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Il sesso fatto e il sesso mostrato o visto.

A me il sesso – lo dico senza alcun falso pudore o ipocrita reticenza – piace non solo farlo, ma anche vederlo fare.

Non capisco, quindi, coloro che definiscono come pornografica ogni manifestazione della sessualità vissuta pubblicamente e non nell’intimità del privato.

Che, quindi, associano ogni manifestazione esplicita della sessualità alla prostituzione (da cui deriva il termine “pornografia”), cioè ad una realtà moralmente riprovevole.

Non capisco, infatti, perché una cosa sarebbe bella e moralmente accettabile da farsi e, invece, brutta o moralmente inaccettabile da mostrarsi o da vedersi.

© Giovanni Lamagna

Amore dato e amore ricambiato

Non mi dispiace certo

che il mio amore venga riconosciuto

e, magari, perfino ricambiato.

Il mio cuore si riempie di allegria,

quando vedo il viso dell’altro/a

che si illumina riconoscente,

grato per una mia parola dolce,

per un mio gesto gentile,

per un’azione buona, altruista, generosa,

da me compiuta.

Non mi piace, però,

ostentare il mio amore,

non mi piace la retorica

che in genere circonda,

come di un’aureola di santità,

la vicenda dell’amore.

Penso che l’amore

debba essere dato con pudore, discrezione,

quasi di nascosto,

seguendo l’antico insegnamento

che ci fu dato tanti secoli fa:

“Non sappia la vostra mano destra

cosa compie la sinistra”.

Non penso che io debba amare

perché l’altro/a riconosca il mio amore

e me ne sia grato.

Penso che l’amore vada dato

perché è giusto ed è bello così,

perché l’amore si nutre di se stesso,

perché l’amore dato ci nutre,

ci realizza,

ci fa diventare quello che dovremmo.

Allora, intendiamoci,

non sono esente dal piacere

del provare l’amore ricambiato.

Anzi, esso mi riempie di gioia.

Ma non cerco questo piacere.

Se arriva, bene.

Se non arriva, va bene lo stesso.

Perché esso è un surplus

rispetto al piacere

che comunque provo,

quando mi riesce di dare

un po’ d’amore,

una briciola di tenerezza.

© Giovanni Lamagna

Sulla performance di Roberto Benigni all’ultimo Festival di Sanremo. Due modi diversi (e, per molti aspetti, opposti) di guardare lo stesso fatto.

Qualche giorno dopo la performance di Roberto Benigni all’ultimo festival di Sanremo ho avuto modo di leggere l’articolo di Luigino Bruni, comparso l’11 febbraio scorso su “Avvenire”, il quotidiano della CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

L’articolo esprime un giudizio sulla apparizione di Benigni, dal quale dissento profondamente. Lo riporto qui sotto integralmente e subito dopo esprimo le mie valutazioni.

Cantico dei cantici. Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)

di Luigino Bruni

Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.

Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi. Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.

Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio. Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).

Una ragazza ‘bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.

Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni. Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova: «Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ‘Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3). Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).

Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.

L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).

La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ‘nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.

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E qui di seguito le mie valutazioni, articolate per punti, seguendo la falsariga dell’articolo di Luigino Bruni.

1.Dico subito che io non sono rimasto deluso dalla performance di Benigni. Anche se non l’ho ascoltata e vista in diretta. Un po’ per l’ora tarda, non conciliabile col mio sonno, un po’ perché da tempo non nutro nei confronti di Roberto Benigni grandi aspettative.

Ritengo infatti che Roberto Benigni, uomo di spettacolo, abbia dato il meglio di sé quando ha fatto il comico. E’ scaduto, invece, almeno ai miei occhi, quando ha voluto mettersi a fare il poeta, ancora di più quando ha assunto i toni del retore, quasi del predicatore.

Nell’ultimo Sanremo l’attore toscano è stato ancora una volta enfatico, retorico e ridondante, ma almeno è uscito fuori dai canoni del prevedibile e del conformismo, nei quali invece si era spesso ridotto negli ultimi anni. Sono andato a vedermi la sua performance su Raiplay, dopo aver letto i commenti del giorno dopo e soprattutto quello di Luigino Bruni, che provo qui a chiosare.

