Archivi Blog

Le religioni tradizionali e il bisogno di religiosità.

Stamattina, per caso, ho partecipato al rito della Messa domenicale: stavo con mio nipote che tra qualche mese “vuole” (tra virgolette, ovviamente) fare la Prima Comunione.

E pensavo: gli uomini (tutti gli uomini, di tutte le geografie e di tutte le storie) hanno avuto ed hanno bisogno tuttora di riti, come di miti, di simboli e, in fondo, perfino di sacro.

Anche in un mondo materialista e ateo come quello che si è venuto formando (gradualmente, molto gradualmente all’inizio, ma sempre più impetuosamente via, via) almeno a partire dal XV secolo in poi; almeno in questa parte del mondo che siamo soliti chiamare Occidente.

Tanto è vero che gli uomini non riempiono più le chiese, ma riempiono gli stadi, per eventi sportivi e spettacolari in genere, facendo dei campioni sportivi o delle star dello spettacolo i loro nuovi miti e divinità; il più delle volte del tutto inadeguati nel paragone con le antiche divinità, persino con quelle pagane.

C’è quindi, a mio avviso, e ci sarà sempre (a meno di una mutazione antropologica, che non è però da escludere e che forse è oramai alle viste: si pensi all’egemonia che potrebbe assumere in un prossimo futuro l’Intelligenza Artificiale) una domanda di riti, di miti, di simboli e persino di sacro; in altre parole di religiosità.

Alla quale però le religioni tradizionali sono oramai del tutto incapaci di dare risposte.

Stamattina, infatti, durante la Messa ascoltavo le letture del Vecchio e del Nuovo Testamento che sono state proposte; vi si parlava di un fattore, di un terreno, di una vigna, di contadini…

Si faceva, insomma, riferimento ad una società agricola, del tutto superata oramai dal mondo moderno addirittura post-industrializzato.

Il prete celebrante, inoltre, e i suoi assistenti vestivano abiti del tutto fuori moda, rispetto ai tempi attuali, e utilizzavano strumenti rituali (turibolo, incenso, candele…) del tutto inattuali.

Come è pensabile, allora, che una tale religione possa ancora seriamente parlare all’uomo moderno?

Infatti, la gente – che pure era abbastanza numerosa – partecipava al rito in maniera, a mio avviso, del tutto superficiale, se non proprio distratta.

Nessuna meraviglia, dunque, che la gran parte degli uomini moderni vadano a soddisfare il loro anelito di religiosità fuori dalle Chiese, ignorando (quasi) del tutto le religioni tradizionali.

Anche se (purtroppo!) le alternative nelle quali vanno poi a rifugiarsi sono del tutto surrogatorie e banali; in molti casi addirittura alienanti.

Ci sarebbe bisogno di ben altre risposte alla domanda di religiosità che – a mio avviso – rimane intatta, viva, pulsante anche nell’uomo contemporaneo.

Perché è una domanda eterna, è un archetipo dell’essere umano, di cui nessuno di noi potrà mai fare a meno.

Che ne sia cosciente o meno.

Ma questo è un altro paio di maniche.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

………………………………………………….

*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Lo spirito religioso oggi.

Lo so di dare scandalo e di stupire anche molti dei miei amici e compagni di lunga data, facendo le affermazioni che seguiranno.

Ma devo dirlo e voglio dirlo con forza: più vado avanti e più mi convinco che, se le religioni non fossero state inventate alcuni millenni orsono, bisognerebbe inventarle oggi.

Pur con tutti i loro limiti, le loro contraddizioni, gli orrori che sono stati commessi in loro nome, esse hanno, infatti, contribuito enormemente a dare un senso all’uomo.

Che, forse, senza di esse non l’avrebbe trovato.

E, anche se oggi molte religioni storiche (forse tutte) hanno perso la funzione antropologica che le ha giustificate fino all’arrivo della modernità, questo non vuol dire che sia venuta meno la domanda originaria di senso, da cui esse erano nate.

La domanda di senso, infatti, permane, anche nell’uomo del XXI secolo.

E la domanda di senso produce inevitabilmente forme di religiosità.

