Archivi Blog

Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.

Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.

In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.

Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.

Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.

In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.

Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.

Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.

Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.

Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.

Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.

Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.

Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?

Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.

Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.

Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.

Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.

In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.

Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.

Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.

Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.

Ma che alternative abbiamo?

Tanto vale – quantomeno – provarci.

© Giovanni Lamagna

Misteri dell’animo umano!

Ci sono alcuni che, pur stando male dentro, pur avvertendo che c’è qualcosa di profondamente sbagliato in loro, che andrebbe quindi corretto, curato, per stare meglio, e che questo cambiamento sarebbe del tutto alla loro portata, se solo lo volessero, se solo si affidassero a qualche esperto, in grado di dare loro un aiuto, preferiscono, invece, tenersi il loro malessere, quasi che questo sia da preferire alla cura, al cambiamento, ad una situazione di benessere.

Preferiscono, per usare delle metafore, legate al corpo, tenersi il mal di testa pur di evitare la “fatica” di scendere in farmacia e comprarsi un’aspirina, che glielo farebbe sicuramente passare.

Preferiscono tenersi il mal di denti, per non vivere “l’ansia” di andare dal dentista e il fastidio di farsi curare la carie.

Misteri dell’animo umano!

© Giovanni Lamagna

Solitudine,isolamento, compagnia.

Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.

Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.

Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.

La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.

Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.

Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.

Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.

Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.

© Giovanni Lamagna

Una straordinaria testimonianza di fraternità.

In giugno (1886) Vincent (Van Gogh) si trasferisce col fratello (Theo) in un appartamento di… Rue Lepic 54 (a Parigi).

(…)

La convivenza tra i due fratelli giova non poco all’umore di Vincent, ma crea… numerosi problemi a Theo, che in una lettera a Willemien la definisce “pressoché insopportabile…

Io gli chiedo soltanto di non farmi del male e invece la sua stessa presenza mi è terribilmente penosa…

È come se in lui ci fossero due persone distinte: la prima tenera, sensibile, straordinariamente dotata; la seconda egoista e di cuore duro.”.

Theo sopporta però ogni mortificazione, nutre la più grande fiducia nelle doti di Vincent.

È realmente un artista…

Un giorno i suoi dipinti potrebbero essere sublimi, e mi sentirei colpevole di averlo distolto da uno studio regolare.”.”

(da “Notizia sulla vita e le opere di Vincent Van Gogh”; in Vincent Van Gogh; “Lettere a Theo”; Ugo Guanda editore 2022)

Trovo in questa mezza paginetta una straordinaria, bellissima, testimonianza di cosa è, di cosa può arrivare ad essere la fraternità.

Theo non è un genio, non è posseduto dal demone dell’arte, come il fratello Vincent.

Però ama, ama Vincent di un amore puro (fraterno, appunto!), quindi disinteressato.

Perciò è disposto a sopportare “ogni mortificazione”, anche quando la convivenza col fratello gli risulta insopportabile.

Non solo; ma l’amore lo rende anche saggio, sapiente, acuto e preveggente critico d’arte; gli fa vedere quello che gli altri, i più, non vedevano, non riuscivano a vedere.

E cioè che Vincent era un genio, che prima o poi avrebbe dipinto quadri sublimi.

Cosa che fu; la Storia gli ha dato meritoriamente ragione.

A lui, pertanto, alla sua abnegazione, dobbiamo essere tutti immensamente grati.

In questo caso – ne traggo qui spunto per fare una ulteriore breve riflessione – la (apparente) mortificazione di un uomo ha avuto un senso; perché era sostenuta da una “fede”.

Una fede “oscura” perché smentita dai continui insuccessi del fratello: Vincent Van Gogh, fin quando è stato in vita, non è stato apprezzato quasi da nessuno, ha venduto pochissimo, quelli che riconoscevano il suo valore artistico si contavano sulle dita di una mano.

La mortificazione di Theo ha avuto un senso, perché era finalizzata ad uno scopo: prima o poi il genio di Vincent sarebbe stato finalmente riconosciuto.