  1. Sono d’accordo con Bruni, che il corpo delle donne è stato per millenni (e ancora oggi lo è) oggetto di potere, violenza, sfruttamento da parte del maschio. E che quindi noi maschi per parlarne dovremmo usare mille precauzioni e prudenze.

E’ pur vero, però, che ciò non deve sfociare nell’inibizione o, peggio ancora, nel bigottismo. Che ci fanno vedere il brutto e il peccato e, quindi, gridare allo scandalo, appena si parla di corpi e di eros. Eros che (sia detto per inciso) è ben altra cosa dal semplice sesso.

Faccio notare qui che Benigni nella sua performance sanremese non ha nominato solo il corpo della donna e le sue parti intime, ma anche quello del maschio e le sue parti intime.

Ha inteso parlare poi precipuamente dell’eros e non dell’amore in generale o di altre forme di amore (filia, agape…). E l’eros non lo si può neanche nominare, se non si fa riferimento ai corpi, alle sensazioni, ai sentimenti e a tutto ciò che si prova nell’atto sessuale.

Ovviamente dipende da come se ne parla. Se ne può parlare in modo volgare, con riferimento alla pura e sola anatomia: e qui sta la pornografia. O se ne può parlare con stile, delicatezza, tatto e con riferimento alle emozioni e ai sentimenti, in altre parole all’amore: e qui sta l’erotismo. A me pare con tutta evidenza che Benigni ne abbia parlato nel secondo modo. Quindi non vedo dove poggi la critica del Bruni.

  1. Capisco l’imbarazzo e il disagio che possono aver provocato le parole di Benigni, non mi riesce difficile comprenderne le ragioni e motivazioni. E però non le condivido.

C’è un pudore che non sento in me: è quello che ci fa sentire scabroso anche solo il nominare certe parole, come se esse fossero qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascoste per la loro stessa natura.

Non a caso le parti intime dei nostri corpi (in altre parole i nostri organi sessuali) sono state definite per secoli “pudenda”, cioè organi di cui avere vergogna, dal verbo latino “pudeo” (“vergognarsi, arrossire di vergogna”).

Credo che l’intervento di Benigni abbia voluto (e, a mio avviso, avuto il merito) di portare alla luce ciò che si tende a nascondere, di “nominare” esplicitamente ciò che si tende a tacere o nominare solo per metafore, a decontaminare e rendere innocente ciò che si tende a ritenere in qualche modo colpevole, se non peccaminoso, o quantomeno non del tutto puro (ancora oggi, nonostante l’apparente evoluzione e disinibizione dei costumi sessuali).

  1. Ha molto probabilmente ragione il professor Bruni ad affermare che le donne, la maggior parte delle donne, dell’epoca in cui fu scritto il “Cantico dei cantici” non conoscevano affatto l’eros come vi viene lì descritto. Perché erano “… donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate”.

E, però, forse proprio per questo il Cantico dei cantici è un testo profetico, perché come tutti i testi profetici si situa fuori dal tempo in cui è stato scritto, anticipa i tempi che verranno, libera il tempo presente dai pregiudizi e dai tabù, di cui il tempo storico è prigioniero. Perfino quello attuale. Se la sua lettura (non solo quella presunta integrale fatta da Benigni, ma anche quella che ha l’imprimatur della CEI) ancora oggi genera imbarazzo e disagio, se non proprio scandalo.

  1. E’ vero, molto vero, che l’eros, il desiderio erotico, si nutrono “di mancanza, di assenza, di limite”. E’ un concetto questo su cui batte continuamente e da anni anche Massimo Recalcati, che su questi argomenti ha detto e scritto parole memorabili.

E però non vedo dove stia la contraddizione tra questo modo di intendere l’eros e il “gioco” (inteso come dinamica relazionale – vedi Erich Berne- e non frivolo passatempo) o la “ricerca del piacere” (perché questa ricerca sarebbe “sterile”, come la definisce Bruni, e non legittima aspirazione dell’essere umano?)

