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Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.

Non basta volere amare.

Ancora meno basta dire “Ti amo”.

Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.

Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.

Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.

C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.

Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.

Ne consegue che non basta volere amare.

Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.

L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.

No, non è così, non è così semplice.

In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.

Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.

Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.

Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.

La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.

Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”

E diventare, quindi, amore.

“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”

In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).

© Giovanni Lamagna

Ansia e atteggiamento ansioso.

L’ansia è l’eccesso di preoccupazione per ciò che ci riserverà il futuro.

Si può parlare di ansia quando la preoccupazione per il futuro è esagerata, non giustificata dai dati di realtà.

L’atteggiamento ansioso è, invece, la tendenza (che abbiamo spesso alcuni di noi) a fare le cose in maniera frettolosa e approssimativa, ovverossia nei tempi e coi modi sbagliati.

Più che con l’ansia, ha a che fare con il non rispetto dei tempi giusti, quelli cioè necessari a fare determinate cose.

Che si manifesta, in modo particolare, quando le cose che stiamo facendo non ci appassionano molto o addirittura ci annoiano.

Per cui vorremmo (e cerchiamo di) sbrigarle nel minor tempo possibile.

E non per senso del dovere, ma per liberarcene quanto prima possibile.

© Giovanni Lamagna

In memoria di Toni Negri.

Lo dico subito: a me Toni Negri non stava simpatico.

Ora che è morto provo ovviamente un sentimento di rispetto e di umana pietà, che è sempre giusto e naturale provare di fronte al fine vita di ogni essere umano.

Ma non posso esimermi dall’esprimere un mio giudizio franco sulla sua persona, anche, anzi proprio in nome del rispetto di cui prima.

Per me Toni Negri era il classico intellettuale, impegnato politicamente, che presumeva di parlare del popolo, anzi in nome del popolo, senza farne concretamente parte.

Il suo pensiero è stato, infatti, totalmente incapace di intercettare le masse a cui pure pretendeva di rivolgersi; è rimasto in buona sostanza un pensiero largamente minoritario.

Quindi – possiamo dire – del tutto fallimentare, anche alla luce dei suoi presupposti, degli obiettivi che autonomamente si era proposto.

Non posso poi perdonargli la deriva violenta che (direttamente o indirettamente) ha contribuito a promuovere.

Il movimento degli anni ’70, di cui Negri è stato un indubbio protagonista, anzi leader e “maestro”, ha rappresentato per me l’involuzione nettamente negativa di tutte le istanze (ovviamente già in sé ambivalenti, ma molte fortemente positive) maturate nel decennio precedente.

Questa deriva ha avuto un tragico e decisivo ruolo – anche se naturalmente non è stata l’unico fattore a provocarla – nella sconfitta del (vero) movimento di massa dei lavoratori, che in quegli anni aveva raggiunto la sua massima forza, anzi imponenza.

Da allora sono cominciate le sconfitte, che oggi vedono il loro punto culminante; almeno così io spero; anche se non ne sono del tutto sicuro, perché ci sono tornanti della storia nei quali al peggio sussegue l’ancora peggio in una spirale (quasi) senza fine.

Negli ultimi anni – ho letto qualcosa in proposito: spero sia vero – mi è giunta notizia che sorrideva spesso e parlava di amore; sono contento per lui; questo potrebbe essere il segno che si è vissuta una vecchiaia più felice di quanto non sia stata (immagino) la sua travagliata vita precedente.

E questo – ripeto: se fosse vero – me lo rende anche, in questo momento, umanamente un po’ più simpatico e vicino di quanto non lo sia stato nei lunghi decenni trascorsi, in cui pure l’ho seguito, ma da posizioni molto, molto lontane dalle sue.

© Giovanni Lamagna

L’omosessualità e il concetto di “normalità”.

Esistono, a mio avviso, tre modi di considerare il concetto di “normalità”, quando parliamo di essere umano: il primo assume a criterio di riferimento la cosiddetta “statistica”, il secondo la “funzionalità oggettiva” e il terzo “la felicità soggettiva”.

