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Questo amore è una camera a gas…

La patologia che talvolta corrompe la coppia madre/bambino (di cui parla Massimo Recalcati in “Le mani della madre” a p.117) può affliggere anche la coppia moglie/marito, femmina/maschio amanti e (perché no?) le coppie omosessuali.

È la patologia della simbiosi, dell’egotismo a due, del legame privo di ogni confine, insofferente di ogni distanza, incapace di ogni separazione.

In questo caso le due individualità che formano la coppia vengono soffocate dalla prigione che si sono create con le loro stesse mani, impedite di crescere, di evolvere, di espandersi come singolarità autonome.

Il legame che unisce la coppia costituisce una sorta di “camera a gas”, come dice una famosa canzone di Gianna Nannini.

© Giovanni Lamagna

La misura del nostro grado di umanità.

Dal modo in cui ci rapportiamo ai bambini, alle donne, agli ammalati, ai portatori di handicap, agli omosessuali, agli stranieri, agli anziani, ai vecchi (e non c’è in me nessuna intenzione o volontà, neanche inconsce, di assimilare tali categorie di persone) si misura il nostro grado di civiltà.

Anzi il nostro grado di umanità.

© Giovanni Lamagna

Bene e Male, pulsione di vita e pulsione di morte.

Ho la sensazione forte che i pensatori che nel corso della Storia hanno evidenziato soprattutto il lato negativo, quello cattivo, quello distruttivo, violento, dell’animo umano (penso in primo luogo a Machiavelli, ad Hobbes, a Nietzsche e, infine, a Freud, per fare solo alcuni nomi del pensiero moderno e contemporaneo; ma ce ne furono anche nell’antichità), anteponendolo a quello positivo, basato sui sentimenti della bontà, della compassione della solidarietà umana e dell’amore fraterno, lo abbiano fatto per una sorta di narcisistico e snobistico crogiolarsi, di realismo più realista del Re, più che di effettivo  e spietato realismo (come essi hanno voluto dare a intendere), se non addirittura mossi (mi viene il sospetto) da un’inconscia e consolatoria volontà di autogiustificare, in qualche modo, le proprie debolezze umane.

Come a dire: siamo tutti cattivi, ma lo siamo perché così è fatta strutturalmente, geneticamente, la natura umana; quindi nessuno è soggettivamente cattivo, per una qualche sua scelta e, quindi, responsabilità personale.

Per carità, con questo non voglio sostenere la tesi opposta a quella di tanto cotanto senno e, cioè, che nel mondo siano assenti il male e la cattiveria, la perfidia e l’odio, la competizione violenta, che porta a guerre e distruzioni, persino a carneficine.

Sono ben consapevole che il mondo e l’Umanità sono malati, che hanno vizi gravissimi e profondi, che ne minano la salute spirituale e producono danni incalcolabili alla civile convivenza.

Pensiamo solo a quello di cui è stato capace il regime nazista, con la complicità più o meno consapevole di buona parte del popolo tedesco, in pieno XX secolo, inventando le camere a gas e provocando la morte di milioni di esseri umani, che avevano avuto la sorte di nascere Ebrei o zingari od omosessuali.

E pur tuttavia sono convinto che, assieme a tanto male e a tanta crudeltà, nell’Umanità siano presenti anche tanto bene e tanta generosità, che vizi enormi, in alcuni casi persino mostruosi, si mescolino ad altrettanto enormi virtù, persino eroiche.

Bene, generosità, virtù, che si manifestarono addirittura in molteplici momenti e situazioni nel corso della stessa vicenda orrenda dell’Olocausto.

Sono convinto in altre parole che non sia possibile affermare con assoluta risolutezza, come fa, ad esempio, l’ultimo Freud, che la pulsione di morte addirittura preceda filogeneticamente la pulsione di vita e che, sia nella vita individuale di ciascuno di noi che sui lunghi tempi della Storia, sarà la prima a prevalere fatalmente sulla seconda.

Penso, invece, che nel mondo, come del resto nel cuore di ogni singolo uomo, si combatta una battaglia continua ed infinita tra queste due pulsioni, tra Eros e Thanatos, il cui esito è sempre incerto, altalenante: in alcuni momenti e in alcuni individui vince la prima, in altri prevale la seconda.

Affermare come hanno fatto gli illustri pensatori di cui sopra che, invece, a prevalere è sempre e senza alcun dubbio il male contro il bene, la morte contro la vita, non fa che contribuire all’avveramento di quella che si presenta come una profezia, più che come una ricostruzione storico/antropologica.

Chi dice che il male è prevalente, anzi domina, nel cuore dell’uomo, a mio avviso, non fa che avallare (e, in un certo senso, persino fomentare) questo male, dando argomenti a chi con il male è schierato, infondendo scoramento, producendo rassegnazione, distruggendo la speranza, incoraggiando quindi, al di là delle sue (a volte pur nobili) intenzioni, il male e contribuendo così, indirettamente ma di fatto, al suo perdurare, se non al suo prevalere, nella storia del mondo.

© Giovanni Lamagna

Due modi di fare sesso.

Esistono due modi di fare sesso, profondamente diversi tra di loro.

Il primo mira essenzialmente alla penetrazione del fallo nella vagina e all’accettazione-accoglimento del fallo da parte della vagina.

E’ il modo tipicamente maschile (o, perlomeno, quello più diffuso tra i maschi) di fare l’amore o, sarebbe meglio dire, di fare sesso.

Utilizzando al posto della vagina un organo od organi diversi questo è anche il modo di alcuni omosessuali di fare sesso.

E’ un modo che differisce, come è del tutto evidente, poco o nulla dal modo degli altri animali di congiungersi sessualmente.

Esso si basa sulla seguente sequenza, biologico-fisiologica più che psicologica: insorgenza di una pressione ormonale, incontro con lo stimolo sessuale in grado di farla sfogare, accoppiamento, soddisfazione e liberazione della pressione ormonale attraverso l’orgasmo.

Questa modalità di fare sesso abbisogna di tempi molto rapidi: alcuni secondi, al massimo alcuni minuti.

L’altro modo è più tipico della femminilità, nel senso che è più diffuso tra le femmine.

Anche se alcune femmine prediligono pure loro il primo modo: sono forse le femmine che hanno dei problemi non del tutto risolti con la loro sessualità e che vivono (e preferiscono vivere) l’atto sessuale (almeno a livello di fantasia inconscia) come una sorta di violenza da subire e non di relazione del tutto paritaria e reciproca da condividere.

Questa fantasia inconscia, forse (è l’ipotesi che faccio), consente loro di deresponsabilizzarsi rispetto all’atto vissuto e di goderne (quando e seppure ne godono) senza una piena consapevolezza e consensualità.

Questo secondo modo di vivere la sessualità, che ho definito più tipicamente – anche se non necessariamente – femminile, si basa sulla sequenza, che – al contrario della prima – è psicologica almeno allo stesso modo che biologico-fisiologica: insorgenza della pressione ormonale, incontro col potenziale oggetto sessuale, nascita del desiderio, cerimoniali di seduzione, prolungati preliminari sessuali non ancora genitali, accoppiamento (neanche del tutto e sempre indispensabile) degli organi genitali, infine liberazione della pressione ormonale attraverso l’orgasmo.

Per questo modo di fare sesso, la fase dei preliminari, che precede il vero e proprio accoppiamento, è la fase, potremmo dire, più importante del rapporto, quella che lo rende propriamente umano, in quanto lo contraddistingue nettamente dal modo di fare sesso degli altri animali.

In questa fase un ruolo fondamentale, primario, lo rivestono i baci, gli abbracci e le carezze: si fa sesso con l’intero corpo e non solo con gli organi genitali.

Ma lo rivestono anche gli sguardi, gli odori, i profumi, i sapori, i suoni (sospiri, gemiti, urla…): si fa sesso con tutti e cinque i sensi e non solo con uno o, al massimo, due.

Lo rivestono, infine, anche il contesto (mi verrebbe di dire) scenico, il luogo, nel quale si fa sesso (per alcuni deve essere quello tradizionale della camera da letto; altri prediligono la natura, altri ancora posti insoliti e strani, che devono dare il senso della trasgressione…) e poi l’abbigliamento, le movenze del corpo, alcuni gesti allusivi e seduttivi, il ricorso ad alcuni rituali ed oggetti (che potremmo definire feticci) e, per chiudere, l’uso della parola, del racconto, a volte del turpiloquio: si fa sesso non solo col corpo e con i sensi, ma anche (se non soprattutto) con la mente e l’immaginazione, la fantasia.

Inutile dire che questa seconda modalità di fare sesso richiede tempi molto più lunghi del primo: chi la sceglie può arrivare a fare sesso per ore o anche per intere giornate.

