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L’aggressività nel rapporto di coppia.

Perché – in molti casi – si diventa estremamente aggressivi nel rapporto di coppia?

Per la ragione molto semplice, persino banale, che il rapporto di coppia è quello nel quale la maggior parte delle persone investe di più.

Come in nessun altro rapporto.

In altre parole noi nel rapporto di coppia – specie all’inizio – tendiamo a ricercare le stesse gratificazioni che abbiamo sperimentato nel rapporto coi nostri genitori, specie nel rapporto con nostra madre.

Anzi tendiamo a cercare perfino le gratificazioni che non siamo riusciti a sperimentare allora, le gratificazioni che ci sono mancate, che non abbiamo ricevuto in quella fase decisiva della nostra vita affettiva.

Vorremmo così riempire – attraverso il rapporto di coppia –  dei vuoti – qualcuno parla addirittura di ferite – che ci portiamo appresso da quando eravamo bambini.

Sta tutta qui la estrema complessità e difficolta dei rapporti di coppia.

E la ragione dei loro numerosi e frequenti fallimenti.

© Giovanni Lamagna

Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

Rapporto genitori/figli.

Nessuno di noi nasce ovviamente dal nulla, ciascuno di noi nasce da (è figlio di) due genitori.

Di cui – in un certo senso – è, dunque, la copia, la replica.

È quindi la copia, la replica di un Altro.

Allo stesso tempo ognuno di noi è però Altro rispetto ai suoi genitori, è il Nuovo, il diverso che nasce.

La copia, la replica, infatti, non sono mai fedeli, ma sempre in qualche misura infedeli e, quindi, per certi aspetti almeno, originali.

Il rapporto figli/genitori si gioca, dunque, tutto su questa contraddizione-paradosso: continuità/discontinuità, medesimo/diverso, fedeltà/infedeltà, interezza/rottura.

© Giovanni Lamagna

Il segreto del figlio.

C’è un “segreto del figlio” (rubo l’espressione a Massimo Recalcati; 2017), che i genitori non devono avere la pretesa di scoprire, un territorio proprio del figlio che non devono invadere.

Il figlio deve fare il suo percorso su una via distinta e, a volte, distante dai genitori; quindi, in qualche misura almeno, sconosciuto, nascosto ai suoi genitori.

Così sembra abbia previsto la natura; piaccia o non piaccia a noi genitori.

© Giovanni Lamagna

È l’amore e non l’odio che ci aiuta a separarci dagli altri.

Non ci si può separare veramente dai propri genitori, anche, anzi ancora di più, quando essi ci hanno fatto molto male, se non dopo averli “perdonati” e, quindi, aver ristabilito con loro un qualche legame di compassione, se non proprio di amore.

Cioè dopo aver detto loro, in cuor nostro, se non proprio con un discorso esplicito: “Ho capito che non è stata colpa vostra se mi avete fatto del male, ho capito che me lo avete fatto perché siete delle persone alle quali è mancato l’amore, quindi “povere” di amore; e per questo non siete stati capaci di darlo a me.”

Paradossalmente è l’amore e il perdono che generano la separazione, non l’odio.

L’odio porta sempre con sé rimasugli di attaccamento; è in fondo una forma di attaccamento non risolto, non superato.

Segnala, quindi, un’incapacità a separarsi veramente, cioè psicologicamente e non solo fisicamente, dalla persona che si odia e da cui ci si vorrebbe separare.

© Giovanni Lamagna

Genitori e figli.

I figli hanno diritto alla “giusta libertà” dai loro genitori.

Ma hanno anche il dovere di riconoscere il “debito simbolico” nei confronti dei loro genitori.

Questi, quindi, hanno il diritto di aspettarsi dai figli la gratitudine e il riconoscimento per la vita loro donata e per l’eredità materiale e spirituale che essi hanno loro trasmessa.

Ma hanno allo stesso tempo il dovere di concedere ai figli la “giusta libertà” di fare la loro strada e di utilizzare l’eredità ricevuta nei modi che essi riterranno più giusta per loro.

© Giovanni Lamagna

Sullo spot della Esselunga.

Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.

Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.

Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.

E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.

Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.

Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.

Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?

Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?

Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?

Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?

© Giovanni Lamagna

Quanti equivoci dietro la parola “amore”!

La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.

Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.

In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.

Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.

Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.

Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.

Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!

Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!

© Giovanni Lamagna

Ogni atto sessuale è una sorta di orgia.

Penso che un atto sessuale, qualsiasi atto sessuale, anche il più sbrigativo e veloce, anche il più semplice, intimo, privato ed affettuoso, sia sempre un atto che coinvolge più persone, anche se solo a un livello fantasmatico.

È quindi sempre – spero con questa affermazione di non offendere la sensibilità di alcuno – una sorta di orgia.

Perché nell’atto sessuale (come del resto in qualsiasi altro atto della nostra vita) non è coinvolta solo la persona con la quale lo stiamo realizzando, ma lo sono anche tutte le persone, reali o virtuali, che hanno avuto un significato nel corso della nostra vita.

A cominciare ovviamente dai nostri genitori, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri parenti più stretti, dai nostri amici, da tutti coloro sui quali abbiamo fatto (consciamente o inconsciamente) degli investimenti di natura erotico/sessuale.

© Giovanni Lamagna

Il problema riguarda SOLO gli uomini?

Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:

“La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici. Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.

Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo. È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”

Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende.

A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.

Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome.

L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.

I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto di primo acchito può sembrare tale.

Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.

Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.

Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice.

Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.

Non ha senso, quindi, dire (come fa Gramellini in maniera così perentoria e, a mio avviso, un po’ semplicistica, così noi maschi ci facciamo belli con le donne) che il problema è SOLO degli uomini; ovviamente degli ALTRI uomini, perché noi (che scriviamo) siamo diversi, non abbiamo nulla a che fare con i mostri.

Il problema, invece, come sempre in questi casi, è un problema che riguarda le relazioni e le relazioni spesso sono malate, anche quelle che non finiscono in maniera così tragica; occorre prenderne atto.

E, quando sono malate, non lo sono mai solo per responsabilità di uno/a.

Quando le relazioni sono malate le responsabilità sono sempre (in qualche misura; non sto dicendo certo che lo sono – sempre – al 50% e al 50%) di entrambe le persone coinvolte nella relazione.

In questo discorso (il mio può sembrare freddo e, quindi, cinico) non ci devono fare velo la (persino) ovvia, naturale, giusta, sacrosanta pietà che proviamo (e dobbiamo provare) per la vittima; e lo sdegno, il senso di rivolta morale che di conseguenza proviamo verso l’assassino.

Altrimenti rischiamo di cadere nella retorica, che è dannosa non solo perché non ci fa vedere le cose per quelle che sono, ma tende a rimuovere i mostri che sono in ognuno di noi; anche se l’intenzione vorrebbe essere tutt’altra.

© Giovanni Lamagna