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Etica della responsabilità ed etica della convinzione.

Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).

L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.

Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.

L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.

Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.

Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.

Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.

Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.

© Giovanni Lamagna

Super-io e Ideale dell’Io.

Una cosa è il cosiddetto “Super-io”, altra cosa è il cosiddetto “Ideale dell’Io”: entrambe espressioni del linguaggio di Freud.

Il Super-ego è un “ideale” sovra-imposto autoritariamente al soggetto dal contesto sociale (specie quello familiare) in cui egli è nato, è cresciuto o nel quale vive in un dato momento.

L’Ideale dell’Io è quell’ideale che il soggetto stesso autonomamente si è dato, come risultato di un compromesso voluto, ricercato, tra le istanze dell’Es, che lo spingono verso il piacere assoluto, e le istanze della Realtà, fisica, materiale o sociale in cui egli vive, che a quel piacere tendono a porre dei limiti.

In altre parole – a voler usare, invece, termini di Lacan – l’Ideale dell’Io è il risultato della mediazione raggiunta tra il “desiderio” e la “Legge”.

Del Super-ego il soggetto è succube e vittima.

Il Super-ego agisce nel soggetto sotto traccia e in maniera subdola, attraverso i sensi di colpa.

Dell’Ideale dell’Io il soggetto è autore e attore.

L’Ideale dell’Io agisce nel soggetto alla luce del sole, attraverso il senso di responsabilità.

© Giovanni Lamagna

“Codice materno” e “codice della femminilità”.

Scrive Franco Fornari: “… quando il codice materno tende a perdurare al di là del periodo in cui è funzionale, allora mette in gran pericolo la femminilità” (citato da Massimo Recalcati in “Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 115).

Ho sempre pensato anche io che ci fosse un conflitto strutturale (al limite della incompatibilità) tra il “codice materno” e il “codice della femminilità” e in queste parole di Fornari ne trovo conferma autorevole.

Più la donna è “madre” (qui mi riferisco ovviamente alla tipologia caratteriale e allo stile di personalità, non certo al dato reale dell’aver procreato) e meno è, meno riesce ad essere, “femmina”.

Non è vero, invece, (perlomeno non lo è sempre) l’inverso: la “femmina” (anche qui come dato caratteriale e stile della personalità prevalente) riesce (o può riuscire) ad essere (anche) “madre”.

Non solo (ovviamente) nel senso di riuscire a procreare, ma nel senso di riuscire ad essere contemporaneamente anche una “buona madre”.

Naturalmente lo è per una fase limitata della sua vita; fin quando cioè il suo “essere madre” è funzionale all’allevamento del bambino.

Non lo è in modo assoluto e totalizzante, meno che mai definitivo.

Nel senso che il suo “essere madre” non assorbe né, tantomeno nega il suo “essere femmina”, in altre parole non esaurisce per lei tutta la gamma di possibilità realizzative del suo “essere donna”.

Ne deduco che “l’essere femmina” è uno stadio (evolutivo, per così dire) superiore a quello de “l’essere madre”.

E, infatti, può comprenderlo, mentre non è vero il contrario.

Lo stadio di “madre” non comprende, automaticamente, quello di “femmina”.

Anzi – come sosteneva implicitamente Fornari – se lo stadio di “madre” perdura oltre una certa fase (quella funzionale all’allevamento del figlio) tende ad escludere quello di “femmina”, a negarlo, a rimuoverlo del tutto.

E, per conseguenza, – come sostiene Massimo Recalcati – a mettere in grave pericolo anche “il processo di differenziazione tra il bambino e la madre”. (ibidem; p. 115)

© Giovanni Lamagna

Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

I limiti che ci vengono imposti dalla Realtà e quelli che ci imponiamo da soli coi sensi di colpa.

Non ci sono dubbi che la vita dell’uomo (come afferma Recalcati e come ha affermato, prima di lui, Lacan) sia segnata ineluttabilmente dall’atto della castrazione simbolica e che, quindi, il suo desiderio incontrerà sempre (e dovrà non solo riconoscere, ma accettare) il limite imposto dalla Legge.

Il perverso è colui che non solo non rispetta questo limite, ma non lo vede, non lo riconosce nemmeno; per il perverso il suo desiderio non ha limiti, non incontrerà mai il limite della Legge, semplicemente perché per lui la Legge non esiste, esiste solo il suo desiderio.

Quando andrà a sbattervi contro (perché prima o poi andrà a sbattervi contro) sarà troppo tardi; avrà fatto danni irreversibili non solo a coloro con i quali entrerà in una qualche relazione (ovviamente del tutto psicopatologica), ma anche e forse innanzitutto a sé stesso.