Non aveva, quindi, nulla a che fare col masochismo, per il quale la mortificazione e il sacrifico sono fini a sé stessi, obbediscono solo ad un istinto di morte.

© Giovanni Lamagna

Concentrazione.

Se sto bevendo il caffè, sto bevendo il caffè.

Se sto preparando il pranzo, sto preparando il pranzo.

Se sto leggendo un libro, sto leggendo quel libro.

Se sto conversando con una persona, sto conversando con quella persona.

Non posso fare più cose contemporaneamente.

E neanche farle col pensiero rivolto ad altro.

Farò male quello che sto facendo e penserò male quello a cui sto pensando.

Per farla bene, devo essere concentrato sulla cosa che sto facendo.

Quindi devo fare (e anche pensare) una sola cosa alla volta.

© Giovanni Lamagna

Paura della morte.

Per mia esperienza personale posso dire che dopo i 70 anni si entra in una fase del tutto nuova della vita: si incomincia ad avere paura seriamente della morte.

Perché la si avverte non più come una realtà lontana, futura remota, che riguarda altri, ma come una realtà vicina, futura prossima, che ci riguarda direttamente.

Sarà perché siamo costretti a partecipare sempre più spesso ai funerali di nostri coetanei; e allora diventa naturale chiedersi: quando verrà anche il mio momento?

Si entra perciò in uno stato d’animo latente e diffuso di allarme: ogni più piccolo sintomo ci appare come anticipatore (possibile) di un qualche grave male.

Anche l’estrazione di un dente lo viviamo come il segnale di un tempo che si consuma irreversibilmente e sempre più velocemente; e che, soprattutto, non tornerà mai più.

© Giovanni Lamagna

“Mi sento gli occhi addosso”.

Ha senso l’espressione “mi sento gli occhi addosso”?

Secondo me sì.

Perché nei rapporti umani (ma forse anche in quelli tra animali e, forse, addirittura tra vegetali) si viene a creare sempre una corrente energetica.

Che a volte è positiva, nel senso che genera in noi benessere; quando le persone che ci stanno attorno ci vogliono bene e ci incoraggiano nelle nostre scelte.

Altre volte è negativa, nel senso che ci provoca malessere; quando le persone che ci sono vicine non solo non ci amano, ma addirittura si augurano il nostro male.

L’espressione “mi sento gli occhi addosso” si riferisce a questa seconda, spiacevole, sensazione; molto fondata e per niente paranoica.

© Giovanni Lamagna

Vita e consapevolezza della vita.

La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.

Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.

Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.

Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!

E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.

Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.

Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.

Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.

© Giovanni Lamagna

È l’amore e non l’odio che ci aiuta a separarci dagli altri.

Non ci si può separare veramente dai propri genitori, anche, anzi ancora di più, quando essi ci hanno fatto molto male, se non dopo averli “perdonati” e, quindi, aver ristabilito con loro un qualche legame di compassione, se non proprio di amore.

Cioè dopo aver detto loro, in cuor nostro, se non proprio con un discorso esplicito: “Ho capito che non è stata colpa vostra se mi avete fatto del male, ho capito che me lo avete fatto perché siete delle persone alle quali è mancato l’amore, quindi “povere” di amore; e per questo non siete stati capaci di darlo a me.”

Paradossalmente è l’amore e il perdono che generano la separazione, non l’odio.

L’odio porta sempre con sé rimasugli di attaccamento; è in fondo una forma di attaccamento non risolto, non superato.

Segnala, quindi, un’incapacità a separarsi veramente, cioè psicologicamente e non solo fisicamente, dalla persona che si odia e da cui ci si vorrebbe separare.

© Giovanni Lamagna

Fretta.

Alle volte, per fare le cose in fretta, le facciamo male.

E allora siamo costretti a rifarle.

E così, per farle, ci mettiamo ancora più tempo di quello che avremmo impiegato se non le avessimo fatte in fretta.

© Giovanni Lamagna