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Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.

Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.

In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.

Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.

Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.

In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.

Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.

Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.

Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.

Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.

Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.

Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.

Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?

Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.

Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.

Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.

Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.

In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.

Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.

Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.

Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.

Ma che alternative abbiamo?

Tanto vale – quantomeno – provarci.

© Giovanni Lamagna

Personalità potenziali e personalità in atto.

In ognuno di noi c’è un potenziale (una sorta di hardware) specifico, unico, singolare, attorno al quale è possibile (o, meglio, sarebbe possibile) organizzare, sviluppare, il complesso della propria personalità (quello che potremmo considerare il software).

Questo potenziale è innato e, quindi, senza merito o demerito: ci è stato dato per la gran parte dalla Natura e per il resto plasmato, senza il nostro consenso, dall’ambiente in cui siamo nati, stati allevati ed educati nei primi anni della nostra vita.

Per realizzarsi, però, questo potenziale, in parte innato e in parte figlio dell’ambiente in cui è germogliato, ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto, poi di essere accettato e, infine, di essere attualizzato dal soggetto che ne è in possesso.

Tre operazioni che non sono affatto scontate e automatiche; per cui accade spesso che molti di noi non realizzino le loro personalità, che rimangano pure potenzialità inespresse, occasioni mancate e in parecchi casi perfino sprecate.

© Giovanni Lamagna

Le uniche regole a cui dovrebbe obbedire la nostra coscienza.

Le uniche regole che dovremmo assumere a guida delle nostre scelte e delle nostre azioni dovrebbero essere quelle che Sigmund Freud definì – in modo estremamente chiaro e preciso – con le espressioni “principio del piacere” e “principio di realtà”.

E che Lacan ribattezzò con i termini, a mio avviso abbastanza equivalenti, di “desiderio” e “Legge”, anche se forse, soprattutto il secondo, meno precisi e più equivoci di quelli usati da Freud.

In altre parole, prima di agire e di compiere qualsiasi scelta, dovremmo chiederci: “Cosa desidero davvero? Qual è il mio desiderio profondo?”.

E poi: “E’ realizzabile questo desiderio o è un irrazionale capriccio della mia fantasia, fuori e contro la realtà? Fa danni a qualcuno o è del tutto compatibile con il desiderio di altri?”

E, infine: “Anche se fa oggettivamente e indirettamente dei danni a qualcuno, sono io davvero il responsabile di questi danni?”

Una volta ottenuto il via libera dalla nostra coscienza che si è posta queste domande, dovremmo poter agire di conseguenza; liberamente, abbastanza serenamente e senza paralizzanti sensi colpa.

Spesso, invece, molti di noi assumono a regola di comportamento quanto impone loro il Super-ego; a voler usare un altro termine famoso inventato da Freud.

Cioè l’insieme delle norme che tutti abbiamo introiettato – soprattutto durante la nostra infanzia, fanciullezza e adolescenza – dall’ambiente che ci circondava, in primo luogo dalla nostra famiglia; in altre parole una coscienza eterodiretta.

In questo modo molti di noi dimostrano di non essersi mai emancipati da quelle epoche della vita (infanzia, fanciullezza e adolescenza), di non essere mai diventati veramente adulti.

In uno dei suoi scritti più famosi (la trentunesima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”) Freud fece ricorso ad una frase divenuta celebre: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Io oggi, se mi posso permettere e col massimo rispetto per il padre della psicoanalisi, aggiornerei e completerei tale sua frase con quest’altra: “Dove era il Super-io, deve subentrare l’Io”.

© Giovanni Lamagna

Sociologia, psicologia e filosofia.

La sociologia (come del resto la psicologia) è figlia della filosofia.

Anzi, per quanto mi riguarda, assieme alla psicologia, è ciò che resta di ancora valido (o di più valido) della filosofia.

La psicologia si occupa di ciò che è l’uomo.

La sociologia si occupa dell’ambiente (fatto soprattutto di relazioni) in cui l’uomo vive.

Entrambe quindi hanno al centro l’uomo.

E non l’uomo astratto dei massimi sistemi, come molte volte si è ridotta ad essere la filosofia; o, almeno, una certa filosofia.

