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Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.
Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.
Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.
In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.
Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.
In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.
Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.
Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.
p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.
Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.
© Giovanni Lamagna
Cure oggettivamente date e risonanze emotive che rilasciano.
Le esperienze fisiche di tutti i bambini che sono “sopravvissuti” alla loro infanzia sono tutte più o meno le stesse: oggettivamente, materialmente si somigliano.
Sono esperienze di cura, di accudimento, soprattutto di nutrimento, da parte delle figure genitoriali (specie della madre) o di figure sostitutive, ma più o meno equivalenti.
I bambini che non vengono sufficientemente nutriti, accuditi e curati non riescono a sopravvivere oltre l’infanzia o addirittura oltre le prime settimane o mesi di vita: questo ci dicono la scienza e, prima ancora, le statistiche.
Ciò che cambia (e a volte profondamente) nelle varie esperienze è la risonanza emotiva che esse rilasciano nel bambino.
Ci sono carezze e carezze, baci e baci, abbracci e abbracci, rimproveri e rimproveri, parole e parole, ascolti e ascolti, attenzioni e attenzioni…
A volte questa risonanza nel bambino è di profondo piacere e benessere, altre volte di profonda frustrazione e malessere.
Tra questi due estremi si situa una vasta gamma di sfumature diverse, alcune più vicine al primo altre più vicine al secondo.
Il risultato è una traccia emotiva comunque incancellabile nella vita del bambino, che persisterà anche nella sua vita di adulto e ne segnerà il destino emotivo ed affettivo.
In certi casi ne pregiudicherà addirittura la stessa salute psicofisica.
© Giovanni Lamagna
Capriccio e desiderio (2)
La realizzazione di un desiderio produce integrazione tra le varie parti di sé.
E, quindi, un benessere e una soddisfazione pieni, duraturi.
La realizzazione di un capriccio provoca, invece, dissipazione interiore.
E, quindi, dopo un breve appagamento, malessere e insoddisfazione.
È questa la cartina di tornasole per distinguere un desiderio da un capriccio.
Gli alberi si riconoscono dai frutti che producono (Luca 6, 44).
© Giovanni Lamagna
“Mi sento gli occhi addosso”.
Ha senso l’espressione “mi sento gli occhi addosso”?
Secondo me sì.
Perché nei rapporti umani (ma forse anche in quelli tra animali e, forse, addirittura tra vegetali) si viene a creare sempre una corrente energetica.
Che a volte è positiva, nel senso che genera in noi benessere; quando le persone che ci stanno attorno ci vogliono bene e ci incoraggiano nelle nostre scelte.
Altre volte è negativa, nel senso che ci provoca malessere; quando le persone che ci sono vicine non solo non ci amano, ma addirittura si augurano il nostro male.
L’espressione “mi sento gli occhi addosso” si riferisce a questa seconda, spiacevole, sensazione; molto fondata e per niente paranoica.
© Giovanni Lamagna
Occidente e Oriente: confronto utile, anzi necessario.
Il confronto tra Occidente e Oriente è affascinante; perché questi due mondi sembrano essere andati, nel corso della Storia, in due direzioni contrarie, perfino opposte; mentre oggi, grazie alla globalizzazione, sembrano finalmente incontrarsi.
Il primo ha privilegiato l’azione (anzi un attivismo esagerato, addirittura esasperato), il progresso scientifico e tecnologico, la rincorsa al benessere materiale, che è sfociata negli ultimi decenni nel consumo molte volte fine a sé stesso, il consumismo.
Il secondo ha privilegiato, invece, la contemplazione (fino a sfiorare l’inazione), l’adeguamento ai ritmi lenti della natura, la messa in secondo piano, nelle gerarchie valoriali, del progresso materiale rispetto a quello spirituale.
Nessuno dei due, a mio avviso, può (e dovrebbe) vantare superiorità culturale rispetto all’altro.
Perché ciascuno di essi ha sviluppato, anche se in maniera forse troppo unilaterale, aspetti fondamentali dell’umano.
Semmai essi avrebbero bisogno (come da un po’ di decenni, in verità, sta avvenendo) di incontrarsi e integrarsi.
Prendendo ciascuno i pregi dell’altro e superando i propri limiti e le proprie unilateralità.
© Giovanni Lamagna
Le motivazioni e le dinamiche dell’esperienza mistica.
Freud nel famoso epistolario con il suo amico francese, il letterato vincitore di un premio Nobel Romain Rolland, spiega l’esperienza mistica (il “sentimento oceanico” di fusione con il Tutto, di cui gli aveva scritto Rolland) con il bisogno/desiderio regressivo di ritornare nell’utero materno, laddove l’uomo ha sperimentato – è dato supporre – le massime sensazioni di benessere e di felicità.
A me pare (come del resto a molti altri, di cui ho letto; per primo a Rolland, ovviamente, e poi a Jung, già ai tempi di Freud e in polemica con lui, e poi a Elvio Facchinelli e poi a Romano Madera, per venire a tempi più recenti) che con questa sua lettura/interpretazione il grande genio austriaco, fondatore della psicoanalisi, abbia preso una grande toppata.
Ci sono, infatti, persone che vivono cronicamente desiderose di tornare nell’utero materno, la fantasia nevrotica di uscire dal mondo esterno – nel quale le ha proiettate la nascita e nel quale sono incapaci di sperimentare il minimo benessere – per ritornare all’indietro nel guscio protettivo, nel quale, invece, hanno vissuto una condizione di (oramai perduta) felicità.