Cercherò di spiegare qui di seguito quale significato hanno per me questi tre approcci al concetto di “normalità”, prendendo a pretesto una situazione, una condizione umana, che, ancora oggi, è molto al centro del dibattito relativamente a ciò che è (o sarebbe) normale e ciò che non lo è (o non lo sarebbe): l’omosessualità.

1.Se valutiamo l’omosessualità dal punto di vista statistico essa è oggettivamente fuori della norma: la maggioranza degli esseri umani, infatti, nasce e si comporta da eterosessuale; solo una minoranza è omosessuale.

Qui non si tratta affatto di concordare con le “analisi” e i giudizi, espressi addirittura in un libro, da un generale dell’esercito italiano che è assurto di recente agli onori della cronaca: si tratta di prendere semplicemente atto di un dato di realtà.

Credo che questo dato anche gli omosessuali lo possano e lo debbano riconoscere: è un puro dato numerico, che in sé non contiene (o non dovrebbe per me contenere) alcun giudizio di valore.

Che importanza ha, infatti, sul piano sociale, delle relazioni umane questo dato? Nessuna, assolutamente nessuna!

Soprattutto per chi ritiene che un principio basico e sacro delle democrazie debba essere il rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze.

Ovviamente chi non ritiene che le maggioranze debbano rispetto alle minoranze si sente in diritto di disprezzarle e, al limite, anche vessarle; e quindi disprezzerà e, al limite, vesserà anche le minoranze LGBT.

Ma in questo modo si metterà, senza alcun dubbio, fuori dall’ambito democratico: anche questo è un dato oggettivo.

È grave, quindi, molto grave, che un generale, il quale ha dovuto giurare sulla Costituzione per svolgere il suo ruolo, tragga da un semplice dato statistico, anche se oggettivo, pretesto per esprimere giudizi che offendono gravemente la dignità di alcune minoranze del nostro Paese, anzi del genere umano, da sempre esistite e che sempre esisteranno.

D’altra parte a voler essere conseguenti col principio statistico dovremmo dire che anche i geni sono anormali, perché neanche i geni rientrano nel livello normale, cioè medio, del Q. I. (Quoziente Intellettuale): si situano, infatti, ad un livello superiore.

Ma non per questo la maggioranza disprezza i geni e meno che mai li vessa o persegue. Anzi!

2. Esiste poi un secondo approccio al concetto di “normalità”, che si misura rispetto alla “funzione”, che ha (o dovrebbe avere) un determinato organo e perfino un individuo.

Da questo punto di vista, nel momento in cui si riconosce che una funzione (ma non l’unica) della sessualità è quella procreativa, ne consegue che all’atto omosessuale è negata per natura – e non solo per scelta – questa funzione.

Per natura, nel senso che due omosessuali, anche se lo volessero, non possono procreare nel momento in cui si congiungono sessualmente.

Al contrario di due eterosessuali che possono congiungersi sessualmente e fare in modo – per scelta (con opportuni metodi e strumenti) – che il loro atto non abbia (almeno in quel caso) un esito procreativo.

Anche questa è una realtà oggettiva, che non può essere negata da nessuno; manco (a meno che non vogliano negare l’evidenza) dagli omosessuali.

E, però, anche questo dato di realtà oggettiva cosa toglie alla dignità umana, esistenziale di un omosessuale? Cosa lo renderebbe meno degno (o, addirittura, non degno) di rispetto?

A me sembra, nulla, assolutamente nulla!

La sua scelta, infatti, è in tutto simile da questo punto di vista a quella di un eterosessuale, che rinuncia ad avere dei figli.

Semmai gli si potrebbe obiettare: non sai cosa ti perdi! È questa l’unica obiezione che gli si può fare.

Ma la stessa obiezione può essere fatta – appunto! – anche ad un eterosessuale che rinuncia, per sua libera scelta e non per impedimento fisiologico, ad avere dei figli.

3. Esiste, infine, un concetto di “normalità” che si misura in base al livello di felicità o di benessere soggettivi di una determinata persona.

Da questo punto di vista è del tutto evidente, è sotto gli occhi di tutti, che abbiamo omosessuali felici e omosessuali infelici, esattamente come abbiamo eterosessuali felici e eterosessuali infelici.