Ma l’uomo concreto, in carne ed ossa, quello che vive qui ed ora: l’uomo esistente.

Entrambe si occupano dell’esistenza dell’uomo, che è l’unica ragion d’essere oggi (almeno per me) della filosofia.

© Giovanni Lamagna

Dimensione ontologica e dimensione esistenziale della libertà.

Io – al contrario di Sartre – credo che nessun uomo sia ontologicamente libero e, quindi, realmente responsabile delle sue azioni.

Credo, infatti, che ogni uomo – detto in maniera molto banale – faccia quello che può, date le circostanze e le condizioni (storiche, ambientali, familiari, di costituzione fisica e psicologica…) nelle quali gli è dato di agire.

Le azioni umane sono ciascuna anelli di una catena infinita, legati indissolubilmente l’uno agli altri.

Le azioni di ogni singolo uomo sono dunque l’effetto di cause e fattori che lo hanno preceduto e, a loro volta, saranno cause e fattori di altre azioni di altri uomini che lo seguiranno.

Nessun uomo, dunque, può dirsi, né tantomeno è, autore di sé stesso, come riteneva invece Sartre; almeno il primo Sartre.

Ma ogni uomo è ciò che altri (soprattutto i suoi genitori e l’ambiente in cui è nato e cresciuto) hanno fatto di lui; come ad un certo punto ha riconosciuto lo stesso Sartre, il secondo Sartre.

E, tuttavia, all’uomo tocca agire (ed in questo sono d’accordo con Sartre) come se egli fosse del tutto libero e, quindi pienamente responsabile sul piano etico delle sue azioni.

E’ questo uno dei grandi paradossi della vita umana!

Al filosofo tocca dire, dunque, che l’uomo ontologicamente, oggettivamente, non è libero, ma esistenzialmente (potremmo anche dire fenomenicamente, soggettivamente) lo è.

Infatti, come una volta ebbe a dire Stephen Hawking, se devo attraversare la strada, mi tocca guardare a destra e a sinistra, per garantirmi di non essere investito da qualche autoveicolo in arrivo.

Non posso certo cavarmela affermando che tanto, sul piano ontologico è già tutto deciso e che il fatto di essere investito o meno non dipende da un mio comportamento o da mie scelte, ma dal destino che incombe su di me.

Potremmo semmai dire che da qualche parte il nostro destino è già scritto, ma che, finché non lo vedremo del tutto scritto, ci toccherà impegnarci a scriverlo come se ne fossimo davvero noi gli autori.

© Giovanni Lamagna

Sul senso religioso della vita.

Ho già sostenuto altre volte la mia ferma convinzione che o come Umanità nel suo complesso (quantomeno, nella sua larga maggioranza) recuperiamo il senso religioso dell’esistere e, quindi, un atteggiamento religioso verso la vita, oppure andremo a sbattere di brutto e ci sfracelleremo, andremo incontro – presto o tardi (a mio avviso, più presto che tardi) – ad una sorta di suicidio collettivo.

Ho altresì già avuto modo di chiarire che, quando parlo di “senso religioso dell’esistere” non mi riferisco tanto (o perlomeno non solo) al sentimento di fede professato dalle religioni classiche e tradizionali, fede cioè nell’esistenza di una Entità metafisica, ultraterrena, e in una seconda vita (questa volta eterna) dopo la morte.

Ma mi riferisco piuttosto a quel sentimento religioso di cui parlava anche Einstein quando affermava: “La religione del futuro, sarà una religione cosmica. Trascenderà il Dio personale e lascerà da parte dogmi e teologia. Abbracciando insieme il naturale e lo spirituale, dovrà essere fondata su un senso religioso che nasce dall’esperienza di tutte le cose, naturali e spirituali, come facenti parte di un’unità intelligente.”

Qui vorrei pertanto meditare su che cosa sia concretamente, in termini del tutto laici e quindi esclusivamente psicologici e per niente teologici, l’esperienza di questo sentimento religioso, a quali atteggiamenti interiori e comportamenti esteriori esso corrisponda, per rintracciare ed evidenziarne le caratteristiche principali.