Che non avranno più (e per fortuna, dico io!) le caratteristiche di quelle che sono appena (e, ritengo, per sempre) tramontate, ma sono pur sempre forme di religiosità.

Coi loro simboli, i loro riti, talvolta anche i loro sacerdoti, finanche le loro divinità.

Persino la sete di potere, la brama di ricchezza, il desiderio di fama e l’esasperato consumismo attuale corrispondono, se ci pensiamo bene, a questo bisogno di senso.

E alimentano, quindi, a loro modo, forme, per quanto perverse, di religiosità.

Non è dunque – lo dico ai miei amici e compagni – la religione o, meglio, lo spirito religioso in sé che bisogna combattere e rinnegare; perché questo è ineliminabile dall’animo umano.

Anzi, esso va riscoperto e coltivato, seppure in forme completamente nuove rispetto a quelle delle religioni storiche oramai tramontate.

Occorre, invece, combattere i contenuti e le forme di alcune “religioni” moderne, che spesso si mascherano come anti-religiose, come tentativi di superamento dell’idea stessa di religione.

Mentre, invece, molte volte ne sono solo un pessimo e nefasto surrogato, ancora peggiore e più negativo delle religioni storiche, tanto disprezzate dall’uomo moderno e ancora più da quello che si definisce postmoderno.

Per recuperare – come ho già detto – il senso più vero e autentico delle antiche esperienze religiose, inventandosi nuove forme di religiosità, fondate su valori, ideali e persino utopie, all’altezza dei tempi odierni, pienamente compatibili con essi.

Capaci di coniugare, pertanto, “principio della realtà” e “ideale dell’Io”, ovverossia il restare coi piedi ben piantati per terra con la tensione – tutta umana e perciò pienamente legittima- a trascendersi.

In grado di tenere insieme scienza, filosofia e arte, sano egoismo e fraternità universale, azione e contemplazione, socialità e solitudine, lavoro e tempo libero, sesso e spiritualità.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano o è “religioso” o semplicemente non è.

Chi rigetta, in modo frettoloso e saccente, non solo le religioni storiche, ma anche la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza”, in nome dello scientismo, del laicismo, dello sviluppo del pensiero umano (in modo particolare di quello filosofico), della secolarizzazione delle società moderne, dimostra, a mio avviso, di essere persona superficiale, banale, che non tiene conto della complessità della Storia e dell’animo umano.

Non ci sono dubbi (chi può negarlo? manco l’uomo di fede può farlo!) che le religioni storiche (soprattutto in certe epoche storiche e in certi contesti geografici) abbiano prodotto disastri immani, abbiano in molte occasioni coartato il libero pensiero e le potenzialità dell’umano, provocato carneficine e oppressioni orrende.

Ma non ci sono manco dubbi che esse siano state per una lunga fase della vicenda umana una delle componenti principali, se non la principale, del suo sviluppo, della sua crescita, del suo porsi domande e tentare di darsi risposte, senza le quali l’essere umano non può definirsi tale, si riduce al semplice genere di cui pure è parte.

Le religioni storiche hanno indubbiamente partorito molti mostri e angherie, ma hanno anche ispirato innumerevoli eroi ed atti eccelsi di santità.

Non a caso è nell’ambito della vicenda storica delle religioni che è maturata la regola aurea del “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te e non fare loro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, su cui si fondano tutte le etiche umane, nelle loro varie e molteplici forme, sotto qualsiasi parallelo e lungo qualsiasi meridiano.

Certo poi le religioni storiche hanno spesso dato origine anche a contrasti e conflitti asprissimi, feroci, perfino a guerre interreligiose, che è il colmo dei colmi.

Ma questa è solo l’altra faccia della Luna, quella in ombra; che non può farci dimenticare la sua prima faccia, quella a noi visibile; o viceversa, a seconda di come vogliamo valutare le luci e le ombre che si accompagnano in ogni vicenda umana, quindi anche in quella storica delle religioni.

Negare o banalizzare la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza” (con le domande fondamentali sul “senso della vita” che essa pone), andando ben oltre l’analisi e la critica delle forme da essa assunta nella storia e nella geografia, significa negarsi, chiudersi ad una dimensione che è la più profonda che possa sperimentare l’essere umano, a prescindere dalle risposte che egli sarà (o non sarà) in grado di darsi.