  1. Anch’io non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna: effettivamente sarebbe stato pretendere troppo per l’epoca in cui il Cantico fu scritto. E però questo significa una cosa niente affatto positiva, ma semmai negativa: significa che le donne sono vissute per secoli, anzi per millenni, sotto il peso dell’oppressione maschile, che le voleva (e ancora oggi in gran parte le vuole) oggetto del desiderio e, magari, della lussuria (“l’amante”, “la prostituta”) e, allo stesso tempo, inibite e iper-pudiche (“la madonna”, “la madre”).
  2. Non sono, infine, d’accordo che “quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro”. Non sono d’accordo: perché dipende – come ho già detto prima – da come se ne parla; se ne può parlare in maniera “volgare” ed è una cosa; se ne può parlare in maniera “colta”, per quanto esplicita, ed è un’altra cosa. A me pare che Benigni ne abbia parlato nella seconda maniera.

Ancora: non sono d’accordo che “La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento”.

Forse Luigino Bruni voleva dire che la Chiesa (non la Bibbia) ha sempre letto il Cantico dei cantici in maniera allegorica.

E, però, qui io condivido in pieno la critica (tutto sommato abbastanza garbata) che Benigni fa alla Chiesa, la quale con la sua sessuofobia (chiamiamo pure le cose col loro nome!) preferiva leggere quell’antico canto in maniera allegorica e non letterale, esattamente e con l’intento di negare o rimuovere l’eros, non certo per salvarlo. E qui, proprio qui, sta a mio avviso la positività (e, forse, persino la grandezza) della performance di Benigni.

Ancora, non sono d’accordo sul fatto che leggere il Cantico “senza ideologie e manipolazioni” porta a fare non “un’esperienza erotica”, ma “una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica”.

Questo sarebbe vero se esperienza erotica ed esperienza poetica, spirituale e persino mistica fossero esperienze radicalmente diverse o, addirittura, incompatibili. Come – debbo dedurre – ritiene Luigino Bruni.

Io, invece, penso che l’erotismo possa andare benissimo d’accordo con la poesia, con la spiritualità e, perfino, col misticismo. Anzi tanto più è forte l’erotismo, quanto più è poetico, spirituale e, perfino, mistico.

Così come la poesia, l’esperienza spirituale e, perfino, quella mistica sono tanto più sane e autentiche nella misura in cui sono anche erotiche, vanno in accordo con l’eros e non lo rimuovono, né tanto meno lo demonizzano.

  1. La poesia è stata la grande assente dalla lettura di Benigni? Dipende da cosa si intende per poesia o per arte. Se fosse vero quello che afferma Luigino Bruni, dovremmo allora giudicare non poetiche molte delle poesie di Pablo Neruda (per non parlare delle novelle del “Decamerone” di Boccaccio) o non artistiche molte delle opere scultoree o pittoriche di autori antichi e moderni, oltre che contemporanei, che hanno esposto il corpo delle donne (e non solo delle donne, anche quello dei maschi: pensiamo a Michelangelo) in tutte le forme e maniere.

Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience.”: su questo sono pienamente d’accordo con Luigino Bruni. Il che non mi porta però a dire (come, invece, fa lui), con un eccesso opposto e speculare, che, per non mercificare il corpo delle donne, allora non bisogna parlare di sesso o che bisogna parlarne il meno possibile.

Io credo (e per concludere) che parlare di eros e di sesso, non solo nell’intimità del rapporto a due, ma pubblicamente, perfino su un palco, nel corso di uno spettacolo, sia pienamente legittimo.

Dipende ovviamente da come se ne parla. A me sembra, però, che Roberto Benigni nella sua performance all’ultimo Sanremo ne abbia parlato in maniera (almeno dal mio punto di vista) esemplare.

Giovanni Lamagna

Due modi (opposti) di vivere il piacere.

Ci sono due modi – molto diversi, potremmo anche dire opposti – di vivere il piacere.

Il primo è il modo aggressivo, violento, predatorio, veloce di vivere il piacere. Fatto di un mordi e fuggi. Come se fosse incapace di reggere per troppo tempo la tensione, l’adrenalina, che sempre sono connesse alle situazioni di piacere.

E’ l’atteggiamento di chi è attratto, come è ovvio, dal piacere, ma, allo stesso tempo, ne è turbato. Vive quindi nei confronti del piacere un sentimento ambivalente e contraddittorio.

Per costui/costei il piacere, quindi, deve essere breve, veloce. Intenso, ma non troppo prolungato. Il godimento deve accompagnarsi ben presto al momento della sua risoluzione, con relativa latenza del desiderio.