Abbiamo, anzi, omosessuali che sono molto più felici ed hanno raggiunto livelli di benessere psico-fisico e, perfino, spirituale di gran lunga superiori a quelli di tanti eterosessuali.

In questo caso allora è lecita, anzi viene spontanea la domanda: chi è più “normale”? l’eterosessuale infelice, depresso, ripiegato su sé stesso o nel migliore dei casi, triste e malinconico? oppure l’omosessuale felice o, quantomeno, gaio, allegro, aperto e socievole cogli altri?

Come si vede, il concetto di “normalità” può essere visto ed esaminato da svariati punti di vista; io ne ho colti tre, ma forse ce ne sono anche altri che potrebbero essere considerati e analizzati.

E da nessuno di essi riceve giustificazione e legittimità l’atteggiamento ostile, spregiativo, in una parola “omofobo”, che ancora oggi caratterizza il comportamento di molti individui nei confronti degli omosessuali e delle minoranze LGBT in generale.

© Giovanni Lamagna

Facciamo la pace, non facciamo la guerra!

E’ venuto il tempo di gridare forte nelle piazze (reali e virtuali): “No alla guerra! No alla violenza! Non esiste guerra giusta! Non esiste violenza legittima!”

Esiste un modo altro di difendersi dalla violenza e dalle aggressioni altrui: attivamente nonviolento, disarmato.

Che non è resa passiva e codarda.

Come i più considerano: per pigrizia intellettuale o – peggio ancora – malafede.

E’ solo un altro modo di fare resistenza.

Diverso da quello (armato) a cui fecero ricorso i (pur eroici) partigiani durante la seconda guerra mondiale.

Con tutto il rispetto e la gratitudine per quei gloriosi partigiani, è venuto il momento di dire – con forza e senza mezze misure – che oramai quella forma di resistenza non è più praticabile, è divenuta anacronistica.

Di fronte alla prospettiva di un disastro nucleare, che vedrebbe coinvolti aggressori e aggrediti e non avrebbe quindi né vincitori né vinti.

Che non vedrebbe alcun trionfo della giustizia contro la (eventuale) barbarie.

E’ venuto il tempo di insegnare (per chi già le conosce) e di imparare (per chi non le conosce ancora) forme e pratiche di lotta nonviolenta.

Non di resa, quindi; ma di lotta; seppur senza armi.

O, meglio, con armi diverse da quelle che usa il nemico.

Armi che non mirano ad ammazzare a loro volta chi attenta con armi mortali alla nostra vita.

Armi che fanno r-esistere, ma non uccidono il nemico.

Perché la vita del nemico, per quanto cattivo e crudele possa essere, vale quanto la nostra.

Perché ammazzare l’Altro – anche se in nome di ragioni giuste e, persino, sacrosante – equivale ad ammazzare sé stessi, l’umano che è in noi.

Ci imbarbarisce, come la Storia – ad abundantiam – dimostra.

© Giovanni Lamagna

Da cosa nasce l’amore per gli altri?

E’ inutile abbellire le cose ed ammantarle di retorica: nessuno ama gli altri e fa loro del bene per puro e semplice altruismo.

Lo fa essenzialmente e in primo luogo per amore di sé, per il rispetto e l’amore dovuti alla umanità che è dentro di lui/lei.

Se io riconosco nell’altro la stessa umanità che vive in me, se io divento quindi consapevole che non c’è reale soluzione di continuità tra me e l’altro, non posso non amarlo.

L’odio o la stessa mancanza di rispetto nascono dal fatto che io vivo l’altro come totalmente altro, come del tutto estraneo, come straniero non di patria, ma di genere, di razza, di natura.

© Giovanni Lamagna

L’uomo non è né angelo né diavolo, ma diavolo e angelo allo stesso tempo.

Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), così scrive:

… l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma … occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività.

Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo.

Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?

Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni.

In circostanze estreme che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.”

Vorrei commentare brevemente queste tesi freudiane.

Non certo per mettere in discussione che molte delle affermazioni sostenute qui da Freud corrispondano alla verità.