Domande alle quali nessuna scienza, nessun nuovo ritrovato tecnologico e manco le strutture sociali e politiche riusciranno mai (come la Storia, soprattutto quella recente, ha dimostrato in abbondanza) a trovare risposte; perché queste riposano, sono nascoste nel cuore di ogni singolo individuo.

E niente e nessuno mai potrà scovarle al suo posto, risparmiargli il cammino (spesso faticoso e sofferto, a volte persino drammatico) della ricerca e del ritrovamento, che non sarà mai scontato, mai certo, ma affidato sempre ad un incedere precario e incerto, del tutto individuale e personale.

In altre parole, una cosa è demitizzare il mito (o i miti) che si nascondono dietro le religioni storiche, ne hanno fondato la nascita e perpetuato la durata nel tempo; altra cosa è negare la verità profonda, la funzione simbolica, che si nasconde sempre dietro ogni mito, tutti i miti che hanno accompagnato da sempre la vicenda umana.

Infine, una cosa è aggiornare e modernizzare i rituali che fanno parte delle religioni storiche e che hanno arricchito e vitalizzato, pur con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni. la vita delle società trascorse, altra cosa è eliminare del tutto i rituali, l’idea stessa del rito, dalle nostre società contemporanee.

O banalizzarli (che cosa sono alcuni happening mondani – esclusivi o di massa che siano – o alcune manifestazioni sportive se non dei rituali dell’epoca d’oggi?) al punto da renderli ininfluenti o del tutto insignificanti dal punto di vista delle risposte che i riti di una volta intendevano dare alle domande di senso che provenivano dagli individui e dalle società di cui erano prodotti storici.

L’uomo (anche l’uomo contemporaneo, ipermoderno, postmoderno) non può fare a meno né di miti né di riti; ne va della sua vita spirituale, che senza di essi ne risulta gravemente impoverita.; e cosa sono i miti e i rituali se non l’essenza, l’anima stessa della “dimensione religiosa dell’esistenza”?

Per cui – ritornando a bomba – il rapporto dell’uomo con la/e religione/i non può essere quello di chi butta il bambino con l’acqua sporca quando svuota la vasca da bagno.

L’uomo certamente non può fare a meno di interrogarsi – continuamente e in maniera lucidamente, spietatamente laica – sul suo “essere religioso”; ma alla fin fine non può fare a meno di rinunciare del tutto a questa sua natura profondamente, intrinsecamente religiosa.

Perché il suo stesso interrogarsi, porsi dubbi e domande, il suo stesso depurare miti e rituali di un tempo, fanno parte intrinseca di questa sua connaturata e profonda religiosità.

Che tende a “rilegare” (sta qui l’etimo della parola “religione”) tutte le cose, anche quelle apparentemente lontanissime tra di loro; a trovare – in altre parole – l’essenza e l’unità del Tutto.

© Giovanni Lamagna

Religione e religiosità

Ogni religione (quale più, quale meno) ha la pretesa di portare un messaggio di salvezza per l’Umanità.

Tutte le religioni o quasi tutte nascono con una vocazione apostolica, con l’intento cioè di fare proseliti.

L’uomo dotato di un’autentica spiritualità religiosa non condivide, però, né questa presunzione né questo intento.

Egli pensa che non ci sia nessuno da salvare se non se stesso; egli è già troppo impegnato a guarire le sue proprie ferite.

E’ consapevole che questo è l’unico, vero, contributo che può dare alla crescita del bene nel mondo e alla evoluzione positiva dell’Umanità.

© Giovanni Lamagna

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità

7 settembre 2015

Quattro modi di rapportarsi al sesso e alla corporeità.

Ci sono, a mio avviso, quattro modi di rapportarsi al sesso in particolare, ma potremmo dire anche all’elemento corporeo in generale, alla dimensione puramente animale che è presente in ognuno di noi.

Il primo è quello di considerare questa dimensione l’unica o la più importante.

Chi si pone in questo atteggiamento si comporta di conseguenza e di solito (quasi) come gli animali. Segue esclusivamente i propri istinti e impulsi, senza (quasi) nessuna mediazione del pensiero e (in alcuni casi) neanche della sfera emotivo/affettiva.