Fermo, quindi, restando questo concetto, che cioè il desiderio sano non si pone mai come un Assoluto, ma che deve confrontarsi sempre col Limite stabilito dalla Legge, è altrettanto indubitabile che in molti casi l’uomo impone a sé stesso limiti nevrotici, insani, quasi allo stesso livello della perversione di chi non riconosce alcun limite.

Ovverossia limiti che non sono fondati sul “principio di realtà” (l’equivalente della Legge lacaniana, di cui il perverso non riconosce l’esistenza, mentre la persona sana sì), ma sono stati creati e autoimposti dall’uomo stesso e dai suoi sensi di colpa, nei confronti di una libertà desiderata e però altrettanto temuta.

L’uomo sano deve dunque saper distinguere il limite strutturale, oggettivo della condizione umana (quello che è appunto all’origine dell’atto della castrazione simbolica) dal limite nevrotico, quello che ciascuno di noi (chi più e chi meno) tende a imporsi da solo, senza che ce ne sia un’oggettiva necessità.

La liberazione da questo limite, la liberazione in altre parole da quella istanza psichica che Freud ha chiamato Super-ego, è, a mio avviso, atto egualmente necessario e sano dell’accettazione del limite imposto dall’Io all’Es in nome del “principio di realtà”.

Pertanto, l’affermazione “Laddove c’era il Super-ego ci sarà l’Ego” potrebbe a buon diritto, opportunamente, secondo me, completare e integrare concettualmente la famosa affermazione freudiana “Laddove c’è l’Es ci sarà l’Ego”.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.

Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.

Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.

Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.

In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?

O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.

Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.

Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.

Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.

In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

La vita umana è sacra

Per me la vita umana è sacra.

Anche quella di chi mi è nemico.

Anche quella del mio peggiore avversario politico.

La vita umana è per me – nel “tutto è relativo” del mondo – un incondizionato assoluto.

Potrei dire anche: l’unico, vero, punto fermo.

Per questo sono radicalmente contro ogni forma di violenza.

Senza “se” e senza “ma”.

© Giovanni Lamagna

Il quotidiano e l’assoluto.

Nel suo libro “L’Arcisenso” il filosofo Aldo Masullo introduce il capitolo dedicato alla “Sapienza”, parlando (a pagina 119) “dell’insidioso insinuarsi della produzione mentale di assoluto nel tessuto della quotidianità umana”.

Come a dire (almeno io così l’ho interpretato): la quotidianità umana è fatta essenzialmente di contingenza e di relativo, ma l’animo umano è destinato a incrociare spesso (e volentieri) la dimensione dell’assoluto.

Dimensione quasi sempre fallace: una specie di allucinazione, frutto “della produzione mentale” dell’uomo stesso, che gli fa perdere di vista i contorni della nuda ed effettiva realtà. Tanto è vero che il filosofo Masullo fa cenno al “disastroso effetto” di questo “insinuarsi della produzione mentale di assoluto”.

Io avrei adoperato, invece del termine “insinuarsi” (che lascia pensare a un lento e dolce “introdursi”), piuttosto il termine “irrompere”. In quanto, più che un cambiamento, l’assoluto produce, il più delle volte, un vero e proprio sconvolgimento “della quotidianità umana”.

Eppure, nonostante il “disastroso effetto” che quasi sempre esso produce, sembra esistere nell’animo umano una irresistibile attrazione per l’assoluto, per questa rottura della contingenza e della relatività insite nella condizione umana che il suo irrompere introduce. Anche questo è un dato di realtà.

A questo punto insorgono in me due domande.

Innanzitutto: quali sono le principali situazioni in cui l’uomo sperimenta l’insinuarsi (come dice Masullo) o l’irrompere (come mi permetto di dire io) dell’assoluto nella sua vita? E’ possibile indicarne alcune, almeno le principali, le più ricorrenti nella vicenda umana? A mio avviso, sì.

La prima, la più a portata di mano e, quindi, la più sperimentata dalla grande maggioranza degli uomini, è quella dell’innamoramento.

Quando ci si innamora, infatti, l’altro/a diventa per l’innamorato/a una sorta di assoluto, che rompe, spezza la monotonia della sua esistenza quotidiana.

La figura dell’innamorato/a ci è continuamente presente, come fosse un miraggio nel deserto.

Si dilata, ci accompagna e, quindi, la vediamo dappertutto, anche quando è momentaneamente assente dal punto di vista fisico, moltiplicata all’infinito, proiezione evidente del nostro desiderio che la sua presenza non ci manchi mai.

La nostra giornata è accompagnata, come in sottofondo, da una sorta di dolcissima colonna sonora che la rallegra, anzi la rende felice, perché unica, speciale.

I nostri orizzonti sensoriali si dilatano all’infinito, come sotto un effetto allucinogeno, esaltando la nostra potenza, come in una specie di delirio. Quando siamo innamorati nulla ci sembra impossibile, anzi tutto sembra alla nostra portata.

