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Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

La domanda delle domande.

Nessuno di noi potrà dare mai una risposta razionale, “scientifica”, definitiva, alla domanda fondamentale sull’origine e il perché della vita e dell’universo.

Potremo “inventarci” una risposta, costruendoci un mito o dandoci una fede; ma questa “risposta” non potrà mai svelarci il mistero ultimo.

Allo stesso modo che nessuno di noi potrà mai guardare in faccia il proprio viso; ma potremo farlo solo attraverso l’immagine riflessa che ce ne può dare uno specchio.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Tempio e preghiera per me.

Non conosco tempio migliore per la mia religione che quello costituito dalla natura.

Non c’è luogo migliore per pregare che appartarsi in un bosco (sotto l’ombra di un albero) o stare in riva al mare (meglio se nelle ore in cui il sole sorge o tramonta) o sul leggero pendio di una montagna.

Pregare per me è nient’altro che entrare in contatto col divino presente nell’Universo.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di preghiera.

La preghiera (almeno una certa preghiera, ovverossia la preghiera come la si intende normalmente, di solito) poggia su una grande illusione: che esista “almeno Uno nell’universo (Dio) che non può perdermi, che ama incondizionatamente la mia vita, che rende la mia vita degna di essere amata, assolutamente e immensamente insacrificabile. Almeno Uno che non mi lascerà mai.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli).

Mentre tutti gli altri legami significativi per noi, tutte le altre relazioni amorose, sono a rischio: il rischio che l’Altro voglia porre termine al rapporto con noi, che non provi più il desiderio di stare con noi, che ad un certo punto non ci ami più.

Questa preghiera si poggia su una illusione, perché questo Uno non esiste, è una nostra proiezione, è la creazione fantasmatica di un nostro desiderio di amore illimitato e incondizionato, di protezione dal Male assoluto che è la solitudine.

Abbiamo visto oltretutto e lo vediamo ogni giorno che passa, non solo nella nostra esperienza ma anche nella lettura degli stessi libri “sacri”, che questa fede in questo Qualcuno, non ci garantisce per niente dal rischio dell’abbandono e dallo sprofondamento nella solitudine più cupa e tenebrosa (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”: grida lo stesso Gesù, figlio di Dio, nel momento estremo del suo sacrificio sulla croce).

Diversa è la preghiera che da richiesta di protezione e rifugio diventa accettazione profonda della propria condizione di solitudine radicale, abbandono a questa situazione di contingenza assoluta dovuta alla nostra natura mortale, all’idea che prima o poi finiremo nel nulla dal quale siamo venuti, che ci trasformeremo in materia inerte, la stessa che ci circonda da tutte le parti e dalla quale ci siamo staccati nel momento in cui in noi si è formata la coscienza/consapevolezza di esistere.

La preghiera che trasforma la paura e il rifiuto della morte in accettazione, (o, meglio, rassegnazione) e preparazione (quanto più possibile serena, ma mai del tutto serena: diciamocelo francamente!) alla sua venuta, al suo evento.

La preghiera che ci fa sentire parte di un Universo che esisteva da sempre prima che nascessimo come individui e che continuerà ad esistere anche quando noi saremo morti come persone, cioè esseri coscienti e presenti a sé stessi.

Un Universo, quindi, nel quale in qualche modo continueremo a vivere, anche se in forme del tutto diverse (certamente non più esseri coscienti) da quelle nelle quali abbiamo vissuto per un breve arco di tempo, quando esistevamo come individui/persone.

Una preghiera, quindi, che in qualche modo ci fa sentire immortali, eterni, particelle infinitesimali di un ciclo infinito, che non si arresta con la nostra morte, anche se è e resta del tutto misterioso, perché non sappiamo spiegarcene il fine e, quindi, il senso.

© Giovanni Lamagna

I due movimenti fondamentali della vita spirituale.

Gli “esercizi spirituali”, di cui parla Pierre Hadot (“Esercizi spirituali e filosofia antica” 2005; Piccola Biblioteca Einaudi), sono fondamentalmente due:

1) quello di allenarsi a vivere costantemente nell’attimo presente, vincendo la tentazione di rifugiarsi nel ricordo nostalgico del passato o di alienarsi in progetti avveniristici per il futuro;

2) quello di viversi come una piccola, piccolissima parte del Tutto dell’Universo e, quindi, del Tutto costituito dalla comunità umana, senza farsi travolgere dall’angoscia che ciò potrebbe comportare, ma anzi godendo del “sentimento oceanico” che a questa esperienza può essere collegato.