Nella sfera comportamentale di queste persone non c’è nessuna evoluzione, nessuna crescita: per loro non ci sono altri modi di comportarsi che quelli che mettono in atto da quando hanno acquisito una certa autonomia; non arrivano nemmeno a immaginare che ci possano essere delle alternative.

Nella vita di queste persone il sesso è molto presente (a volte in maniera addirittura compulsiva), ma come esperienza (quasi) puramente fisica, senza grossi coinvolgimenti emozionali ed affettivi. Non è esclusa una certa dose di violenza nel loro approccio sessuale.

Stiamo parlando ovviamente dei bruti, molto più vicini come modo di sentire e di agire al mondo animale che a quello degli umani.

I bruti (per fortuna!) sono piuttosto rari. Quindi diciamo che questo modo di rapportarsi al sesso è poco diffuso tra coloro che risultano iscritti dalla nascita all’anagrafe civile.

Il secondo modo potremmo dire è l’opposto del primo. E’ quello di coloro che provano una certa ripugnanza (più o meno profonda ed estesa) nei confronti della corporeità (in generale) e della sessualità (in particolare). Di coloro che hanno come modello la natura angelicata e che preferirebbero quindi essere angeli.

Spesso queste persone fanno la scelta della castità (nel campo della sessualità) e si impongono comportamenti (più o meno) ascetici su tutti gli altri piani (ad esempio nel rapporto col cibo, con l’abbigliamento, con la fatica e il tempo libero, ecc…).

E’ la scelta dei preti, dei monaci, dei frati, delle suore, degli eremiti, di molti guru, ma anche di persone che vivono inseriti abbastanza bene nella società comune degli altri umani, ma hanno un rapporto complicato con il loro corpo e in modo particolare con la loro sessualità.

Anche questo modo di essere, comportando implicazioni abbastanza radicali ed estreme, è piuttosto raro, è in fondo la scelta di pochi individui.

Esso indubbiamente risolve alla radice il problema di trovare una sintesi/armonia tra istanze (apparentemente) opposte, ma lo fa attraverso una rimozione delle sue cause, piuttosto che attraverso una loro effettiva risoluzione, lo fa eliminando uno dei corni del dilemma, anziché trovare un “accordo” tra i due corni.

Il terzo modo di rapportarsi al sesso e alla corporeità è quello di trovare un compromesso tra la natura animale presente in ogni uomo (tesa alla esclusiva soddisfazione dei bisogni primari: quelli legati alla sopravvivenza personale e alla riproduzione della specie) e quella più specificamente umana (coltivazione dei sentimenti, degli affetti, del pensiero, dell’intelligenza, della cultura…).

Talvolta (anzi piuttosto spesso) i primi vanno in conflitto con i secondi ( o viceversa) e allora occorre trovare un’armonia o (in mancanza) un compromesso tra i due.

La maggior parte degli uomini preferisce trovare un compromesso, che per forza di cose sta in un punto che potremmo definire mediano tra l’animalità pura e l’umanità ai suoi livelli più alti.

In questo caso parlerei di compromesso “mediocre”, non solo per il significato letterale di questo termine, perché si situa in un punto di medietà tra le due dimensioni in conflitto, ma anche perché comporta il sacrificio, la penalizzazione contemporanea di entrambe le dimensioni.

Questo modo di pensare, di essere e di vivere è quello che è stato codificato nella maniera più perfetta e completa dal modello di educazione borghese, specie da quello piccolo borghese, che potremmo anche definire del “perbenismo borghese”.

Questa modalità non implica una rinuncia al sesso, né tantomeno alla corporeità, ma questi devono essere “contenuti” entro schemi molto ben prestabiliti, delimitati e delimitanti: il piacere non può superare certi limiti (altrimenti scattano i sensi di colpa, collegati alle convenzioni sociali), la nudità è consentita solo in certi ambiti, situazioni e relazioni (altrimenti viene violato il comune senso del pudore), la sessualità deve obbedire a regole e norme alquanto rigide (in alcuni casi sanzionate addirittura dal codice civile).

