituire nel mistico-celibe l’amore per l’uomo, ma si ferma alla soglia del rapporto esplicitamente sessuale, che viene sublimato quasi per aumentare ed affinare la potenza dell’amore rivolto a Dio.

L’altra strada, di cui parla Anselm Grun, per coniugare mistica ed eros, è quella, più comune, di coloro che non rinunciano concretamente alla sessualità, ma la vivono nella consapevolezza che, se il loro amore (quindi anche l’amore sessuale) perde “il rapporto con l’ignoto, con il mistero dell’altro”, esso “è condannato all’insuccesso”.

“Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce” (p.151), come dice Dorothee Solle.

“Qui l’amore mistico per Dio non è in contrasto con l’amore tra uomo e donna, ma, anzi, è ciò che rende possibile l’amore autentico…

… Hans Jellouschek, un importante terapeuta della coppia, lo spiega affermando che nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe e rimanda all’amore infinito di Dio. L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi, entrando nell’amore infinito di Dio.

La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero di Dio tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero di Dio muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.” (p.152-153)

In ogni caso, sia che si scelga la prima strada (quella della castità) sia che si scelga la seconda (quella della pratica fisica della sessualità), la via mistica non può essere surrogatoria della “incapacità di creare relazioni”. La via mistica non deve essere un rifugio per coloro che sono incapaci di risolvere “i loro problemi relazionali” (p.153).

Quali riflessioni mi ispirano le parole, che ho appena riportate, di Anselm Grun, Dorothee Solle e Hans Jellouschek?

La prima è che anche io, da mistico laico quale mi considero o, meglio, vorrei essere, vedo una profonda analogia, direi “simpatia”, vicinanza-assonanza tra mistica ed erotismo, tra mistica e sessualità. Entrambe le esperienze si alimentano e vivono dello stesso afflato, della stessa tensione, della stessa energia fisico-spirituale.

Se questo intreccio è vero per la mistica religiosa, lo è naturalmente in modo ancora più evidente e consapevole per la cosiddetta mistica laica, come la intendo io.

Naturalmente, da mistico laico, escludo la prima strada indicata da Anselm Grun: quella del celibato.

Non solo perché non la vedo necessaria e neanche funzionale ad una maggiore e più efficace elevazione spirituale di chi la sceglie e la pratica. Ma perché la vedo addirittura controproducente rispetto allo scopo che si propone.

Questa strada, infatti, si giustifica sulla base dell’antica dicotomia tra spirito e corpo, che è stata del tutto superata dalla scienza e dalla filosofia moderna.

Per le quali l’uomo non è un corpo + un’anima, realtà separate: la prima di natura inferiore, la seconda di natura superiore. Ma è un’unità psicofisica, nella quale il corpo influenza l’anima e l’anima il corpo.

Se cresce e sta bene l’anima cresce e sta bene anche il corpo, se all’incontrario si ammala il corpo si ammala anche l’anima e viceversa.

La sessualità, come tutte le manifestazioni della complessità umana, è una realtà psicofisica e come tale non solo non può e non deve essere esclusa da un percorso mistico-spirituale, ma ne deve far parte, lo deve accompagnare, anzi ne deve essere componente primaria ed essenziale.

La sessualità, in altre parole, non è una dimensione inferiore della natura umana, che come tale deve essere riscattata e sublimata, meglio ancora esclusa, per una migliore dedizione a Dio e, quindi, alla vita spirituale.

Ma, essendo una dimensione pienamente umana (così l’ha voluta tra l’altro il Creatore, per chi ci crede), non si capisce perché dovrebbe essere sacrificata, fosse anche in nome di un amore totalitario per Dio.

Vedo nella sessualità del mistico celibe, che sublima totalmente la sua energia sessuale, un che di masochistico, di sacrificio inutile, non richiesto, di natura patibolare.

Meglio – a mio avviso – vivere concretamente la sessualità, sia pure senza fermarsi alla sua dimensione puramente fisico-istintuale, ma riconoscendola come via (non unica, ma importantissima!) per penetrare nel mistero infinito della vita.