Come ebbe a sperimentare felicemente Giacomo Leopardi quando scrisse una delle sue poesie più belle, “L’infinito”, che si conclude con queste parole meravigliose: “Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”.

Ora è interessante notare (e qui voglio evidenziarlo, chiosando le affermazioni di Hadot) come questi due esercizi prevedano due movimenti non solo diversi, ma addirittura contrapposti; eppure, allo stesso tempo, (misteriosamente) convergenti.

Il primo richiede, infatti, un movimento di concentrazione in sé stessi, di raccoglimento tutto interiore; come se la coscienza fosse chiamata a fermarsi e stabilizzarsi in un punto molto piccolo e ristretto, quello dell’attimo presente, dimenticando il passato e disinteressandosi al futuro.

Il secondo, invece, prevede il movimento opposto: una dilatazione, al massimo possibile, della coscienza fino ai confini estremi dell’Universo e della comunità umana.

Per chi ha vissuto un’esperienza mistico-contemplativa è del tutto chiaro, perché sperimentato e quindi verificato empiricamente, che questi due movimenti solo apparentemente sono opposti, mentre in realtà coincidono, fanno parte della stessa disposizione spirituale.

Sono i due movimenti/atteggiamenti che contraddistinguono l’homo religiosus.

Laddove con il termine “religiosus” non si intende solo (e neanche necessariamente) l’uomo di fede (in un’entità o in una dimensione trascendente).

Quanto piuttosto l’uomo che ha realizzato dentro di sé l’unione (il “religare”, appunto) delle diverse parti di cui si compone la sua psiche.

Parti, che, in una prima fase della sua vita (quella prespirituale) ogni uomo tende a vivere (in una maniera più o meno acuta) come separate, scisse, frammentate, a volte addirittura schizzate, cioè in conflitto l’una con le altre.

E che solo grazie alla vita spirituale, tramite appunto quelli che Hadot definisce “esercizi spirituali”, possono essere ricomposte in unità, per quanto relativa, per quanto precaria, provvisoria e, in ogni caso, sempre perfettibile.

Altrimenti sono destinate a rimanere fatalmente separate, scomposte, malate di una scissione che, col tempo, potrebbe addirittura cronicizzarsi e persino aggravarsi, accentuarsi.

© Giovanni Lamagna

Coscienza cosmica ed esperienza mistica.

Pierre Hadot (a pag. 131 del suo “La filosofia come modo di vivere”; Einaudi 2008) parla “… di un esercizio rivolto a farci superare, ancora una volta, il nostro punto di vista parziale e particolare per farci vedere le cose e la nostra esistenza personale in una prospettiva cosmica e universale, ricollocandoci così nell’immenso evento dell’universo, ma anche, potremmo dire, nel mistero insondabile dell’esistenza.

E’ ciò che chiamo la coscienza cosmica.”.

Qui – a me pare – l’espressione coscienza cosmica ha lo stesso significato dell’espressione sentimento oceanico, coniata da Romain Rolland, con il quale e sulla quale ebbe modo di dialogare un certo Sigmund Freud in un famoso scambio epistolare.

Chi sperimenta la coscienza cosmica o il sentimento oceanico ha la sensazione viva, forte, di essere piccolissimo, come un granello di sabbia del deserto o una goccia dell’oceano, di fronte alla grandezza, anzi all’infinito del Cosmo, dell’Universo.

Chi è incapace di vivere o non ha mai vissuto questa esperienza vede, invece, sé stesso come il centro del Mondo.

Si avverte smisuratamente grande di fronte al Mondo; anzi (in alcuni casi estremi) non lo vede proprio il Mondo, lo ignora del tutto.

Vive sé stesso come se il Mondo non esistesse, come se esistesse solo lui o, tutt’al più, il Mondo gli girasse attorno, ne fosse una semplice protesi, un’appendice.

Tra questi due diversi, anzi opposti, modi di vivere il Mondo, di rapportarsi (o non rapportarsi) ad esso, si situa tutta la differenza che passa tra chi (anche se solo in alcuni momenti) vive o ha vissuto un’esperienza mistica e chi non l’ha mai provato e, quindi, non ne ha la più pallida idea.