Ma solo per contestare che esse siano del tutto vere, l’unica verità sulla natura umana.

Io concordo che l’uomo non sia una creatura (solo o del tutto) mansueta: sarebbe certamente una falsità affermarlo.

Indubbiamente – come dice Freud – al suo corredo pulsionale appartiene (anche) una buona dose di aggressività.

Contesto, invece, che l’uomo sia solo un lupo in mezzo ad altri lupi (homo homini lupus), come sembra concludere Freud nel passo sopra citato, riprendendo una famosa tesi di Hobbes.

No, io – onestamente, proprio guardando alle esperienze della mia vita e alla storia, come ci invita a fare Freud – non riesco a condividere una tale tesi.

Che mi appare anch’essa estrema e unilaterale, come quella opposta e speculare dell’uomo naturalmente buono di – per citare un solo nome – Rousseau.

D’altra parte lo stesso Freud sembra (almeno in parte) contraddirla, quando riconosce che ordinariamente ci sono nell’uomo forze psichiche che inibiscono la sua aggressività, la quale esplode solo “in circostanze estreme”.

Questo mi porta a pensare: se esistono nell’uomo forze psichiche che normalmente inibiscono la sua aggressività, da qualche parte esse devono pur scaturire.

E da dove scaturirebbero, se esse non facessero parte intrinseca della sua natura?

La mia tesi, pertanto, è che l’uomo non sia né tutto buono, né tutto cattivo, né sempre mansueto come un agnellino, né sempre feroce come un lupo.

Ma costituisca un impasto complesso di mansuetudine e di aggressività, di amore e di odio, di tensione alla cooperazione, alla generosità e al rispetto per gli altri e, allo stesso tempo, di propensione alla competizione, allo sfruttamento, all’invidia e alla gelosia.

La constatazione che in alcuni uomini prevalgano nettamente la cattiveria e la malvagità (la Storia ce ne mostra indubbiamente infiniti esempi) non smentisce e non annulla il fatto che in altri uomini (la stessa Storia ce ne mostra altrettanto numerose testimonianze) prevalgano la bontà e la dedizione agli altri.

Ne deduco, in conclusione, che questo è l’Uomo: né angelo, né diavolo, ma angelo e diavolo allo stesso tempo!

© Giovanni Lamagna

Scissioni e nevrosi del comportamento amoroso.

Nel 1912 in una pagina di “Psicologia della vita amorosa” Sigmund Freud affermava: “Non possiamo sottrarci alla conclusione che oggi il comportamento amoroso dell’uomo, del nostro mondo civile, è improntato a impotenza psichica.

Solo in una minoranza delle persone colte la corrente di tenerezza e quella sensuale si armonizzano reciprocamente;

quasi sempre, nella attività sessuale, l’uomo si sente limitato dal rispetto per la donna e sviluppa la sua piena potenza solo quando ha dinanzi a sé un oggetto sessuale degradato.”

Come a dire: generalmente l’uomo non desidera eroticamente e sessualmente la donna che ama, alla quale è legato (coniugato) da un rapporto sentimentale ed affettivo, con la quale ha messo magari al mondo dei figli, mentre è attratto eroticamente e sessualmente dalla donna considerata “puttana”, alla quale non lo unisce un legame particolarmente forte sul piano sentimentale ed affettivo e che magari, in cuor suo, persino disprezza.

A distanza di più di 100 anni, da quando tale affermazione fu fatta, possiamo dire con sufficienti elementi di certezza, sulla base di quanto ci è dato osservare attorno a noi, che il comportamento amoroso dell’uomo, in quello che Freud – non so quanto del tutto a ragione – definiva “il nostro mondo civile”, non è cambiato granché.

Anzi a me sembra che non sussista (e, in effetti, non sia mai esistita) manco la differenza tra la minoranza delle persone colte e le altre di cui parlava Freud.

Penso, infatti, che “l’impotenza psichica” – di cui, a detta del fondatore della psicoanalisi, soffrono la grande maggioranza degli uomini – non dipenda dal loro basso livello culturale, quanto piuttosto dalla loro bassa educazione emotiva e sentimentale.