In conclusione: nel primo modo di fare sesso (quello che all’inizio ho definito “maschile”, non in quanto genere, ma in quanto categoria, quasi archetipica) il corpo dell’altro è vissuto come puro oggetto, pretesto per un atto che è prevalentemente fisiologico, con caratteristiche che potremmo definire perfino (e al limite) onanistiche.

Nel secondo modo di fare sesso, invece, più che il corpo viene in risalto la psicologia, l’intera persona dell’altro/a; l’atto non è solo sessuale, ma erotico in senso pieno: è un vero incontro con l’altro/a e in quanto tale può essere definito atto d’amore; sesso e amore convergono, si unificano, non sono più separati.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “La dea fortuna” di Ferzan Ozpetek

Ieri pomeriggio sono andato a vedere l’ultimo film di Ferzan Ozpetek “La dea fortuna”, con Stefano Accorsi, Edoardo Leo e Jasmine Trinca.

Il film è complessivamente bello, anche se alterna momenti alti a momenti bassi o, meglio, a momenti nei quali la tensione quantomeno cala.

Ci sono alcune scene topiche che toccano profondamente il cuore ed emozionano, ce ne sono altre (parecchie) che sono poco credibili e, in qualche caso, sfiorano la banalità.

Comunque le prime valgono la visione del film e consigliano di andare a vederlo.

Cosa ha voluto raccontare il film?

Ha voluto raccontare la storia di un rapporto di coppia, di un normale rapporto di coppia. Il fatto che nello specifico la coppia del film sia una coppia di omosessuali è un puro accidente.

Perché i problemi che vive la coppia protagonista del film sono i problemi che vivono tutte le coppie, omosessuali ed eterosessuali, “regolarizzate” e di fatto: sono i problemi tipici della struttura-coppia.

Passata la fase dell’innamoramento, la passione tende a spegnersi ed emergono le difficoltà dell’integrazione tra due modi (più o meno radicalmente diversi) di emozionarsi, di vivere gli affetti, di pensare, di comportarsi, di progettare la vita.

L’esito (quasi fatale) è quello di cercare altrove ciò che non si riesce a trovare più nel rapporto con l’altro di coppia, quello che – con linguaggio volgare nel senso etimologico del termine (da “vulgus”) – si definisce “tradimento”.

Per cui la coppia, anche questa coppia del film, arriva a interrogarsi se abbia ancora senso restare assieme, a porsi domande su ciò che ha unito i due partner e su cosa sia successo di così grave da aver creato un baratro nella comunicazione e nella intesa una volta così facili e naturali.

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I due protagonisti, Arturo e Alessandro (interpretati in maniera intensa da Stefano Accorsi e Leonardo Leo; specie quest’ultimo: semplicemente strepitoso!), il primo scrittore fallito (si guadagna da vivere facendo delle traduzioni), il secondo idraulico (sta spesso fuori casa a causa del suo lavoro), stanno per separarsi.

Quando nella loro vita insorge un fatto nuovo, che la sconvolge (“inguaia”) ancora di più, ma che allo stesso tempo si rivelerà per loro (paradossalmente) una vera e propria ancora di salvezza.

Una vecchia amica di entrambi, Annamaria (Jasmine Trinca), single, ma con due figli (Martina e Sandro, di 12 e 9 anni), ha scoperto di avere una grave malformazione congenita al cervello e deve ricoverarsi in ospedale per fare degli accertamenti.

Si presenta allora un giorno a casa di Arturo ed Alessandro, mentre questi stanno facendo una festa sul loro terrazzo di casa piena di amici, e chiede loro di occuparsi dei due bambini durante il tempo del suo ricovero. I due accettano.

Alessandro con grande disponibilità, quasi con entusiasmo.

Il film lascia capire che tra Alessandro e Annamaria in passato c’è stata una storia, forse Alessandro è addirittura il padre del bambino, che non a caso porta il suo stesso nome.

Arturo con più riluttanza e con molti impacci e “distrazioni”.

In ogni caso entrambi pensano che l’esperienza nuova sarà di breve durata, perché Annamaria sarà presto dimessa dall’ospedale e si riprenderà i bambini.

Le cose, invece, si complicano, perché la malattia della donna si rivela più complessa di quello che si era ipotizzato in un primo momento e i due compagni sono costretti a prolungare la loro assistenza ai due figli della loro amica.