Condivido, quindi, molto di più la seconda strada di cui parla Grun: quella che riesce a conciliare pienamente mistica e sessualità.

Condivido persino molti dei concetti e financo il modo di esprimerli a cui fa ricorso Grun per parlarne.

Ad esempio: “Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce”.

“… nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe… L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi.”

“La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero… tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero… muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.”

Ho solo cancellato il riferimento a Dio e al mistero da Lui rappresentato. Perché per me il mistero sussiste anche senza Dio e per quanto mi riguarda questo tipo di mistero (che mi verrebbe di definire tutto terreno, quindi laico) basta e avanza per vivere delle esperienze mistiche, anzi una vita mistica.

Mistico è, infatti, tutto ciò che ha a che fare col mistero, con ciò che è ancora ignoto, non è ancora noto. E mistica è ogni esperienza umana che si sforza di disvelare il mistero, l’ignoto, il non ancora conosciuto.

E di questa ricerca fa parte a pieno titolo la sessualità. Se la sessualità non si riduce alla ripetizione monotona e stanca di gesti più o meno sempre uguali a se stessi. Se la sessualità diventa il luogo di una ricerca senza limiti e confini, espressione della creatività e della fantasia che (volendo) possono essere pozzi senza fondo.

Da questo punto di vista mistica e sessualità non solo non sono due esperienze contraddittorie o addirittura agli antipodi, ma possono essere due esperienze che si integrano e rafforzano, potenziano a vicenda.

© Giovanni Lamagna

Rousseau e la filosofia

Con Rousseau la filosofia si fa soprattutto osservazione del comportamento umano.

Quindi essenzialmente psicologia, storia, sociologia, antropologia, politica.

E’ questo il tipo di filosofia che prediligo.

Non analisi astratta e cervellotica, in molti casi persino astrusa.

Ma studio concreto, chiaro, semplice (anche se niente affatto semplicistico) della natura umana.

Della sua essenza e di come questa si è trasformata, evoluta (o involuta) nel corso della storia.

© Giovanni Lamagna

Due questioni a proposito del libro “Il gesto di Caino” di Massimo Recalcati

La lettura del recente saggio di Massimo Recalcati “Il gesto di Caino” (Einaudi editore) offre, come sempre quando si legge un libro di questo psicoanalista/filosofo (o filosofo/psicoanalista?), numerosi e importanti spunti di riflessione e di meditazione, anche quando non si è del tutto d’accordo con il suo autore.

Qui in particolare vorrei approfondire due questioni, che a partire dalle analisi sempre stimolanti e interessanti di Recalcati, mi hanno impegnato in una specie di colloquio virtuale con lui, anche perché questa volta (e di solito non è così) mi hanno visto su posizioni (parecchio) diverse dalle sue.

1 La prima questione inerisce un tema enorme, uno di quelli centrali della riflessione filosofica e insieme psicoanalitica.

La definisco così, in termini molto sommari e anche un po’ rozzi: l’uomo nasce fondamentalmente cattivo, aggressivo, distruttivo, addirittura crudele? o, al contrario, è fondamentalmente buono, cooperante, costruttivo, compassionevole e amorevole.

Mi pare che la posizione di Recalcati in proposito venga fuori chiara, netta (tra l’altro non è la prima volta che la dichiara, l’ha già fatto numerose altre volte nei suoi precedenti saggi): l’uomo è animato in prima battuta da una spinta distruttrice.

In questo saggio emerge subito già dall’esergo del primo capitolo, costituito da una frase de “Il disagio della civiltà” di Sigmund Freud: “E’ vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si parla della tendenza dell’uomo alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione, e quindi alla crudeltà”.

Ora io questa posizione teorica, che per Recalcati trova ispirazione e validazione non solo nel pensiero del fondatore della psicoanalisi, ma anche in quella del suo principale maestro Jacques Lacan, non la condivido.

E non perché sia portato a preferire le fiabe, come insinua sarcasticamente mastro Freud. Ma perché preferisco vedere l’uomo come un essere profondamente, radicalmente, strutturalmente ambivalente, contraddittorio e non definibile univocamente, in termini drastici e unilaterali, tipo bianco o nero.

Pertanto riconosco nell’uomo la tendenza che vede Freud, cioè la tendenza “alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione e, persino, alla crudeltà”.

Ma vedo in lui anche la tendenza opposta: quella verso la “bontà”, la cooperazione, la costruzione, la compassione, in certi momenti addirittura verso l’amore.

Per me, se è vero che ciascuno di noi porta in sé un Caino (come afferma Recalcati soprattutto nelle pagine centrali del saggio: 39-40), è pure vero che ciascuno di noi porta in sé anche un Abele.

Il che vuol dire – per uscire dalla metafora – che in ciascuno di noi è radicata la pianta del “male”, della cattiveria, ma è radicata anche la pianta del “bene”, della bontà.

E che le nostre azioni sono sempre il risultato di una dialettica, a volte di un vero e proprio conflitto, tra il “bene” e il “male”.

In alcuni casi prevale il “bene”, in altri il “male”. In alcuni uomini è prevalente il “bene”, in altri è prevalente il “male”. In nessun uomo, però, c’è o solo il male o solo il bene.

Non sono d’accordo in altre parole con la tesi che sia la violenza a “fondare” l’umano.

Ovverossia che – come dice Massimo Recalcati a pag. 40 – “il primo atto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden” sia “quello della violenza fratricida”; e “non l’amore per il prossimo, non la gratitudine verso Dio o per il creato, non la solidarietà e la fratellanza, non l’amicizia e l’amore”.

Perché, se è vero che all’origine della storia c’è Caino, è vero che c’è anche Abele; se è vero che esiste la violenza di Caino, è vero che esiste anche la mitezza di Abele.

Anzi questa, se proprio vogliamo estremizzare i giudizi e le valutazioni, viene prima di quella, se è vero che è proprio la mitezza di Abele (tanto apprezzata dal Creatore) a suscitare (come racconta il mito biblico) l’invidia di Caino e a provocare la sua violenza.

E non per questo mi riconosco in “una rappresentazione retorica e idealizzata dell’uomo” (pag. 40), come si dice oggi “buonista”, delle relazioni tra gli umani.

So benissimo, infatti, che all’amore si accompagna sempre una quota di odio più o meno grande, che alla benevolenza e alla simpatia si uniscono sempre quote parti di invidia e di gelosia; perfino nei rapporti umani più intimi e più armoniosi.

Ma questo, molto semplicemente, non mi porta a concludere che l’uomo sia fondamentalmente e originariamente cattivo, violento, “lupo” e che “la spinta alla distruzione” in lui preceda “ quella della dedizione amorosa” (pag. 42).

Per me nell’essere umano – lo ribadisco ancora una volta– c’è sia Abele che Caino, come figure quasi archetipe. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, non ci sarebbe stato Caino (come archetipo della violenza e della cattiveria umane) se non ci fosse stato prima ancora Abele (come archetipo della mitezza e della bontà).

Per concludere, su questa prima questione posta da Massimo Recalcati, la mia opinione è che l’odio compare nell’uomo non come dato genetico, costitutivo cioè della sua stessa natura fondamentale, primigenia. L’odio sopravviene piuttosto come figlio/frutto di un amore sbagliato o mancato.

Nel caso specifico l’odio di Caino si comprende solo come esito di un rapporto fusionale, incestuoso, quindi sbagliato, che lo lega a sua madre Eva.

Se non ci fosse stato questo amore possessivo (da “madre coccodrillo”) di Eva nei confronti del figlio primogenito, probabilmente Caino non avrebbe vissuto la nascita e l’esistenza del fratello Abele come una intrusione e, quindi, non si sarebbe scatenato in lui l’impulso fratricida.

D’altra parte questo lo lascia intendere molto bene – e qui concordo pienamente – lo stesso Recalcati, quando a pag. 51 scrive: “Il carattere traumaticamente intrusivo della nascita di Abele si comprende solo sullo sfondo di questo legame fusionale che lega Caino a sua madre.”