L’innamoramento produce una vera e propria deformazione ottica. Caudale (re della Licia) “era innamorato di sua moglie; e, nell’esaltazione dell’amore, credeva di possedere la donna di gran lunga più bella di tutte”. Non a caso la sua storia (Erodoto; Storie; Libro I) viene citata da Masullo come esempio perfetto (“una perfetta mitizzazione”) dell’assunto iniziale da cui siamo partiti.

La seconda situazione in cui ci è dato verificare l’irrompere dell’assoluto nella nostra vita è, per certi aspetti, speculare alla prima: è la sperimentazione del rischio e dell’avventura, cioè della possibilità (in certi casi addirittura, paradossalmente, voluta, ricercata) di perdere il bene che ci rende felici, al limite il bene della vita stessa.

L’amore ci conferma e, perciò, rassicura: in questo sta la felicità ad esso collegata. Il rischio e l’avventura mettono tutto in pericolo, in discussione ed a soqquadro, ma introducono, allo stesso tempo, un elemento adrenalinico, che l’eccesso di conferma e di rassicurazione corre il rischio di spegnere: sta in questo l’eccitazione e la felicità che essi possono procurarci.

Caudale mette a rischio la sua felicità di marito, di uomo esaltato dall’amore che nutre per la moglie, offrendola alla vista (e, quindi, al desiderio) di un altro uomo: Gige, la più fidata delle sue guardie del corpo. In questo modo corre il rischio di eccitare anche il desiderio della moglie e di indurla alla infedeltà nei suoi confronti.

Mette a rischio, anzi, come ci racconta Erodoto, la sua stessa vita. Di uomo ricco, di potere e di amore. Eppure egli sceglie (non si capisce bene con quanta consapevolezza; ma la cosa ha molta importanza?) di correre questo rischio, perché l’eccitazione data dal rischio è simile all’eccitazione che danno il potere, la ricchezza e, perfino, l’amore.

Il rischio ha il potere di interrompere la monotonia che possono intervenire in una situazione in cui c’è troppa sicurezza. Il rischio quindi è un altro modo di sperimentare l’irruzione dell’assoluto nella nostra esistenza, nella nostra monotona quotidianità.

Esistono poi, a mio avviso, altri tre modi di incontrare l’assoluto, di interrompere (o, almeno, coltivare l’illusione di interrompere) lo scorrere contingente, fragile, monotono, della nostra esistenza.

Il primo è l’ispirazione artistica, che in certi casi assume le caratteristiche di un vero e proprio raptus. Il vero artista non è colui che decide di fare l’opera d’arte, ma è colui che è trascinato da una forza quasi a lui estranea a fare l’opera d’arte.

Il risultato è qualcosa che è paragonabile alle meraviglie stesse del creato. Non solo perché ne eguaglia per certi aspetti la bellezza. Ma perché è omologo in qualche modo all’atto stesso della creazione.

Perciò anche il semplice fruitore dell’opera d’arte ne è in qualche modo rapito, allo stesso modo di come ciascuno di noi rimane rapito, addirittura talvolta estasiato di fronte ad un cielo stellato, a certe albe o a certi tramonti, a certi paesaggi della natura che sembrano mostrarci l’essenza stessa del bello.

Il secondo è l’intuizione filosofica o scientifica. Io credo che sia il filosofo che lo scienziato vivano e lavorino alla ricerca del mistero della vita. Il primo sotto l’aspetto più spirituale e intellettuale del termine. Il secondo sotto l’aspetto più materiale, in senso lato, del termine, comprensivo della dimensione chimica, biologica, fisica, fisiologica e via dicendo.

Quando il filosofo e lo scienziato (per vie ovviamente molto diverse) incontrano, colgono, uno spicchio, uno sprazzo, un pezzettino di questo mistero assoluto che sono la vita e l’universo, credo che l’esperienza psicologica da loro vissuta sia quella (non saprei definirla in altro modo) dell’incontro con l’assoluto, dell’insinuarsi (o dell’irrompere) dell’assoluto nella loro vita.

Il terzo è l’illuminazione o estasi mistica. Il mistico è una persona che ha un solo o principale scopo nella vita: quello di entrare in comunione, farsi uno, con l’universo che lo circonda (l’universo fisico, costituito dalla natura, e l’universo antropologico, costituito dai suoi simili). Dio è solo la metafora di questo Tutto, con il quale il mistico aspira a connettersi.

Quando vive (nei pochi, rari o, per alcuni fortunati, molti momenti in cui riesce a vivere) l’esperienza dell’illuminazione o dell’estasi (che non è facile da definire, proprio perché essa ha a che fare con il mistero, l’essenza stessa della vita) entra in contatto con l’assoluto (o, almeno ha l’impressione, la percezione, quasi fisica, di entrare in contatto con un qualcosa o qualcuno che per lui è l’assoluto).