Prima di iniziare questa riflessione vorrei però chiarire anche una seconda cosa e, subito, in premessa: quando io parlo di senso religioso dell’esistenza, mi riferisco a qualcosa che ha a che fare più con la sfera dei sentimenti che con quella delle idee, più col cuore che con la testa.

In altre parole il sentimento religioso è per me, come tutti i sentimenti del resto, qualcosa di prerazionale o di arazionale, che nulla o ben poco ha a che fare con la ragione.

Credo che la ragione non lo possa contraddire, smentire, delegittimare; non è quindi un sentimento irrazionale o, addirittura, isterico, nevrotico, folle; ma credo che non lo possa manco avvalorare, allo stesso modo di come avvalora, dimostra, in maniera inconfutabile, una scoperta scientifica o, perfino, una “verità” filosofica.

E’ piuttosto (come ho già accennato in precedenza) un’esperienza, che si impone (o non si impone) all’uomo (o, meglio, ad alcuni uomini) con una sua evidenza apriori e non richiede quindi dimostrazioni di tipo razionale.

Può imporsi ben presto, sin dall’infanzia, quando il bambino nasce e cresce in un ambiente caratterizzato da un senso religioso dell’esistere; in questo caso tale sentimento il bambino lo assorbirà molto probabilmente dalla famiglia in cui è nato e cresciuto e dal contesto fisico, sociale e culturale che lo circonda.

O può imporsi ad un certo punto della vita, a causa di circostanze, esperienze e fattori, in genere molto forti, quasi al limite del trauma (anche se qui il trauma è da intendersi in senso positivo), che determinano una metanoia, una conversione, quindi un cambiamento radicale del modo di vedere e di vivere, della persona che ne è oggetto.

Una parola che di solito definisce questa sorta di trauma è quella di “grazia”: l’uomo raggiunto e trasformato da questa esperienza non ne ha nessun merito; comincia a sperimentare il sentimento religioso per una sorta di destino a lui benigno, senza che egli abbia fatto niente o molto poco per meritarlo; quindi per una “grazia ricevuta”.

Ovviamente (sia ben chiaro!) qui, per me, il termine “grazia” non ha e non vuole avere nessuna connotazione miracolistica e soprannaturale; per come la intendo io è una esperienza del tutto umana, terrena, laica; che ad alcuni uomini viene donata, offerta, regalata, e ad altri no (perciò “grazia”); anche se il clima psicologico, ambientale, in cui il soggetto, che ne viene raggiunto, è cresciuto, è stato allevato, certamente la favorisce, la predispone.

E veniamo finalmente al dunque: quali sono allora le caratteristiche essenziali di questo sentimento religioso, attorno alla cui definizione sto girando già da un bel po’ di parole e di frasi, senza averla però ancora articolata e resa chiara, per quanto sia possibile rendere chiara un’esperienza che si può cogliere nella sua essenza solo nella misura in cui la si esperimenta direttamente come singolo, come persona?

Cerco qui di seguito di indicarne alcune in maniera il più possibile chiara e perfino schematica.

1.La prima, anzi la più essenziale, caratteristica è data, a mio avviso, da quello che potremmo definire un sentimento di fiducia di base nella vita.

Quel sentimento che ci porta a pensare e a dire, se non sempre, almeno nella maggior parte delle nostre giornate, che la vita – nonostante tutto, nonostante i suoi dolori (fisici e spirituali), le sue paure, le sue angosce, i suoi fantasmi, che a volte ci assalgono – vale la pena di essere vissuta.

Ciò detto, si potrebbe pensare allora che tale sentimento di fiducia di base possa essere sperimentato e vissuto solo da coloro che la fortuna ha voluto godessero di una buona salute fisica e di una situazione esistenziale esteriore tutto sommato agiata, favorevole, in grado di soddisfare almeno i loro principali bisogni, quelli primari: il cibo, una casa, un lavoro, degli affetti, una buona salute fisica…

Ma l’osservazione, anche superficiale, dell’umanità che ci circonda ci dice invece che una tale supposizione non è del tutto vera; perché ci sono persone che nascono con malattie congenite, anche gravi, oppure si ammalano seriamente ad un certo punto della loro vita, persone che vivono in situazioni logistiche e materiali difficili, a volte estremamente precarie, ai limiti della sopravvivenza, e che però hanno voglia e desiderio di vivere, hanno una innata fiducia nella vita.