Un piacere troppo esteso o prolungato è quindi vissuto con imbarazzo, se non addirittura con disgusto. In questo caso il desiderio può trasformarsi nel suo opposto: in un sentimento di fuga dal piacere, di rifiuto delle sensazioni ad esso collegate. Che non sono manco più piacevoli, ma diventano (soggettivamente, ma molto realmente) sgradevoli.

In questo caso il piacere si accompagna sempre a un più o meno latente senso di colpa, che si manifesta o attraverso un senso del pudore eccessivo a attraverso una vera e propria vergogna del proprio agire.

Chi vive il piacere in questo modo alterna spesso momenti di euforia e di eccitazione a momenti di stanca malinconia, se non di conclamata depressione.

Chi vive il piacere in questo modo si accompagna anche a persone diverse a seconda del modo di vivere il piacere. Frequenta alternativamente persone che lo aiutano a vivere il piacere e altre che lo immalinconiscono o addirittura lo buttano in depressione.

Le seconde gli servono a bilanciare le prime. Come se frequentare solo le prime fosse troppo. Costasse sensi (innaturali e illogici, eppure ben reali) di colpa. E quindi abbisognasse di pagare pedaggio ai momenti di piacere. Come se frequentare le une e le altre servisse a trovare uno strano e paradossale equilibrio, utile a gestire sia il piacere che i sensi di colpa.

Ovviamente chi vive il piacere in questo modo non potrà mai crescere nei suoi livelli di piacere. Dovrà sempre accontentarsi di una certa soglia di piacere, oltre la quale non potrà mai andare.

C’è poi un altro modo di vivere il piacere, che si distingue dal primo fondamentalmente perché, al contrario del primo, è vissuto senza significativi sensi di colpa. Oppure è in grado di riconoscere i sensi di colpa connessi al piacere che si sta vivendo e li sa gestire, controllare e, infine, superare.

E’ in grado, quindi, di viversi il piacere senza significative contraddizioni. E’ perciò capace di viverlo in maniera prolungata e distesa senza eccessive e avide voracità, ma anche senza inutili e “sprucide” avarizie.

E’ capace di avventurarsi in nuovi territori dello stesso piacere, senza troppe angosce, ma anzi col gusto dell’esplorazione e della sperimentazione, se non della vera e propria trasgressione.

E’ capace di sfidare perfino le convenzioni sociali, i tabù consolidati nel pensiero comune, quando si rende conto, diventa consapevole che il piacere desiderato non fa danni a nessuno, anzi procura maggiore benessere a se stesso e a colui/colei/coloro con cui esso viene condiviso.

Chi vive il piacere in questo modo ha un buon rapporto con il suo inconscio e , quindi, con le sue pulsioni libidiche. Ha ridotto al minimo l’influenza del Super Ego e tiene conto, nel porre limite ai suoi desideri, solo del principio (ovviamente fondamentale) della realtà.

Soffre di rado di sbalzi di umore. Vive una situazione stabilizzata e placida di benessere psicofisico, che ogni tanto viene piacevolmente “turbata” da picchi di godimento, ma non sprofonda mai (o quasi mai) negli abissi del dispiacere e della malinconia. Non sa manco cosa sia la depressione.

Tende a frequentare persone che come lui/lei sono altrettanto gaudenti, nel senso che vivono un rapporto positivo col piacere. E ad evitare, al contrario, le persone che hanno un rapporto complicato col piacere. A maggior ragione si tiene lontano da quelle che propendono verso il masochismo.

Giovanni Lamagna

Dio, gli uomini, il senso della nudità. (Genesi 3, 21 – 3, 24)

29 ottobre 2015

Dio, gli uomini, il senso della nudità. (Genesi 3, 21 – 3, 24)

3,21 Dio il SIGNORE fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì.

3,22 Poi Dio il SIGNORE disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre».

3,23 Perciò Dio il SIGNORE mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto.

3,24 Così egli scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.

Dopo aver condannato Adamo e sua moglie Eva e averli cacciati dall’Eden, la prima preoccupazione del Signore Dio è quella di vestirli, di coprire le loro nudità.

In questo caso il pudore, la vergogna per la nudità, non è degli uomini che si scoprono nudi, ma di Dio stesso, che non sopporta di vederli nudi.

C’è qualcosa evidentemente nella nudità degli uomini che spaventa Dio. E, infatti, Egli dice: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre.