In altre parole per me l’esperienza mistica non è un’esperienza fuori dal mondo o di un altro mondo.

Non è, quindi, un’esperienza che hanno vissuto o possono vivere solo determinate persone speciali.

Ma è solo un modo particolare di fare esperienza del Mondo; del quale tutti siamo oggettivamente infinitesimi frammenti, ma solo alcuni ne hanno piena ed effettiva coscienza; ovverossia una coscienza non solo intellettuale, ma anche emotiva e sentimentale.

Un’esperienza, quindi, niente affatto straordinaria o esoterica, come in genere e da parte dei più si pensa, ma un’esperienza alla portata di tutti noi.

Se solo ci rendiamo disponibili ad uscire dai confini del nostro primitivo ed infantile egocentrismo e dalla prigione del narcisismo cosmologico.

© Giovanni Lamagna

Passaggio d’epoca.

Oggi ci troviamo di fronte a un passaggio epocale; simile a quello che significò il passaggio dal Medioevo al Rinascimento.

Allora l’Europa oltrepassò i suoi confini e si scoprì un piccolo continente del pianeta Terra.

Oggi il pianeta Terra ha varcato i suoi confini e si è lanciato nello Spazio: ha scoperto così di essere un piccolissimo frammento dell’Universo.

Questo cambia completamente l’ottica con la quale gli uomini guardano a sé stessi e al mondo.

Forse molto di più di come cambiò quella dell’uomo rinascimentale con la scoperta delle Americhe.

© Giovanni Lamagna

Sentimento oceanico o sentimento cosmico?

Il problema è posto da Jeannie Carlier a Pierre Hadot, ad un certo punto del loro dialogo pubblicato nel libro “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi, 2008).

Carlier riferisce di privilegiare la seconda espressione, meglio confacente a suo avviso a descrivere l’esperienza del sentimento di unità del tutto, che è propria dell’esperienza mistica.

Pierre Hadot, invece, difende la prima espressione, quella del “sentimento oceanico”, in quanto a suo avviso rende meglio l’esperienza del sentirsi “un’onda in un oceano sconfinato”, “l’impressione di immersione, di dilatazione dell’io in un Altro al quale l’io non è estraneo, poiché ne costituisce una parte”.

Su questa distinzione (e per quello che può valere o interessare) io mi sento più vicino a Carlier che ad Hadot.

Perché il Cosmo è qualcosa di più esteso e complessivo dell’oceano; l’oceano è solo una parte, anzi una piccola parte del Cosmo.

Ed io nell’esperienza mistica mi sento parte/immerso non solo de/nell’Oceano, ma de/nell’intero Cosmo.

Non a caso lo stesso Hadot racconta che egli ha cominciato a provare il sentimento oceanico in età molto prematura, appena pubere, di notte, di fronte alle stelle che “brillavano in un cielo immenso”.

Hadot così racconta: “… fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come “Chi sono?”, “Perché sono qui?”. Provavo un sentimento di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo. A quell’epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere… A partire da quel momento ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori e i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano.

Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le “sere del mondo”, come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l’impressione di immergermi nell’immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L’ho provata di nuovo, molte altre volte… Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia, ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo.

Da allora ho percepito molto fortemente l’opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli strati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo…

Da quel momento, dato che non osavo rivelare a nessuno ciò che avevo provato, ho sempre sentito che esistono cose indicibili. Avrei potuto dire solo banalità. E mi accorgevo anche che quando i preti parlavano di Dio e della morte, realtà enormi e terrificanti, formulavano frasi belle e fatte, che mi sembravano convenzionali e artificiali. Quanto vi era di più essenziale per noi non si poteva esprimere. (pag. 9-10).

Dopo aver letto questo passaggio del discorso di Hadot, mi stupisco che egli contesti a Carlier l’espressione “sentimento cosmico” e continui a privilegiare quella di “sentimento oceanico”.

Infatti, molte delle realtà da lui citate (le stelle, il mondo, il cielo, il filo d’erba…) sono/sarebbero rese meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che dall’espressione “sentimento oceanico”.