Mentre ce ne sono altre, alle quali apparentemente non è mancato e non manca nulla o, perlomeno, non sono mancate e non mancano le cose principali, e che però, al contrario delle prime, in teoria meno fortunate, non godono dello stesso desiderio e della stessa gioia di vivere; sono afflitte in altre parole da una sfiducia più o meno grave nell’esistenza, soffrono del male di vivere, non vedono luce nella loro vita, vivono in uno stato di fondamentale cupezza e depressione interiore.

Questo premesso, le prime sono per me persone predisposte a vivere il senso religioso dell’esistenza e spesso lo sperimentano come se fosse una condizione naturale, ovvia, scontata; le seconde no, non sanno manco dove stia di casa; anzi si meravigliano, stupiscono che altri possano viverlo e, perciò, molto spesso li irridono, quasi fossero vittime di un atteggiamento superficiale, irrazionale, alienante, illusorio, infantile, in altre parole nevrotico (Freud, ad esempio, fu una di queste persone).

2. La seconda, fondamentale, caratteristica di quello che io definisco “il senso religioso dell’esistenza” è data dall’atteggiamento di cura, potremmo anche dire di custodia, del sentimento di fiducia di base nella vita.

Questo sentimento, infatti, non è qualcosa che si può dare come scontato “vita natural durante”, una volta che lo si è sperimentato.

Una persona può nascere e vivere i suoi primi anni di presenza nel mondo con questo sentimento e poi perderlo ad un certo punto della sua vita; perderlo come, appunto, si perde (o si può perdere) la fede, quella che comunemente chiamiamo “fede in Dio” e che io invece chiamo molto più semplicemente e laicamente “sentimento di fiducia di base nella vita”.

E’ un sentimento, che, come ho già detto, viene ricevuto per grazia, quindi senza alcun merito, ma che va però curato, coltivato, perché esso si mantenga vigoroso e vitale, anche in mezzo alle prove a cui inevitabilmente il cammino della nostra esistenza ci sottoporrà.

Altrimenti è destinato a perdersi, ad essere smarrito.

E come va custodito? Con un atteggiamento di raccoglimento interiore, che accompagnerà tutte le nostre azioni e i nostri movimenti nel mondo.

Lo stesso, immagino, che caratterizzò Maria, la madre di Gesù, a partire dal messaggio dell’angelo che le annunciò la prossima nascita del figlio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Vangelo di Luca; 1, 38).

Quello stesso atteggiamento che la caratterizzerà dopo la visita dei pastori alla mangiatoia, nella quale Gesù era nato, che, esultanti, “riferirono ciò che del bambino era stato detto loro” (Vangelo di Luca; 2, 17): “ed ella custodiva tutte queste cose, meditandole in cuor suo” (Vangelo di Luca; 2, 19).

Infatti, per vivere, sperimentare, il senso religioso della vita, non basta averlo ricevuto in dono, come grazia e senza alcun merito, ad un certo punto della propria esistenza, ma bisogna essere capaci, in seguito, dopo il momento di illuminazione iniziale, di averne cura, di mantenerlo in essere e anzi, possibilmente, farlo crescere.

Altrimenti esso è destinato gradualmente a spegnersi, rifluire, e, infine, fatalmente morire.

3. A questo punto occorre allora chiedersi: quali sono le condizioni per non disperdere questo sentimento, che ad un certo punto, lo ripeto: per grazia ricevuta, ci ha raggiunto?

La prima è quella di mantenersi in contatto con la voce interiore cha ha cominciato a parlarci, quando questo sentimento ci si è manifestato la prima volta.

In ciascuno di noi, infatti, esiste un Altro da sé, quello che qualcuno ha chiamato “il vero Sé”, una sorta di Maestro interiore, che è in grado, se ci mettiamo nella disposizione giusta, che è quella dell’ascolto, di indicarci la strada da seguire, quella più adatta alle nostre inclinazioni e alla nostra natura, quella che ci permetterà di realizzare, se la seguiremo, le nostre potenzialità, cioè i talenti di cui Madre Natura ci ha dotato.

Spesso noi manco sappiamo dell’esistenza di questa Realtà interiore, presi come siamo dal tran tran quotidiano, dal chiasso che ci circonda, dalla folla alla quale tendiamo nella maggior parte dei casi a conformarci, come fanno le pecore col loro gregge.

Se però abbiamo la fortuna di venirci in contatto e impariamo ad ascoltarne la voce, dapprima molto fioca e sottile, poi un poco alla volta sempre più chiara e distinta, capiamo, ci rendiamo conto di aver ricevuto un’enorme grazia e allora ci impegneremo a non mollarla più, a seguirne sempre più fedelmente i consigli e la guida.

4. La seconda condizione è molto legata alla prima, anzi ne è la premessa; è quella di imparare ad apprezzare il silenzio e la solitudine, almeno in alcuni momenti della nostra vita, e dedicare ad essi con costanza una sorta di rituali quotidiani, isolandoci dalla folla e dal chiasso, che di solito, almeno oggi, circonda la nostra vita.

Chi ha paura della solitudine e del silenzio, chi è incapace di sottrarsi ai rumori e a volte al vero proprio frastuono delle relazioni, dei mass media, dei contatti sui social, ben difficilmente riuscirà a mantenersi in contatto con la voce interiore – quand’anche ad un certo momento, si fosse da lui fatta sentire – e di coltivare, quindi, il senso religioso del vivere.

5. Ovviamente la pratica religiosa (anche se intesa nel senso che sto qui descrivendo) non è fatta solo di contemplazione, ovverossia di contatto e relazione col proprio mondo interiore; per quanto questa ne sia la condizione basica.

La pratica religiosa richiede, infatti, scelte e modi di agire, che comporteranno uno stile di vita, anche esteriore, che sia conseguente, coerente col proprio vissuto interiore.

Richiede una vera e propria “metanoia”, cioè la conversione ad un modo di vivere completamente diverso da quello che caratterizza la gran parte degli uomini che questo senso religioso del vivere non ce l’hanno.

Richiede la scelta di valori morali e sociali radicalmente alternativi a quelli comuni e normalmente diffusi.

6. Quali?

Innanzitutto un distacco dai beni materiali.

Non nel senso (come una certa – per me cattiva – ascesi tende a consigliare) della rinuncia radicale a tutti i beni materiali, di qualsiasi natura essi siano, in favore di una povertà assoluta.

Ma nel senso di una pratica della sobrietà, cioè del non attaccamento ai beni materiali e, soprattutto, della non avidità nella loro conquista e possesso.

La sobrietà, in altre parole, come il punto di giusto equilibrio tra la rinuncia assoluta ai beni in favore della povertà e l’avidità smodata dei beni in cerca della ricchezza.

L’uomo religioso per definizione non ambisce alla ricchezza, anche se non per questo ama o predilige la povertà.

L’uomo religioso vive una vita materiale in condizioni di sobrietà.

7. La pratica religiosa richiede altresì un certo distacco non solo dai beni materiali, ma anche dagli affetti e dalle passioni.

Non certo nel senso della rinuncia a sperimentare i sentimenti della fraternità, dell’amicizia e dell’amore erotico.

Ma nel senso di non farsi da essi dominare e travolgere in nome della brama di possesso, che genera fatalmente gelosie e invidie, sentimenti oltremodo tossici e ben poco spirituali.

L’uomo religioso è per me colui che è in grado di sperimentare pienamente e caldamente tutta la gamma dei sentimenti umani verso i suoi simili, ma non si attacca alle persone e non mira a che esse si attacchino a lui.

E’ in grado in altre parole di sperimentare la singolarità e allo stesso tempo l’universalità dei rapporti con gli altri suoi simili; senza farsene ingabbiare e monopolizzare; ma allo stesso tempo in maniera calda e profonda.