Tutto questo mentre il loro rapporto precipita ulteriormente. Alessandro scopre addirittura che Arturo da due anni vive una relazione importante che gli ha tenuto nascosta, approfittando dei suoi lunghi allontanamenti da casa per motivi di lavoro.

A questo punto la convivenza coi bambini diventa insostenibile e Alessandro e Arturo sono costretti ad accompagnarli a Palermo dalla nonna, la vecchia madre di Annamaria (Barbara Alberti), una nobile decaduta, una donna fredda e autoritaria, che aveva vessato la figlia bambina e ne aveva causato non solo la fuga da casa, ancora molto giovane, ma soprattutto il carattere ribelle.

Sulla nave in viaggio per Palermo il film vive uno dei momenti topici dal punto di vista emozionale. Arturo, con le lacrime agli occhi, parla ai due bambini, come se fossero adulti, dei suoi problemi con Alessandro. E i due bambini mostrano di capire, come forse manco un adulto sarebbe stato capace di fare.

(Tra parentesi: questo momento è reso ancora più intenso e magico dalla voce in sottofondo di una splendida Mina, che canta una struggente canzone di Ivano Fossati, “Luna diamante”, inserita nel CD “mina fossati” di recente uscita)

Quando Alessandro e Arturo tornano a Roma, vanno a fare visita ad Annamaria, che il giorno dopo dovrà essere operata. Ma mentre stanno con lei, in un momento in cui l’allegria e il buonumore si alternano al dolore e alla malinconia, improvvisamente Annamaria viene meno e muore tra le loro braccia.

A questo punto i due compagni si rimettono in viaggio per Palermo e vanno a riprendersi con la forza i due bambini, sfidando l’opposizione e le minacce della nonna.

La scena finale è quella di un bel bagno a quattro nelle acque del mare siciliano in attesa della nave che li riporterà sul continente.

Ciascuno dei quattro esegue il rituale della Dea Fortuna, insegnato loro da Annamaria, che serve a tenere con sé la persona più cara al mondo: guardare fisso per qualche istante il volto della persona amata, poi chiudere gli occhi e subito dopo riaprirli, perché l’immagine, come fotografata, scenda fino al cuore.

In questo modo tra di loro quasi si materializza la presenza di Annamaria, che diventa l’amalgama, spirituale eppure molto concreta, della nuova singolare famiglia di fatto che si è venuta a creare.

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Che cosa ci ha voluto dire questo film? O, meglio, cosa ha detto a me? Essenzialmente due cose.

La prima. Non esistono relazioni perfette o ideali. Semplicemente perché non esistono persone perfette, del tutto sane e prive di nevrosi. Siamo tutti fragili e precari, chi più e chi meno. Quindi tutti i nostri rapporti lo saranno altrettanto.

Questa consapevolezza ci dovrebbe aiutare a non essere superficiali e frettolosi nel giudicare e nell’affrontare i problemi che vivono le nostre relazioni, ad avere pazienza nel sopportarsi a vicenda, anche quando emergono (inevitabili) i problemi, a non rompere alla prima difficoltà, a non vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, ma anche quello mezzo pieno, a non buttare l’acqua sporca con il bambino.

La seconda. La soluzione (per quanto precaria, provvisoria) sta sempre nel “terzo”. Nessuna relazione troverà mai la sua salvezza cercandola semplicemente al suo interno. Le relazioni che lo faranno saranno fatalmente destinate a implodere. A morire tristemente ripiegate su se stesse.

La relazione, una qualsiasi relazione, vive se resta “aperta”, se è capace di restare aperta, se è in grado di vivere la dialettica “dentro/fuori”, “interno/esterno” in maniera efficace.

La relazione tra Arturo e Alessandro sceglie questo tipo di soluzione e per questo è in grado, se non proprio di uscire dalle sue difficoltà, quantomeno di sopravvivere, di convivere con esse.

Ha il coraggio di aggiungere “guai” (cioè problemi, difficoltà) ai “guai” che già l’affliggevano. E proprio per questo, paradossalmente, si salva. Proprio quando pareva che stesse definitivamente morendo.

Giovanni Lamagna

Sul film “Io e lei”.

23 marzo 2016

Sul film “Io e lei”.

Ieri pomeriggio, al cineforum che frequento, ho visto il film “Io e lei” di Maria Sole Tognazzi, che mi ero perso in prima visione (2015).

Dico subito che il film, dopo un primo tempo piuttosto sciapo e alquanto noioso, alla fine mi ha preso abbastanza. Per cui non ne do un giudizio negativo. Almeno dal punto di vista artistico o, meglio, dello spettacolo.

Ho, invece, delle riserve sul modo in cui è stata affrontata la problematica/soggetto del film: la storia della convivenza tra due donne omosessuali (interpretate con maestria da Margherita Buy e Sabrina Ferilli).

Un modo che mi è apparso opposto, ma, paradossalmente, (quasi) speculare ai luoghi comuni e agli stereotipi, triti e ritriti, sugli omosessuali, che per secoli hanno imperversato e avuto egemonia culturale.

Infatti, il film ha cercato di raccontare la storia di queste due donne come “una storia d’amore che solo incidentalmente ha luogo tra persone appartenenti allo stesso sesso, riproponendo dinamiche di coppia universalmente riconoscibili”, comuni, quindi agli/alle eterosessuali come agli/alle omosessuali.

Il virgolettato l’ho preso dal foglio di presentazione del film che ci è stato dato prima della sua proiezione. E mi pare esprima bene quella che secondo me era l’intenzione, l’ottica di chi ha costruito il soggetto e la sceneggiatura del film.

Ora è proprio questo tipo di approccio che francamente non mi ha convinto. E per una ragione molto semplice: mi è sembrato eccessivamente “positivo”, un po’ mieloso, zuccheroso, ottimistico, non dico tutto rose e fiori, ma quasi.

Come se il mondo, almeno sotto questo aspetto, fosse cambiato radicalmente e all’improvviso. Una volta (fino a non molti decenni fa) tutti (o la stragrande maggioranza delle persone) guardavano agli omosessuali come a delle persone anomale, deviate, se non proprio malate o, addirittura, pervertite.

Oggi, invece, la maggioranza delle persone sono (meglio, “sarebbero”, secondo il racconto del film) disposte a vedere gli omosessuali come degli individui perfettamente normali, le cui dinamiche relazionali sono (meglio, “sarebbero”) in tutto simili a quelle degli eterosessuali.

Personalmente trovo inaccettabile il modo con cui si guardava agli omosessuali fino a pochi decenni orsono (almeno dalla stragrande maggioranza delle persone), ma trovo altrettanto superficiale (frutto di un conformismo culturale più che di una consapevolezza profonda) il modo con cui si tende a guardarli oggi (almeno da parte della stragrande maggioranza delle persone).

Mi chiedo fino a che punto ognuno di noi ha superato realmente e profondamente i propri pregiudizi o semplicemente li maschera per apparire alla page, moderno, aggiornato.

Ancora e di più: mi chiedo fino a che punto le scienze (soprattutto la biologia, la chimica, la fisiologia, la psicologia) hanno detto parole chiare, che possano essere considerate definitive, indiscusse e universalmente accettate, su questo fenomeno “strano” che è l’omosessualità, “strano” se non altro perché riguarda una abbastanza esigua minoranza della popolazione.

Mi chiedo, ad esempio, cosa distingua (non solo nelle loro manifestazioni esteriori, che sono evidenti, ma nel loro essere profondo, che è meno scontato ed evidente) fenomeni come la omosessualità, il travestitismo, il transessualismo, l’intersessualismo, la bisessualità, che nell’immaginario collettivo sono il più delle volte e superficialmente associati (anche da parte degli stessi esponenti che si riconoscono nell’uno o nell’altro vissuto), mentre si tratta di fenomeni molto, anzi profondamente, differenti tra di loro.

E se valga nei confronti di essi lo stesso metro di misura e lo stesso giudizio. Non sto parlando qui di metro di misura e di giudizio etico, ma di quello implicito in ogni relazione, anche in quelle che vengono intessute tra gli eterosessuali, un giudizio, quindi, che possa basarsi il più possibile su criteri neutri, non ideologici o pregiudiziali, ma scientifici.

Siamo sicuri che a queste domande abbiamo già trovato oramai delle risposte? Io su questo ho i miei dubbi. Per questo critico il film, che invece questi dubbi non li ha e non ne rivela manco le tracce.

Anche se ha avuto (almeno per me) l’indubbio merito di aver provocato queste riflessioni, che forse per tanti sono banali, infondate, inutili, ma non lo sono state e non lo sono per me.

Giovanni Lamagna