Una sola espressione da lui adoperata è resa meglio dal “sentimento oceanico”: “Mi sentivo immerso nel mondo”. Perché il verbo “immerso” è effettivamente ben associabile all’idea del mare e dell’oceano.

Ma, in realtà, Hadot è “immerso nel mondo”, nell’intero Universo, e non solo nell’oceano.

In questo senso, perciò, anche per me (come per la Carlier) l’esperienza da lui raccontata è resa meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che da quella di “sentimento oceanico”.

In quanto questa seconda sta a indicare solo una parte (l’oceano) rispetto al tutto (il mondo) nel quale Hadot si sente immerso, di cui Hadot si sente particella.

Anche se ovviamente queste distinzioni sono solo di dettaglio, rappresentano solo una questione linguistica, nominalistica.

Le due espressioni in realtà sono solo metafore che tendono a rendere con parole diverse una esperienza che è comunque chiara: è la stessa esperienza, non si tratta di due esperienze diverse.

© Giovanni Lamagna

Buddhismo, religioni teiste e pensiero filosofico moderno.

Non ci sono dubbi che, dal punto di vista del rigore razionale, il pensiero buddhista, tra i vari pensieri religiosi, sia quello che, nel corso dei secoli (anzi dei millenni), abbia retto (e ancora oggi regge) meglio al vaglio critico delle varie filosofie che si sono succedute nel corso della storia dell’Umanità.

Soprattutto se lo confrontiamo con le altre tradizioni religiose e spirituali; basti citare le più importanti: l’ebraismo, il cristianesimo, l’islamismo e lo stesso induismo.

Come ci ricorda anche Vito Mancuso nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020; pag. 192-193), due sono le questioni rispetto alle quali si evidenzia questa superiorità (a mio avviso, addirittura vistosa) del Buddhismo rispetto alle altre tradizioni prima citate.

Queste ultime, infatti, tutte, facevano e fanno una netta distinzione tra il concetto di “anima” e quello di “corpo”, potremmo anche dire “materia”; e tra il concetto di “Dio” e quelli di “mondo”, “terra”, “universo”.

Per la maggior parte delle principali tradizioni religiose dell’Umanità l’essenza dell’essere umano è costituita da un’anima spirituale, attualmente e provvisoriamente prigioniera di un corpo mortale, destinata prima o poi a liberarsi di questa prigione per raggiungere la sua originaria e più vera destinazione: il ricongiungimento con Dio, “essere eterno, stabile, permanente”, quindi totalmente altro “rispetto a questo mondo che invece è composto di tempo e quindi passa e genera morte”.

Ora sappiamo tutti bene come l’evoluzione del pensiero filosofico (mi riferisco qui essenzialmente a quello occidentale) nel corso di due millenni e mezzo abbia progressivamente smantellato, specie negli ultimi 500 anni, le basi teoriche e razionali sulle quali si basavano quelle credenze, le quali pertanto, agli occhi di una mente speculativa odierna mediamente aggiornata e acculturata, nella maggior parte dei casi risultano semplicemente insostenibili e perciò inaccettabili.

Il Buddhismo, invece, fin dalle sue origini ha negato sia il concetto di “anima” che quello di “Dio”, almeno come realtà separate; anche se, in modo altrettanto evidente, non ha certo sposato “…l’ateismo materialista che, negando Dio e l’anima, distrugge al contempo il senso stesso della spiritualità riducendo tutto a materia, istinto e lotta per la sopravvivenza e, se ammette l’etica, è solo in chiave utilitaristica.”

E, piuttosto che nella elaborazione di una teologia e di una metafisica, il Buddhismo sin dalle sue origini si è impegnato esclusivamente nella costruzione di una pratica etica, ascetica, meditativa, contemplativa, potremmo anche dire mistica, che, lungi dal negare – come è del tutto evidente – la spiritualità dell’uomo, la portasse invece ai suoi massimi livelli.

Da questo punto di vista la proposta di Buddha è dunque, come fa notare giustamente Mancuso, “spiazzante”; perché “non accontenta né i credenti né i non credenti tradizionalmente intesi”.

E però sicuramente è più in accordo (o meno in contraddizione) con il pensiero filosofico moderno e contemporaneo di quanto non lo siano (oramai) le principali tradizioni religiose che abbiamo conosciuto nel corso della storia.

© Giovanni Lamagna