Questo ci dice che c’è un evidente nesso tra la nudità e la conoscenza del bene e del male e, perfino, tra la nudità e l’albero della vita, il cui frutto può dare l’eternità. Dio ha paura che l’uomo gli rubi il mestiere, che diventi come lui.

Già mangiando dall’albero della conoscenza si è appropriato di una delle sue facoltà principali: quella di discernere il bene dal male.

Adesso c’è il rischio che mangiando dall’altro albero, quello della vita, si appropri dell’altra facoltà divina, quella dell’immortalità. E Dio questo non può permetterlo. Per questo lo copre, nel senso che gli dà il pudore, il senso della vergogna, per aver osato sfidare il potere di Dio.

Ma da questo momento in poi il destino dell’uomo è implicitamente segnato: egli dovrà liberarsi anche di questa seconda paura e della vergogna ad essa collegata. Dovrà sfidare Dio anche su questo secondo terreno. Dovrà tornare insomma alla sua nudità, cioè alla sua innocenza, iniziale. Dovrà affrontare i suoi sensi di colpa e superarli.

Anche se sulla sua strada incontrerà i cherubini, che con le loro spade fiammeggianti cercheranno di impedirgli l’accesso all’albero della vita.

Chi sono i cherubini? Sono angeli, cioè entità puramente spirituali, le più simili a Dio. Quindi alleati di Dio contro l’uomo.

L’uomo nella sua lotta contro gli angeli dovrà appropriarsi della sua natura divina, cioè spirituale, ma, al contrario degli angeli, senza negare la sua natura animale, materiale, corporea, che è simboleggiata (appunto) dalla sua nudità.

L’uomo insomma dovrà riappropriarsi della sua nudità, se vorrà trovare la sua piena umanità, che non è puramente spirituale, ma è fatta di spirito e carne, allo stesso livello, con pari dignità, senza nessun primato dell’uno sull’altra o viceversa.

L’uomo, in altre parole, dovrà diventare come Dio (cioè un essere pienamente spirituale), pur continuando a restare pienamente uomo ( cioè un essere materiale, corporeo).

(14, fine)

Giovanni Lamagna

Tre tipi di approccio al sesso.