8. La pratica religiosa richiede, infine, la rinuncia alla propria volontà egoica ed egocentrica, intesa come puro arbitrio e assoluta libertà di scelta, al di fuori di ogni limite e confine.

Nel senso reso bene da alcune affermazioni bibliche, che, ben interpretate, possono essere recepite anche da uno come me che intende dare al “sentimento religioso” una valenza del tutto laica e umanistica.

Ne cito solo due: “… sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.” (Vangelo di Giovanni; 6, 38); e “… non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Paolo; Lettera ai Galati; 2, 20)

Beninteso questa decentramento della propria volontà non comporterà che l’uomo religioso si faccia schiavo di qualcuno o di qualcosa; richiederà però la consapevolezza profonda che egli non è la misura di tutte le cose e l’obbligo a rispondere e ad obbedire alla voce interiore, che ad un certo punto della sua vita lo ha raggiunto e che gli indicherà e illuminerà, momento per momento, la via da seguire.

9. In altre parole lo stile di vita dell’homo religiosus – anche nel senso del tutto laico (e spero sufficientemente chiaro) che qui ho inteso dargli – sarà caratterizzato da un senso di profonda umiltà, dedizione e devozione.

Umiltà nel senso di consapevolezza di non essere lui l’autore e il padrone del proprio destino, ma di esserne solo strumento o, tutt’al più, coautore.

Dedizione ai valori della fiducia, della speranza nel futuro (di cui si sentirà responsabile costruttore in prima persona) e dell’amore fraterno e universale.

Devozione alla chiamata e alla guida interiore costituite dal Maestro spirituale che lo abita e che abita ognuno di noi, anche se e quando non ne siamo consapevoli.

© Giovanni Lamagna

Nonviolenza o autodistruzione.

E’ venuto il tempo, io dico, di concepire e provare a realizzare un nuovo ordine internazionale: fondato sulla pace e sulla nonviolenza.

Finora nella storia, quando scoppiavano delle controversie che non si riuscivano a risolvere in modo pacifico e non violento, la strada obbligata, dai più ritenuta perfino scontata e naturale, era la guerra.

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”

Con queste parole, famosissime, il generale prussiano Carl von Clausewitz esprimeva, quasi due secoli fa, non solo un sentimento ma anche un’idea, un concetto, un’ideologia diffusissimi, accettati dal senso comune come ovvii, indiscutibili, del tutto scontati.

Persino la morale della Chiesa cattolica, che pure si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’insegnamento indubitabilmente pacifista e non violento di Cristo, è giunta a teorizzare e ritenere legittima la guerra in determinate situazioni, almeno in quelle configurabili nella forma della legittima difesa.

Tanto è vero che in questi giorni perfino un vescovo e un teologo molto noto e illuminato come Bruno Forte, citando la dottrina cattolica, è arrivato a giustificare l’invio delle armi in Ucraina, a sostegno della resistenza di un popolo attaccato da un’altra nazione, quella russa, e a criticare un certo pacifismo che ha definito “ingenuo”; come a dire: in certe situazioni il ricorso alle armi è inevitabile.

Io, invece, dico, che siamo giunti ad un punto, ad un tornante, della Storia in cui bisogna mettere in discussione quello che finora è apparso come assiomatico, pensiero comune, scontato, senza alternative, perfino naturale, quindi giuridicamente legittimo.

E’ venuto il tempo di dire che all’uso della forza (o, meglio, della violenza e, quindi, delle armi) si può, anzi si deve (o, perlomeno, si dovrebbe), rispondere senza fare ricorso alle stesse modalità e agli stessi strumenti di morte; che alla violenza si può, si deve, si dovrebbe, rispondere con la nonviolenza.

Lo richiede il tempo storico nel quale viviamo, io direi la stessa realpolitik e non solo la morale o una certa concezione ideale della vita e dei rapporti tra gli uomini.

Oggi iniziare una guerra (ne è un esempio quella ora in corso in Ucraina) può innescare una tale escalation militare da sfociare, prima o poi e inevitabilmente, in un conflitto planetario e, a quel punto, nucleare; il cui esito molto probabile sarebbe l’autodistruzione dell’Umanità.