Nella vita delle persone che adottano questo tipo di modalità il sesso è presente, ma con molta moderazione (come del resto tutto nella loro vita), viene vissuto senza grandi entusiasmi ed eccitazione, starei per dire è un sesso soft, a bassa intensità emotiva e fisica, che col tempo tende poi a svanire del tutto o quasi, in maniera quasi inerziale, sostituito (nel migliore dei casi) da un’affettività più fraterna/amicale che erotico/coniugale.

E’ questo di gran lunga il modo più diffuso di rapportarsi al sesso e alla corporeità presente tra gli uomini.

Ne esiste però un quarto.

E’ quello di coloro che ambiscono a raggiungere le più alte vette dell’umanità: non solo non vogliono restare bruti, ma vogliono evolvere, crescere, sviluppando al massimo il loro potenziale umano (emotivo, affettivo, intellettuale, spirituale); e però non dimenticano, non rimuovono (e non hanno nessuna intenzione di farlo) la loro natura animale (come fanno, invece, coloro che appartengono al secondo gruppo di persone che sto provando a descrivere).

E’ il modo di coloro che vogliono trovare una sintesi, un’armonia (e non un compromesso al ribasso, come fanno coloro che appartengono al terzo gruppo) tra le esigenze della spiritualità e quelle della corporeità.

Una sintesi, un’armonia che non penalizzi né la spiritualità né la corporeità, ma (paradossalmente, però molto concretamente) le esalti entrambe.

Sono persone che (a voler usare ancora un paradosso) ambiscono a diventare angeli restando bestie e restare bestie diventando angeli.

Per queste persone la corporeità ha una grande importanza nella loro vita; come ce l’ha in modo particolare il sesso. Queste persone non solo non rifuggono dall’attività sessuale, né tanto meno la disprezzano, ma la praticano molto attivamente e con grande entusiasmo: vivono insomma un sesso hard.

Inoltre non si rassegnano all’idea che col tempo, con l’età che avanza, la loro vita sessuale debba inevitabilmente appassire, sfiorire, diradarsi, fin quasi a scomparire.

Questo non vuol dire che pratichino un sesso puramente bestiale e animale, come fanno le persone che appartengono al primo gruppo. Anzi per loro sessualità e spiritualità devono andare di pari passo: né la spiritualità deve essere una denegazione o una sublimazione della sessualità, né questa deve essere negazione e annullamento della spiritualità.

Per queste persone allora anche la sessualità non è la ripetizione meccanica di gesti sempre uguali (come per gli animali), ma è un terreno, un ambito di ricerca e di sperimentazione, come del resto tutte le altre dimensioni della loro vita.

La stessa morale, in questo ambito, non viene vissuta come un insieme di norme imposte dai costumi sociali vigenti e introiettate, accettate in modo quasi automatico e senza nessuna valutazione critica. Ma un terreno su cui fare ricerca, da mettere costantemente in discussione, in qualche modo da “trasgredire” (nel senso letterale dell’andare oltre), avendo come unica stella polare il rispetto di sé e (in un certo senso ancora di più) degli altri.

Per queste persone, insomma, in campo sessuale vale alla lettera la massima di S. Agostino “ama e fa ciò che vuoi!”. Nel senso che la morale comune in campo sessuale non vale, può essere e va trasgredita, se la sua trasgressione è dettata dall’amore.

Un esempio sublime di questo tipo di approccio è dato dalle pratiche tantriche, che sono allo stesso tempo una forma di spiritualità (quasi di religiosità) e un modo di teorizzare e vivere la sessualità (ben oltre i confini ristretti della morale comune).

Ricco di indicazioni, a tale proposito, è il bel libro dei maestri di Tantra Elmar e Michaela Zadra “Trasgredire con amore”, edizioni Mediterranee.

Il Tantra a mio modo di vedere è la più alta realizzazione della sintesi , dell’armonia tra sessualità/corporeità e spiritualità/religiosità finora raggiunta nell’esperienza storica degli umani.

Ben diversa dal compromesso mediocre di cui si accontenta il perbenismo borghese, che caratterizza il modo di vivere la spiritualità e la sessualità della maggior parte degli uomini e delle donne. Almeno lo ha caratterizzato finora nella storia.

Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna