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Essere ed esistere.

“Essere” ed “esistere” sono due esperienze molto diverse l’una dall’altra.

L’essere è un’esperienza statica.

L’esistere un’esperienza dinamica.

La prima è delle cose inanimate; anche una pietra è.

La seconda è propria, tipica dell’uomo; solo un uomo esiste.

L’uomo, infatti, al contrario degli oggetti e, in fondo, anche degli altri animali, è chiamato a trascendersi.

Ad “ex-sistere”, appunto; ad uscire da sé per andare oltre sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Esistere e stare al mondo.

Si può “stare” al mondo e allo stesso tempo non “esistere”.

Perché l’esistere non è un semplice stare.

Esistere (da ex sistere) etimologicamente vuol dire “uscire fuori”.

È, quindi, un trascendersi, un trascendere sé stessi.

Un “camminare”, non certo uno “stare”.

© Giovanni Lamagna

Fini realistici e scacco finale.

L’uomo che aspira a diventare Dio è destinato ad un inevitabile scacco e ad una sonora sconfitta, come afferma Sartre nella sua prima grande opera filosofica “L’Essere il Nulla”.

Ma l’uomo che si pone dei fini realistici, alla sua portata, può benissimo realizzarli e quindi non subire né scacchi né sconfitte.

Certo, ci saranno sempre dei fini che egli non riuscirà a realizzare, se non altro perché la morte lo raggiungerà prima.

In questo senso (ma solo in questo senso) l’uomo è davvero destinato a subire qualche scacco.

La morte è il principale di questi scacchi, quello a cui sicuramente non potrà sfuggire, perché lo coglierà mentre egli è ancora desideroso e magari in procinto di realizzare altri fini.

Ma non è uno scacco così ontologicamente radicale da togliere qualsiasi senso al suo esistere e desiderare di esistere.

Questo lo riconosce anche l’ultimo Sartre, quello delle interviste al suo segretario Benny Levy (Mimesis edizioni 2019).

© Giovanni Lamagna

Due tipi di preghiera.

La preghiera (almeno una certa preghiera, ovverossia la preghiera come la si intende normalmente, di solito) poggia su una grande illusione: che esista “almeno Uno nell’universo (Dio) che non può perdermi, che ama incondizionatamente la mia vita, che rende la mia vita degna di essere amata, assolutamente e immensamente insacrificabile. Almeno Uno che non mi lascerà mai.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli).

Mentre tutti gli altri legami significativi per noi, tutte le altre relazioni amorose, sono a rischio: il rischio che l’Altro voglia porre termine al rapporto con noi, che non provi più il desiderio di stare con noi, che ad un certo punto non ci ami più.

Questa preghiera si poggia su una illusione, perché questo Uno non esiste, è una nostra proiezione, è la creazione fantasmatica di un nostro desiderio di amore illimitato e incondizionato, di protezione dal Male assoluto che è la solitudine.

Abbiamo visto oltretutto e lo vediamo ogni giorno che passa, non solo nella nostra esperienza ma anche nella lettura degli stessi libri “sacri”, che questa fede in questo Qualcuno, non ci garantisce per niente dal rischio dell’abbandono e dallo sprofondamento nella solitudine più cupa e tenebrosa (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”: grida lo stesso Gesù, figlio di Dio, nel momento estremo del suo sacrificio sulla croce).

Diversa è la preghiera che da richiesta di protezione e rifugio diventa accettazione profonda della propria condizione di solitudine radicale, abbandono a questa situazione di contingenza assoluta dovuta alla nostra natura mortale, all’idea che prima o poi finiremo nel nulla dal quale siamo venuti, che ci trasformeremo in materia inerte, la stessa che ci circonda da tutte le parti e dalla quale ci siamo staccati nel momento in cui in noi si è formata la coscienza/consapevolezza di esistere.

La preghiera che trasforma la paura e il rifiuto della morte in accettazione, (o, meglio, rassegnazione) e preparazione (quanto più possibile serena, ma mai del tutto serena: diciamocelo francamente!) alla sua venuta, al suo evento.

La preghiera che ci fa sentire parte di un Universo che esisteva da sempre prima che nascessimo come individui e che continuerà ad esistere anche quando noi saremo morti come persone, cioè esseri coscienti e presenti a sé stessi.

Un Universo, quindi, nel quale in qualche modo continueremo a vivere, anche se in forme del tutto diverse (certamente non più esseri coscienti) da quelle nelle quali abbiamo vissuto per un breve arco di tempo, quando esistevamo come individui/persone.

Una preghiera, quindi, che in qualche modo ci fa sentire immortali, eterni, particelle infinitesimali di un ciclo infinito, che non si arresta con la nostra morte, anche se è e resta del tutto misterioso, perché non sappiamo spiegarcene il fine e, quindi, il senso.

© Giovanni Lamagna

Esistere e desistere.

Penso che il termine col significato opposto a quello di “esistere” sia quello di “desistere”.

L’atto di “esistere”, infatti, non corrisponde al semplice “vivere” (o, meglio, sopravvivere), ma ad una precisa, determinata volontà/decisione/scelta di vivere, di “stare” (anzi re-stare) in questo mondo.