Oggi l’uso delle armi, anche solo quello delle armi convenzionali, è talmente devastante, sia in termini di feriti e morti che di distruzioni di edifici e strutture economiche, da porre legittimamente la domanda: vale davvero la pena difendersi con le armi da un attacco straniero?

Conosco già e molto bene l’obiezione che di solito viene fatta ad un tale ragionamento da coloro che non concepiscono altra risposta alla violenza armata che il ricorso all’uso delle armi: “ma allora, voi pacifisti, volete, state in pratica chiedendo, la resa dell’Ucraina all’invasione russa?”.

E’ questa un’obiezione senz’altro fondata e del tutto legittima; certo, se ad un attacco violento, noi reagissimo in maniera inerte, semplicemente alzando le mani in atto di resa, avrebbero del tutto ragione i critici della posizione pacifista e nonviolenta!

Il punto è che i pacifisti e nonviolenti non pensano affatto che l’alternativa alla risposta militare ad un attacco militare sia (solo) la resa incondizionata all’avversario; pensano che un’alternativa possibile, praticabile, sia un altro modo di resistere e, quindi, di realizzare il conflitto (sì, il conflitto: non esito ad usare questo termine) con l’esercito invasore.

Sia, ad esempio e innanzitutto, la non collaborazione civile con le nuove autorità che verrebbero ad insediarsi al potere, la disobbedienza civile diffusa e di massa.

In secondo luogo, la ricerca e l’instaurazione di alleanze negli organismi internazionali deputati a risolvere le controversie tra popoli e nazioni, per isolare e sanzionare con metodi non violenti la nazione attaccante.

In terzo luogo la risposta mite, perfino gentile, ma ferma, non pavida, alla brutalità e violenza dei militari invasori, in modo da mettere continuamente a confronto umanità e disumanità e suscitare nei violenti sentimenti di vergogna e possibilmente di pentimento e cambiamento.

So benissimo che tali modalità e strumenti alternativi di praticare il conflitto non sono di facile uso, che richiedono un’educazione ed una preparazione lunga, difficile e delicata; e, soprattutto, che di primo acchito appaiono ai più del tutto ingenui e completamente inefficaci, quindi improponibili.

La riflessione che il pacifista oppone a tale reazione istintiva e immediata è però: a quali risultati porta invece la risposta militare ad un intervento armato (ovviamente il pacifista non prende manco in considerazione l’intervento armato di attacco)?

E’ effettivamente più efficace la resistenza armata rispetto a quella non armata?

Forse fino ad ottanta anni fa questo si poteva ancora sostenere; nessuno può negare, neanche il più strenuo dei pacifisti nonviolenti, che la resistenza armata al nazifascismo ha impedito che questo mostro ideologico, politico e militare prendesse il sopravvento e affermasse il suo dominio nel mondo.

Ma oggi si può ancora dire lo stesso? Si può ancora affermare che la resistenza armata sia la risposta giusta, anzi l’unica adeguata e proporzionata ad un attacco militare; anche col rischio di un’escalation mondiale e quindi nucleare del conflitto?

Io credo di no.

Per questo penso che ci troviamo oggi in una fase completamente nuova della Storia, che ci costringe a cambiare radicalmente i nostri paradigmi culturali; una fase in cui l’Umanità deve decidere del suo destino, non del suo futuro remoto, ma di quello prossimo: vuole continuare a vivere e a evolvere, progredire; o vuole sprofondare nell’incubo dell’autodistruzione?

Questa domanda non ha a che fare solo con la morale e con l’ideologia (come molti ancora oggi credono ed affermano); ha a che fare con il senso della realtà, anche se, purtroppo, una realtà che a molti ancora sfugge; è una domanda che ha a che fare con la realpolitik e non più con l’utopia.

Allo stesso modo di come (e non è un caso che i due problemi si pongano nello stesso momento, nella stessa fase storica) l’Umanità è chiamata a decidere oggi, consapevolmente, del futuro dell’ambiente, dell’ecosistema, in cui vive.

