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In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?
Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:
“In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.
La mia concezione è diversa.
Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.
Più di questo non posso desiderare!
Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.
Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.
Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.
Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.
Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.
Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.
Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.
Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.
Si tratta della totalità.
Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.
In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.
Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.
In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.
E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.
Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.
La cosa è del tutto irrilevante.
È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.
Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.
E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.
L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.
Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.
Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.
Perciò Dio da solo non basta.
C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.
Deus et homo.”
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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”
(…)
Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.
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In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.
Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.
Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.
1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.
Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.
Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.
2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.
In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.
3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.
Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.
4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.
Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.
5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.
Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.
Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.
© Giovanni Lamagna
Occidente e Oriente: confronto utile, anzi necessario.
Il confronto tra Occidente e Oriente è affascinante; perché questi due mondi sembrano essere andati, nel corso della Storia, in due direzioni contrarie, perfino opposte; mentre oggi, grazie alla globalizzazione, sembrano finalmente incontrarsi.
Il primo ha privilegiato l’azione (anzi un attivismo esagerato, addirittura esasperato), il progresso scientifico e tecnologico, la rincorsa al benessere materiale, che è sfociata negli ultimi decenni nel consumo molte volte fine a sé stesso, il consumismo.
Il secondo ha privilegiato, invece, la contemplazione (fino a sfiorare l’inazione), l’adeguamento ai ritmi lenti della natura, la messa in secondo piano, nelle gerarchie valoriali, del progresso materiale rispetto a quello spirituale.
Nessuno dei due, a mio avviso, può (e dovrebbe) vantare superiorità culturale rispetto all’altro.
Perché ciascuno di essi ha sviluppato, anche se in maniera forse troppo unilaterale, aspetti fondamentali dell’umano.
Semmai essi avrebbero bisogno (come da un po’ di decenni, in verità, sta avvenendo) di incontrarsi e integrarsi.
Prendendo ciascuno i pregi dell’altro e superando i propri limiti e le proprie unilateralità.
© Giovanni Lamagna
Il mio antidoto alla frenesia e al logorio della vita moderna.
Vedo, constato, che, in questa nostra epoca nella quale la velocità è diventata un valore principe, la grande maggioranza delle persone corre, si affanna, fa le cose senza un attimo di tregua, senza mai tirare il fiato.
Come presa da un ingranaggio al quale non riesce a sottrarsi, ma che anzi forse le piace perfino assecondare, in certi casi addirittura autolesionisticamente e, quindi, masochisticamente.
Io, invece, a differenza di questa maggioranza, amo stare il più possibile fermo, seduto, a pensare, a riflettere, a meditare, a contemplare, a connettermi con la parte di me più intima e nascosta, con il mio io profondo.
È questo il mio status fondamentale, stavo quasi per dire il mio lavoro odierno, specie da quando sono andato in pensione e non vado più a lavorare.
L’ho scelto e lo preferisco anche a costo di apparire (anzi, essere) un po’ lento, se non proprio passivo, nelle mie reazioni agli stimoli esterni o eccessivamente statico, inattivo.
E, forse, questo mio atteggiamento, ne sono consapevole, può indurre reazioni negative nei miei confronti da parte di alcuni, che possono giudicarlo persino indolente, pigro.
Eppure niente e nessuno riesce a smuovermi, a distogliermi da questa mia postura fondamentale.
Quasi mi fossi assegnato un compito: quello di andare contro corrente, di compensare con una loro aggiunta, un loro surplus, un loro eccesso, la carenza di lettura-meditazione-contemplazione, direi addirittura di anima, di spiritualità, che a me sembra caratterizzare il muoversi frenetico, in certi casi e momenti addirittura caotico e agitato, della maggior parte dei miei simili.
Cosa è, infatti, l’agire senza il necessario distacco e, quindi, senza una quota parte di pensiero, di riflessione, di meditazione, se non un inutile e a volte persino sciocco girare a vuoto?