Espresse significativamente dal prefisso “ex”, che sta a significare una volontà di uscire dal semplice “stare”.

Che è, invece, un trovarsi qui, nel mondo, dopo esservi stato “gettato” per caso col nascere, ma restandoci senza fare una scelta, bensì per semplice inerzia, dunque sopravvivendo e non vivendo.

Il “desistere” esprime, invece, l’atto esattamente opposto a quello di “esistere”: è quasi un dimettersi dallo stare qui, nel mondo.

E’ un uscire (di fatto) dallo stato del vivere (se non in senso fisico, quantomeno in senso psicologico), espresso molto bene dal prefisso “de”.

© Giovanni Lamagna

Benessere e fatica.

Mi convinco ogni giorno di più che nella vita abbiamo bisogno di modelli di riferimento più alti di noi, che ci elevino, ci innalzino al di sopra di noi.

Modelli ai quali tentare di assomigliare, facendo uno sforzo, trascendendo noi stessi, gettando il cuore oltre l’ostacolo.

Questo vuol dire realmente esistere; da “ex-sistere”: stare fuori, uscire da sé.

Chi, invece, cerca solo il riposo, chi nella vita si accontenta di poco, di avere come modelli di riferimento coloro che gli assomigliano o, addirittura, stanno spiritualmente, psicologicamente, ad un livello inferiore al suo, sarà destinato a vivacchiare nella mediocrità ed a provare dunque un senso di vuoto, di mancanza, che lo renderà perennemente insoddisfatto.

Confonderà il desiderio di riposo, tranquillità, conforto con quello di benessere e di felicità, che invece – paradossalmente – esigono una certa tensione, una qualche fatica.

Un po’ come colui che vorrebbe provare il benessere, la gioia, di camminare o andare in bicicletta senza muovere le gambe o senza pedalare, senza fare cioè alcuno sforzo o fatica.

© Giovanni Lamagna

Esistere vuol dire muoversi, trascendersi.

Esistere (ex-sistere) vuol dire letteralmente “uscire fuori da sé”, cioè “trascendersi”.

Quindi chi “sta fermo” spiritualmente, chi non si muove per crescere spiritualmente potremmo dire che non esiste in senso proprio, perché non vive nel senso spirituale del termine.

Chi sta fermo (spiritualmente) semplicemente non esiste: è uno zombie, una specie di morto che cammina.

© Giovanni Lamagna

La meraviglia e l’assurdo di esistere.

Effettivamente, come evidenzia Pierre Hadot nel suo “La filosofia come modo di vivere” (pag.176), per molti pensatori esistenzialisti (egli pensa soprattutto a Sartre e Camus) dopo la “morte di Dio” la vita non ha più un fondamento e quindi è diventata un assurdo.

Ora questa conclusione è del tutto logica e giustificata, se andiamo in cerca di un fondamento metafisico, cioè di un fondamento che vada oltre la vita e che si ponga prima della vita.

E tuttavia le cose possono essere viste anche da una prospettiva diversa, tutta interna alla vita stessa: in questa prospettiva la vita ha un fondamento in sé stessa e, quindi, ritrova un senso.

Io voglio vivere perché un impulso vitale mi porta a voler vivere.

Che non ha bisogno di alcuna giustificazione: esiste e basta!

Semmai sono portato a chiedermi come mai esista in me questo impulso.

E qui in alcuni sopravviene il sentimento della meraviglia, dello stupore.

In altri, come, ad esempio, in Sartre e Camus, quello dell’assurdo.

Ma tali sentimenti non traggono origine dal pensiero filosofico, dall’aver trovato o meno un fondamento razionale, metafisico, quindi filosofico, alla vita in generale, bensì, piuttosto, dalla condizione esistenziale singolare della persona che li prova.

Addirittura la stessa persona, in fasi diverse della sua vita, può provare gli uni o gli altri: la meraviglia e, quindi la gioia, in certi momenti, addirittura, la felicità di esistere; o il dolore, perfino l’angoscia, e quindi l’assurdo di esistere.

© Giovanni Lamagna

Riflettendo su Sartre: l’essere e l’esserci.

L’esserci, per Sartre, è diverso dall’essere.

Io così li ho intesi.

L’essere ha un che di atemporale e, persino, di a-spaziale.

E’ il noumeno di Kant, potremmo dire.

L’esserci, invece, si situa nello spazio e nel tempo, nel qui e ora: è il concreto esistere.

Su cui Sartre ha incentrato gran parte della sua filosofia.

© Giovanni Lamagna

Essenza ed esistenza.

Sartre, in “L’esistenzialismo è un umanismo”, afferma molto perentoriamente “l’esistenza precede l’essenza”.

E’ davvero così? Per me, sì e no.

Sul piano gnoseologico o, meglio, della presa di coscienza della realtà, Sartre ha ragione: l’esistenza precede l’essenza.

Se non ci fosse il nostro esistere, la nostra concreta esistenza, noi manco ci porremmo il problema dell’essere, dell’esistenza.

Sul piano ontologico, invece, per me è vero l’opposto: l’essenza precede l’esistenza.

Se, infatti, non esistesse l’essere come prima realtà, l’atto del conoscere e quindi dell’esistere non potrebbe darsi, sarebbe impossibile.

© Giovanni Lamagna