Concludo provando a rispondere alla seconda delle due domande che erano insorte in me all’inizio di questa riflessione: che cosa spinge l’uomo a ricercare l’assoluto nella sua vita? o (ponendo la stessa domanda da un altro versante) che cosa lo predispone all’insinuarsi (come dice Masullo) o all’irrompere (come propendo a dire io) dell’assoluto nella quotidianità della sua esistenza?

La mia risposta è secca, netta, precisa: la noia.

L’uomo deve combattere con una malattia, un tarlo incombente, che può diventare addirittura un vero e proprio cancro, in grado di rovinare qualsiasi situazione esistenziale, anche quella di massimo benessere, perfino quella, rara e pure da alcuni sperimentata, almeno in certi momenti, che potremmo definire di felicità.

Questa malattia è la monotonia, la routine, la ripetitività. Che a loro volta producono lo stato d’animo della noia, il tarlo in grado di rodere e consumare anche la più perfetta delle gioie e delle felicità.

L’unico rimedio, farmaco in grado di guarire da questa malattia o, almeno, di interrompere il suo circuito perverso e il suo progressivo aggravamento è l’incontro con l’assoluto o, meglio, con ciò che l’uomo si illude sia l’assoluto, definendolo con questo termine, in fondo del tutto convenzionale.

Questo incontro può avvenire, a mio avviso, solo nei cinque modi che ho provato a descrivere sopra. Anche se non posso escludere che ce ne siano degli altri.

Un altro, il primo che mi viene in mente in questo momento, è forse il gioco. Anche se il gioco mi sembra parecchio più futile, effimero e meno potente degli altri cinque per l’effetto terapeutico che può avere sulla malattia di cui parlavo prima.

Come tutti i farmaci, però, anche quelli da me indicati hanno delle controindicazioni. Che, in alcuni casi, possono essere addirittura devastanti, disastrosi. Come afferma Masullo e come ci dicono le biografie di molti amanti, artisti, filosofi, scienziati e mistici.

Eppure credo che davanti all’uomo ci siano solo due opportunità, due scelte: o quella di un’esistenza potremmo dire senza storia, una vita mancata, persa nella tranquilla mediocrità del quotidiano; o quella di azzardare il rischio, l’avventura dell’incontro (almeno momentaneo) con l’assoluto, con lo straordinario.

In questo secondo caso, è vero, l’uomo corre il pericolo di andare incontro a un esito che potrebbe essere disastroso. Da temere, ma non certo.

Nel primo caso, invece, il disastro è sicuro, perché è già in atto. Non c’è neanche bisogno di temerlo, perché è già presente.

Giovanni Lamagna

Tutto è relativo e provvisorio. Nulla è assoluto e definitivo.

Gli studiosi della storia hanno distinto finora le varie epoche e i vari periodi storici con termini quali “Età antica”. “Medioevo”, “Età moderna”, “Età contemporanea”…

Dimostrando un’assoluta (e, perciò, grave) imprevidenza.

Come se, dopo l’età contemporanea, non dovessero venire altre epoche, ere od età. Come se la storia dovesse terminare col XX secolo.

Come definiranno allora gli storici le epoche successive all’età contemporanea?

Inoltre, potrà chiamarsi ancora contemporanea tra uno o dieci o venti secoli l’epoca in cui ci siamo trovati a vivere, per puro caso, noi uomini del XX secolo?

Credo, perciò, che tra due o tre secoli (ma forse anche prima) tutte le (arbitrarie e perciò provvisorie) definizioni delle epoche storiche dovranno essere riviste ed aggiornate.

Cambiando il punto di vista dello storico osservatore e studioso, cambierà anche la collocazione temporale – e quindi il termine con cui definirla – dell’epoca storica osservata e studiata.

E, infatti, già oggi gli storici, consapevoli dell’inadeguatezza o, meglio, inattualità di certi termini, si affannano, arrovellano a trovarne altri (come “postmoderno” o “ipermoderno”), per definire l’epoca nella quale ci troviamo a vivere, termini che risolvano le contraddizioni delle vecchie (oramai usurate) catalogazioni e terminologie storiche.

Cadendo magari (e, direi io, incartandosi) in contraddizioni (forse) ancora maggiori di quelle che vorrebbero risolvere.

Infatti, tanto per fare un esempio, dopo il postmoderno o l’ipermoderno, cosa dovrebbe venire? Il post del postmoderno? Oppure l’iperipermoderno?

Anche da questo piccolo ragionamento si deduce che tutto è relativo e provvisorio. Che nulla è assoluto e definitivo.

Giovanni Lamagna