Non che sia tale o che giudichi tale la maggior parte delle azioni degli uomini che mi circondano; non arrivo a pensare questo; anche se talvolta, anzi in molti casi – devo confessarlo – tale pensiero mi sfiora.
È che, forse, a mio giudizio, un po’ più di riflessione prima di agire, prima di tradurre un impulso istintivo o puramente emotivo in azione, non farebbe male; anzi!
È a questa carenza, a questa deficienza di consapevolezza, che ritengo voglia (lo ammetto: forse presuntuosamente), quasi per un istinto o per un riflesso condizionato uguale e contrario, sopperire il mio non-agire, il mio “stare fermo”.
Che, forse, per altri aspetti, non lo nego, arriva ad essere anch’esso negativo, per motivi opposti, soprattutto quando eccede, quando supera un certo livello.
Come se esso (forse mi illudo in questo) potesse essere il necessario o, quantomeno, utile bilanciamento di altri eccessi; quelli che vedo prevalere attorno a me.
© Giovanni Lamagna
Vivere è studiare e studiare è vivere.
La mia vita è studio: non saprei vivere senza studiare.
Ma non lo studio che mira alla erudizione, fatto solo di lettura di pagine e pagine di libri.
Bensì lo studio che è fatto di ricerca: di letture, ma anche di osservazione, di curiosità, di sguardo attento, di colloqui, conversazioni e, soprattutto, di riflessione, meditazione, contemplazione.
Lo studio, insomma, che non è solo studio, ma che è soprattutto vita: vita di studio e studio della vita.
© Giovanni Lamagna
Misticismo e movimento.
I mistici non sono “statici”, come afferma Franco Ferrarotti, “in attesa dell’estasi”.
A parte che la parola “estasi” (dal greco “ἔκ: fuori” + “στασις: stato”) vuol dire, letteralmente, “uscita da”.
Uscita da dove?
Dal proprio Sé (quello, sì, statico) per andare verso l’Altro da sé.
L’ estasi comporta, quindi, per definizione, un movimento.
Come potrebbe allora avvenire questo movimento, se i mistici stessero fermi?
Ma poi i mistici non stanno semplicemente, passivamente, “in attesa dell’estasi”.
Essi sono alla ricerca, una ricerca attiva, dell’estasi; l’estasi è, appunto, il risultato finale, l’approdo, il frutto, potremmo anche dire il premio, di questa loro ricerca.
I mistici, dunque, si muovono eccome, al contrario di quello che pensa Ferrarotti.
Solo che si muovono con lo spirito, anche quando stanno fermi, immobili, col corpo.
E il movimento spirituale, quello che avviene nella contemplazione, che precede e si realizza compiutamente nell’estasi, è il più importante.
Ben più importante di quello che avviene semplicemente col corpo, quando il corpo compie alcune azioni esteriori.
© Giovanni Lamagna
Contemplazione, identità e rapporto con gli altri.
Il contemplativo è sempre presente a sé stesso.
Perché vive costantemente in rapporto con l’Altro da sé.
Che è il suo Sé più vero, autentico, quello che gli dà identità, continuità e, allo stesso tempo, lo spinge a muoversi, a camminare, ad evolvere.
Chi, invece, contemplativo non è vive continuamente fuori di sé, rapportandosi agli altri prima che a sé stesso, nell’illusione di costruire in questo modo un autentico e più veloce, rapido, rapporto con gli altri.
Diventa allora una sorta di canna al vento, di banderuola: cambia direzione a seconda del vento.
Cambia modo di essere a seconda delle persone con le quali entra in relazione.
Si conforma a loro, al loro pensiero, ai loro desideri, come se dicesse continuamente “così è se vi pare”.
Non ha un suo pensiero autonomo, un suo personale desiderio.
In altre parole non ha una sua identità.
E, senza una forte identità, come ci ha insegnato Erik Erikson, non si riesce neanche a costruire autentici rapporti con gli altri.
© Giovanni Lamagna