O quando a pag. 55 Recalcati approfondisce ulteriormente questa analisi: “All’origine della violenza umana troviamo l’esperienza del non riconoscimento. La delusione della domanda di riconoscimento – il suo essere respinta – è spesso all’origine del ricorso umano alla violenza. Il suo divampare può facilmente scaturire dall’assenza di ascolto, di accoglimento e di riconoscimento. Se la dialettica del riconoscimento è ostruita, bloccata, distorta, la violenza può essere un suo esito possibile.

Queste parole mi sembra confermino la tesi che fin qui ho provato a sostenere: la violenza non è affatto un dato fondamentale, primario e originario, costituente della natura umana, ma è un dato secondo, conseguente ad un “torto” subito (vero o presunto, reale o fantasmatico: qui ha un’importanza secondaria).

La violenza è, in genere, quasi sempre, l’esito o di un “eccesso di riconoscimento” (amore sbagliato, perché incestuoso, fusionale, simbiotico, come era stato quello di Eva nei confronti del primogenito Caino) o di una “carenza di riconoscimento” (amore mancato, non ricevuto, come non fu il caso di Caino, ma è il caso di molti figli, che da adulti diventano poi quasi fatalmente soggetti borderline).

2. La seconda questione su cui vorrei riflettere qui è quella che Recalcati affronta a partire dal capitoletto intitolato “La trasgressione della Legge”(da pag. 15 a pag. 36) quando analizza il mito di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male disobbedendo ad un’esplicita proibizione divina.

Qui non mi convince l’interpretazione che dà Massimo Recalcati del cosiddetto “peccato originale”. Io (mi scuso per l’immodesta citazione) ne ho data tutta un’altra, direi opposta, nel mio “Elogio della disobbedienza a Dio” (Guida Editori; 2015), dove la espongo in maniera diffusa: qui ne farò solo rapidi accenni.

Per Recalcati nel desiderio di Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero del Bene e del Male c’era non solo la spinta a voler sapere il sapere di Dio, ma addirittura l’hybris a voler essere come Dio, a diventare Dio. (pag. 21).

Per me, invece, ciò che domina nella disobbedienza di Adamo ed Eva è l’aspirazione del tutto legittima, tipicamente umana, a trascendersi, ad uscire da una condizione di inconsapevolezza (di chi, appunto, non conosce la differenza tra il Bene e il Male), tanto beata quanto beota, per acquisire piena coscienza e quindi vera possibilità di scelta.

Inoltre è vero ciò che dice Recalcati: l’uomo tende come “sua inclinazione fondamentale” (pag. 18) a trasgredire la Legge. Ma è anche vero che l’uomo (unico tra tutti gli animali) si è dato la Legge.

Non l’ha certo trovata fuori di sé, né Qualcuno gliel’ha imposta contro il suo volere. Questo è quello che racconta il mito della Genesi (Dio impone la Legge), ma non è certo una ricostruzione realistica di come sia nata la Legge.

In altre parole nell’uomo esiste certamente un’inclinazione fondamentale a fare il male (trasgredire la Legge). Ma esiste anche, allo stesso tempo, un’inclinazione a fare il bene (dandosi dei limiti, imponendosi da solo una Legge).

Anzi la seconda io la considero ancora più fondamentale della prima, perché, se l’uomo non si fosse dato una Legge, non avrebbe potuto poi neanche trasgredirla.

Chi non conosce la differenza tra il bene e il male (ad esempio, i bambini) non può neanche essere accusato (e, meno che mai, punito) per aver fatto del male.

D’altra parte Lacan non ha individuato due polarità all’interno delle quali si pone la vita di ogni essere umano: il Desiderio e la Legge?

E non è vero che privilegiare unilateralmente l’una o l’altra squilibra la vita, la sbilancia, perché la priva di una delle sue due dimensioni fondamentali, essenziali?

Qui, invece, mi pare che Recalcati faccia proprio questo: privilegiare la Legge a scapito del Desiderio; e che finisca, in qualche modo, quasi per contraddire il suo maestro Lacan.

Per concludere su questa seconda questione: per me Adamo ed Eva non avevano altra opzione, dovevano per forza disobbedire.