E che questa è dato riscontrarla sia nei maschi di basso sia in quelli di alto livello culturale.

Aggiungo che, a mio avviso, la disfunzione a cui fa riferimento Freud non è un problema solo degli uomini, ma è un problema che accomuna sia gli uomini che le donne.

Legato, sì, a modelli culturali, ma non nel senso dell’istruzione (che pure in una certa misura lo influenza), ma nel senso dei modelli antropologici che si sono venuti creando nel corso dei secoli, anzi dei millenni.

L’affermazione – quasi ovunque divenuto egemone – del modello patriarcale, col dominio della figura maschile in quasi tutti i contesti sociali, ha portato alla instaurazione di un certo tipo di relazioni maschio/femmina, che si è esplicitato, concretizzato, nell’istituzione (quasi universale) del matrimonio e della famiglia.

In questi due tipi di istituzioni (almeno nel momento in cui sono nati e si sono consolidati) la donna veniva considerata oggetto (munus) fondante di un contratto tra maschi e, in quanto tale, associabile a ciò che è proprietà del maschio.

Questo tipo di organizzazione sociale ha, come è ovvio, fortemente inciso sulla dimensione emotiva, sentimentale ed affettiva della relazione tra il maschio e la femmina ed è, a mio avviso, la prima causa di quella scissione, di cui parla Freud, tra la corrente di tenerezza (su cui si fonda l’amore come philia e agape) e quella sensuale (su cui si fonda l’amore come eros).

Nelle società patriarcali classiche, anzi, la dimensione emotiva, sentimentale ed affettiva non aveva nessuna importanza: i matrimoni venivano combinati dai padri delle rispettive famiglie di origine e i due sposi coinvolti erano i semplici destinatari di un contratto stipulato da altri per loro conto.

Non solo la femmina-sposa era quindi oggetto di una trattativa, ma lo stesso maschio-sposo lo era: l’oggetto del contratto era uno scambio di beni fisici e materiali; l’amore (sia nella sua versione fraterna e agapica che in quella erotica e sensuale) contava praticamente nulla.

Coi tempi moderni, soprattutto a partire dall’Ottocento, col fenomeno culturale passato alla storia col nome di “Romanticismo”, la dimensione emotivo-affettiva cominciò ad acquisire un suo ruolo e una sua importanza nei rapporti tra maschio e femmina.

Continuò a restare, invece, ai margini, quella erotico/ sessuale, che veniva in genere soddisfatta in ambiti diversi dal rapporto istituzionale (quello matrimoniale) o anche dallo stesso rapporto sentimentale non ancora formalizzato, che veniva vissuto generalmente in forme molto idealizzate, se non addirittura del tutto platoniche.

Con la conseguenza che la scissione tra la corrente di tenerezza e quella sensuale di cui parlava Freud continuò a persistere anche nei decenni successivi al primo ‘800 romantico.

Anzi la mia impressione è che essa continui ancora oggi a sussistere, a dispetto di tutte le cosiddette rivoluzioni sessuali nel frattempo intervenute.

E che continuerà a sussistere per molto, molto tempo ancora.

Essa si ricompone (quando si ricompone), in molte situazioni, solo all’inizio del rapporto moroso e solo per una (più o meno) breve fase; poi (più o meno nel breve tempo) ricompare di nuovo nella maggior parte delle relazioni.

Potrà scomparire del tutto, a mio avviso, (ammesso che questo prima o poi accada) solo quando la dinamica proprietaria instauratasi col matrimonio e con la famiglia patriarcale e introiettata oramai profondamente dalla grande maggioranza degli umani, tanto da essere ben presente anche nelle epoche successive, (solo) apparentemente post-patriarcali, sarà definitivamente superata.

Ma credo e temo che per arrivare a questo esito ci vorranno ancora molti decenni, se non addirittura secoli.

Sempre che nel frattempo non intervengano (come ho l’impressione che accadrà, a giudicare dall’attuale evolvere dei costumi sessuali) altre scissioni, di origini e nature diverse da quella denunciata da Freud, ma non meno, se non forse addirittura più, nevrotiche ancora.

© Giovanni Lamagna