Con il tipo di sviluppo economico che da secoli (soprattutto negli ultimi due secoli) gli uomini si sono dati, il loro futuro è segnato da una prospettiva di oramai neanche tanto lenta autodistruzione.

O l’Umanità, quindi, nel giro non di secoli ma di pochi anni, sarà capace di modificare, anzi invertire il modello di sviluppo (specie quello economico) che finora ne ha caratterizzato la storia, oppure il suo destino è segnato, già deciso: nel giro di qualche generazione essa scomparirà dalla faccia di questo pianeta.

Non so quanti riescono ad avere consapevolezza della fase storica assolutamente nuova, inedita, nella quale ci troviamo.

So solo che chi ha raggiunto questa consapevolezza ha il dovere morale e il compito storico di segnalarlo ai suoi simili; saranno poi essi a decidere del loro destino; che per me non è affatto scontato; o, meglio, a giudicare dai segnali prevalenti che vedo in giro è un destino niente affatto roseo e positivo.

La ragione, che guarda freddamente i dati di realtà, mi rende anzi piuttosto pessimista; e mi ha colpito molto che perfino il capo della Chiesa cattolica, un uomo illuminato dalla fede e quindi piuttosto propenso verso la speranza, si sia autodefinito in una recente e importante intervista con lo stesso termine.

Anche se, come ci invitava a fare un illustre pensatore italiano, non voglio che al pessimismo della ragione segua, si unisca anche quello della volontà; perché come ci insegna un vecchio adagio “finché c’è vita c’è speranza”; ed io voglio (ancora) crederci, se non altro per il bene che voglio e auguro a mia figlia e ai miei nipoti.

© Giovanni Lamagna

L’uomo è quello che avrà progettato di essere?

Sartre afferma: “L’uomo è, dapprima, un progetto che vive se stesso soggettivamente…; niente esiste prima di questo progetto… l’uomo sarà anzitutto quello che avrà progettato di essere.” (da “L’esistenzialismo è un umanismo”; pag. 55).

Sono in totale disaccordo con questa affermazione: per me esiste moltissimo prima che l’uomo faccia i suoi progetti.

Esiste innanzitutto la storia millenaria degli uomini che lo hanno preceduto; esiste poi l’ambiente storico-sociale nel quale egli è inserito; esiste, infine, il patrimonio genetico di cui egli è dotato.

Arrivo a dire che i progetti dell’uomo altro non sono che il frutto del combinato disposto dei tre fattori di cui prima.

Per cui possiamo dire – in radicale disaccordo con Sartre – che l’uomo si illude di essere “quello che avrà progettato di essere”.

In realtà i suoi progetti sono innanzitutto quello che egli è, ben prima che egli faccia i suoi progetti.

L’uomo è in realtà, potremmo dire, un “meccanismo” del tutto necessitato, che si vive però (ed è condannato a viversi) come soggetto libero e in grado di fare progetti: paradosso dei paradossi!

© Giovanni Lamagna

L’uomo è ciò che si fa?

L’uomo – dice Sartre – “è ciò che si fa”.

Per me anche questa affermazione di Sartre è vera e non è vera.

E’ vera nel senso che l’uomo è ANCHE ciò che si fa.

Non è vera nel senso che l’uomo non può farsi “ad libitum”, non può farsi, cioè, qualsiasi cosa egli vorrebbe o desidererebbe.

Ma è obbligato a farsi in un certo modo, a partire dalla sua condizione psicofisica e tenuto conto dell’ambiente in cui nasce, cresce e vive la sua esistenza.

Insomma, in altre parole, le possibilità che ha l’uomo di farsi, di auto-crearsi, non sono illimitate.

L’uomo può ed è capace di farsi, ma a certe condizioni ed entro certi limiti, che in fondo sono abbastanza ristretti.

Possiamo anche dire, pertanto, che la sua essenza lo condiziona e lo definisce, anche se – e questo è vero – egli prima esiste e poi ne acquista consapevolezza.

In questo senso (ma solo in questo senso) anche per me, come afferma Sartre, “l’esistenza precede l’essenza”.

© Giovanni Lamagna