Se non avessero disobbedito avrebbero “scelto” unilateralmente la Legge a scapito del Desiderio; avrebbero quindi “tradito” il loro desiderio. Che è proprio quello che Lacan definisce (e Recalcati questo me lo ha insegnato) il più grande peccato che un uomo possa commettere.

Solo dopo aver scelto il loro desiderio hanno potuto prendere consapevolezza della necessità di darsi dei limiti, cioè della necessità della Legge. Della necessità di contemperare Desiderio e Legge.

Anche da questo punto di vista io ritengo che la loro fu una “felix culpa”. Sebbene il mio punto di vista – ne sono perfettamente consapevole – sia molto diverso da quello di s. Agostino, che per primo usò tale espressione a proposito del “peccato originale” dei nostri antichi progenitori.

© Giovanni Lamagna

Esiste la natura umana?

Esiste un’essenza umana rintracciabile in ciascun uomo e tale che possa essere definita “la natura umana”?

A questa domanda Sartre risponde di no. A suo avviso non esiste un’essenza umana comune a tutti. Esiste, invece, una condizione umana universale comune a tutti, che però “non è data” una volta per tutte”, ma è in perpetua, continua “costruzione”, evoluzione.

Io, francamente, penso che dietro questo ragionamento ci sia (non voglio dire “solo”, dico però “soprattutto”) un gioco di parole.

Per me la nozione di “condizione umana universale” equivale in buona sostanza a quella di “essenza” e di “natura umana”.

Se poi Sartre ha inteso distinguere i due concetti, solo perché quello di “essenza” e quello di “natura” lasciano pensare ad un’ipostasi ferma e immutabile, talmente universale, generale ed astratta da annullare le differenze tra i fenomeni concreti che ad essa fanno riferimento, allora capisco il senso della sua negazione.

Ma questo non mi porta a dire che non esiste una “natura umana” o, meglio, che non se ne possa sostenere il concetto.

Per me, dunque, si può parlare di “natura umana”. Nel senso che, al di là delle differenze che sussistono tra i vari e singoli esseri umani, esiste un quid , cioè delle costanti, un denominatore comune (“un essenza”, appunto!) che accomuna tutti gli uomini. Se non fosse così, Sartre non potrebbe neanche parlare dell’esistenza di una “universale” condizione umana.

Ovviamente anche io penso (ed in questo sono assolutamente d’accordo con Sartre) che la cosiddetta “natura umana” non possa e non debba essere considerata come un’ipostasi assolutamente statica e immutabile, nello spazio e nel tempo. Come, invece, (forse o senza forse) è stata considerata in passato, almeno fino agli inizi dell’Età moderna, dalla gran parte dei filosofi premoderni.

Io credo (al contrario di quello che pensa Sartre) che noi possiamo considerare ed ammettere l’esistenza di un nucleo originario o almeno potenziale (l’essenza) della natura umana, cioè di ciò che accomuna tutti gli uomini, sotto tutte le latitudini, e di ciò che li ha accomunati in passato, in tutte le epoche storiche.

Ma dobbiamo riconoscere (e in questo concordo con Sartre) che questo nucleo “essenziale” assume poi vesti e forme diverse a seconda dei contesti antropologico-culturali, a seconda dei luoghi geografici (tribù, popoli, nazioni…) e delle diverse epoche storiche.

E’, insomma, un’essenza in divenire, in continua evoluzione, non statica e immutabile, come forse una certa filosofia del passato e, soprattutto, una certa morale l’avevano intesa, identificando il particolare con l’universale.

Per dirla tutta e fuori dai denti, identificando la cultura occidentale (o, addirittura, la cultura di determinati popoli occidentali egemoni in una certa fase storica) con l’essenza stessa della cosiddetta “natura umana”.

A voler parafrasare un filosofo spagnolo del secolo scorso, Xavier Zubiri, il quale sosteneva che “noi siamo sempre noi stessi, ma non sempre gli stessi”, potrei concludere questa mia riflessione con la seguente affermazione: l’Umanità è sempre se stessa, ma non è sempre la stessa sotto tutte le latitudini, in tutte le epoche storiche e nei diversi individui che la compongono.

© Giovanni Lamagna