Sono però le persone nevrotiche di cui Freud si sarà occupato cento volte nel corso della sua esperienza di psicoterapeuta; persone proiettate all’indietro, con lo sguardo rivolto al passato, incapaci di guardare al futuro, anzi terrorizzate da quello che prospetta loro la vita che hanno davanti, in un movimento, in una postura che non hanno nulla a che fare con quelli del mistico.
Il mistico, infatti, fa il movimento esattamente contrario: ha maturato la consapevolezza che ogni idea/desiderio di ritorno all’indietro (simbolicamente nell’utero materno, appunto!) è del tutto impossibile, una pura fantasia nevrotica e autodistruttiva, e perciò si proietta in avanti.
Certo alla ricerca di una felicità che in qualche modo possa assomigliare a quella sperimentata nell’utero della madre, che, come dice Jung, “fu per noi il primo oggetto, con la quale un tempo noi fummo veramente una cosa sola” (“Simboli della trasformazione”; Bollati Boringhieri 1970; p. 318).
Ma in una direzione esattamente opposta a quella della persona nevrotica; lo fa guardando in avanti e non all’indietro, aprendosi al mondo nel quale lo ha proiettato la nascita e non rifuggendone, cercando l’unione col Tutto e, quindi, con tutti i suoi simili nelle loro variegate diversità e non (come fa invece il nevrotico) con l’Unico e sempre Uguale, rappresentato dalla figura materna e simbolicamente dal suo utero.
La felicità che cerca il mistico è dunque una condizione da conquistare faticosamente e non un’eredità di cui godere gratuitamente, il frutto di un’ascesa e non di una discesa, di una crescita spirituale e non di una regressione psichica, di una espansione e non di una contrazione o chiusura.
Chi è il mistico, quali caratteristiche deve avere, a quale chiamata risponde, lo descrive in maniera esemplare, come meglio, a mio avviso, non si potrebbe, il passo del Vangelo di Luca (14; 25-33), che qui riporto integralmente:
“25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».
31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.” (Testo CEI 2008).
Ora, se noi spogliamo questo testo di tutti gli orpelli legati strettamente alla biografia del Cristo e ne traduciamo in termini del tutto laici e perfino mondani il linguaggio, siamo in grado di comprendere con estrema chiarezza chi è il mistico.
Ovverossia una persona tutt’altro che attaccata al passato, meno che mai ai legami familiari, in primis a quelli di sangue.
Una persona adulta, matura, saggia, capace invece di fare progetti e dotata di un acuto senso della realtà, come non lo è invece la persona bloccata psicologicamente.
Una persona che si priva di tutti i suoi averi, compresi quelli a cui si era appigliato quando era bambino, per seguire la propria vocazione; per seguire – avrebbero detto i Greci, che Freud tanto amava – il proprio daimon.
Altro che “desiderio di ritornare alle percezioni neonatali o all’utero materno” (Romano Madera; “Lo splendore trascurato del mondo”; Bollati Boringhieri 2023)!
© Giovanni Lamagna
Psicoterapia e conoscenza di sé.
Un percorso psicoterapeutico (di qualsiasi tipo esso sia, da qualsiasi “scuola” sia portato avanti) in fondo non è altro che un percorso di conoscenza.
Ovviamente di un particolare tipo di conoscenza, molto diversa, ad esempio, da quella che ci fornisce l’istruzione scolastica, ma anche molto diversa da quella che possiamo definire “formazione culturale”.
Nel caso specifico la psicoterapia mira alla conoscenza di sé stessi, della propria storia esistenziale, dei blocchi psicologici, che nel corso di essa si sono venuti a formare e delle loro cause.
A volte succede che questo processo di autoconoscenza e di autoanalisi porta con sé, quasi come esito automatico e naturale, la risoluzione (più o meno totale) dei blocchi, dei nodi problematici di cui si è parlato prima.
A volte, però… il che non vuol dire che ciò accada sempre.
Altre volte (e non azzardo la percentuale di volte) può succedere che, alla fine di un percorso terapeutico, il soggetto che vi si è sottoposto sia venuto a conoscere molto di sé, ma non stia affatto meglio di quanto lo fosse prima di iniziarlo.
Questo vuol dire che la psicoterapia garantisce (quasi sempre) maggiore e migliore conoscenza di sé, ma non garantisce sempre – alla sua conclusione – un maggiore benessere.
Meno che mai la cosiddetta “guarigione” dai sintomi che ci avevano spinti ad iniziare la psicoterapia; come spesso quelli che vi si approcciano sono portati a immaginare e (illusoriamente) sperare.
© Giovanni Lamagna
Rapporto col sesso e capacità di godersi la vita.
Mi vado convincendo ogni giorno di più che pochi sanno veramente godersi la vita.
E che questo abbia parecchio a che fare con il rapporto che molti hanno con la loro sessualità?
Forse – anzi sicuramente – è esagerato dire che gran parte dell’infelicità umana dipende da un cattivo rapporto col sesso.
Ci sono indubbiamente anche altre cose che fanno la felicità dell’uomo, oltre ad un buon rapporto con il sesso.
Ma è certo che un cattivo rapporto con il sesso incide negativamente (e parecchio, a mio avviso) sul benessere psico-fisico dell’essere umano.
© Giovanni Lamagna