22 aprile 2015
Tre tipi di approccio al sesso.
Ci sono tre tipi di rapporto col sesso.
Il primo è quello di chi considera il sesso una cosa schifosa e ne fa del tutto a meno. O quello di chi ne ha vergogna e cerca di evitarlo o farlo il meno possibile. Non solo non ne prova piacere, ma ne ha addirittura fastidio e, in certi casi, perfino ripugnanza.
Si tratta di una situazione estrema ed oggi ridotta a pochi e rari casi. Ma comunque di una situazione ancora oggi esistente, nella quale è possibile riconoscere persone (poche magari) a noi vicine o persone di cui abbiamo o abbiamo avuto conoscenza.
Il secondo è quello di chi ha piacere a vivere il sesso, ma non osa dirlo fino in fondo, manco a se stesso, come se avesse una qualche ritrosia a dire “Il sesso mi piace!”, un qualche pudore (in altre parole: vergogna).
E’ la situazione di chi pratica il sesso, anche con una buona frequenza e costanza, ma quasi come una realtà separata dal resto della propria vita, di cui si parla con qualche ritegno e molta riservatezza, che non si vuole, insomma, dare troppo a vedere. Il sesso deve rimanere una realtà recondita, nascosta. Fa parte della pura privacy, quella che si definisce “intimità”.
E’ la situazione di chi, per fare sesso, (io dico) ha bisogno di tenere gli occhi chiusi. Metaforicamente. Ma, spesso, anche materialmente. Perché in qualche misura ne prova vergogna. Vergogna mascherata da (e presentata) come senso del pudore.
E’ la situazione di chi per fare sesso ha bisogno di essere un po’ brillo, quasi in una situazione di trance, al limite tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, tra la veglia e il sonno.
Per questo secondo tipo di persone il sesso, in genere, deve essere una cosa mordi e fuggi. Se non proprio una sveltina, manco una cosa che duri troppo a lungo. Altrimenti diventa difficile reggerne la tensione emotiva, legata al senso di colpa.
Per questo tipo di persone in genere la nudità è un problema; si preferisce fare sesso scoprendosi il meno possibile.
Per questo tipo di persone nel sesso prevale nettamente la dimensione affettiva e sentimentale su quella fisica ed erotica. Per queste persone il sesso deve rassicurare più che scuotere, confermare più che turbare.
Esiste, infine, il terzo tipo di rapporto col sesso: quello di chi non solo non ha paura del sesso e non lo trova ripugnante; quello di chi non solo lo trova piacevole ma ha qualche ritrosia a parlarne, come se si trattasse di una realtà in qualche misura comunque scabrosa; ma quello di chi considera il sesso una dimensione centrale della propria vita, allo stesso livello di quella emotiva, di quella sentimentale, di quella affettiva, di quella intellettuale. Non semplicemente funzionale (e quindi subordinata) a queste.
E’ il rapporto di chi trova nel sesso una dimensione unica per conoscere se stesso e l’altro. E, quindi, non solo lo vive senza alcun imbarazzo, ma ha desiderio di raccontarlo, rivelarlo, manifestarlo nel suo agire quotidiano, nei suoi gesti ordinari di ogni momento. Non come forma di (sguaiato) esibizionismo, ma come naturale manifestazione di un suo modo naturale, complessivo e profondo di essere e, quindi, anche di apparire.
E’ il rapporto di chi è erotico non solo a letto, quando fa all’amore col suo partner, ma lo è sempre, in ogni momento della sua vita. E non solo non se ne vergogna, ma ne è fiero (potremmo dire “gay”), perché si sente, in questo suo modo di essere, una persona unificata e perciò liberata.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in maniera privilegiata in contatto con la propria natura animale. E non solo non si vuole sottrarre a questo contatto, ma lo ricerca, come occasione unica e speciale di crescita psicologica e, quindi, umana.
E’ il rapporto di chi attraverso il sesso entra in contatto con la propria natura perversa e polimorfa (come Freud definiva la sessualità umana).
Perversa non nel senso usuale, deteriore e negativo, del termine. Ma perversa nel senso che non si limita a vedere nel sesso un atto puramente procreativo (come ha previsto la natura), ma una forma di linguaggio (del tutto speciale), quindi figlio e generatore di cultura.
Polimorfa perché, proprio dal momento che il sesso è una forma di linguaggio, esso non si realizza in una sola lingua, non usa una sola ortografia, una sola grammatica e una sola sintassi, ma può realizzarsi nelle forme più varie.
Ad una sola condizione: che il linguaggio che io voglio usare sia compreso e condiviso dall’altro/a. Che ci sia alleanza, complicità con l’altro/a.
Il sesso è un linguaggio del tutto particolare, che ci consente, più e meglio della parola parlata, di scendere negli abissi della nostra natura più oscura e quindi di fare luce sulle nostre ombre più inconfessabili.
Per chi lo intende in questo modo il sesso è un’avventura speciale, ogni volta trasgressiva, perché ogni volta alla ricerca del superamento del limite, del confine già raggiunto.
In questo senso il sesso è una forma di conoscenza e di ascesi, che ha a che fare con la crescita spirituale. Gli orientali da questo punto di vista hanno molte cose da insegnare a noi occidentali.
Per questo considero la pratica tantrica la massima espressione della religiosità umana. Perché è quella che più di altre è stata capace di coniugare e conciliare gli (apparenti) opposti: corpo e anima, sesso e spiritualità, amore e trasgressione, fedeltà e infedeltà, desiderio e oblatività, egoismo e altruismo, aggressività e donazione, gioco e impegno.
Laddove, invece, molte forme di religiosità, anzi la maggior parte di esse, vivono, fondano la loro teoria (teologia) e la loro pratica (ascesi) proprio sull’affermazione della inconciliabilità di questi “opposti”. Di cui alcuni rappresentano (per loro) il bene e altri il male, alcuni le virtù e altri il peccato, alcuni la salvazione e altri la perdizione.
La spiritualità tantrica ci insegna (o, meglio, può insegnarci) che non esiste peccato, non esiste dannazione, laddove c’è un desiderio, laddove un desiderio incontra il desiderio di un altro. Che anzi il vero peccato, la vera dannazione stanno – direbbe Lacan – nella rinuncia al proprio desiderio.
Giovanni Lamagna