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Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.

Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.

Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.

Cosa dice, dunque, Jung?

Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.

1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).

Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).

Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)

Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).

2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)

Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.

Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).

Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.

Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)

“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)

Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.

3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)

Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.

È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.

La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.

È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.

Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.

Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.

Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Lo snodo decisivo di ogni psicoterapia.

È il movimento che accade in ogni analisi: il soggetto incontra una verità che rifiutava accanitamente, pur dichiarando di averla voluta ricercare con tutte le sue forze. Questa verità coincide con il peggio di noi stessi.” (Massimo Recalcati; “Il segreto del figlio”; Feltrinelli 2017; p.53)

Io mi permetto di aggiungere: questa verità/rivelazione può essere talmente luminosa, solare, abbagliante, da accecare; da costituire quindi un trauma simile, pari per intensità, a quello da cui era derivata la rimozione della verità, che aveva poi provocato la nevrosi.

Tanto è vero che l’analisi, giunta a questo punto, può impantanarsi.

Perché da un lato il soggetto vuole sapere, in quanto inconsciamente coglie che, se non scopre la verità su sé stesso, egli non sarà mai libero (“…la verità vi farà liberi”; Vangelo di Giovanni 8, 32).

Dall’altro ha la sensazione che la scoperta della verità può essere talmente traumatica per lui da sommergerlo, da provocargli un tracollo psicotico peggiore della nevrosi da cui voleva guarire.

In questo snodo l’analisi gioca il suo esito, che non può mai essere dato per scontato quando inizia un percorso terapeutico.

Questo esito sarà positivo, evolutivo, progressivo, se il paziente sarà in grado di affrontare e reggere il peso della verità su sé stesso.

Sarà negativo, involutivo e regressivo, se il paziente non avrà il coraggio e la forza di reggerlo e vi si sottrarrà, preferendo continuare a coltivare illusioni su sé stesso.

© Giovanni Lamagna

L’omosessualità e il concetto di “normalità”.

Esistono, a mio avviso, tre modi di considerare il concetto di “normalità”, quando parliamo di essere umano: il primo assume a criterio di riferimento la cosiddetta “statistica”, il secondo la “funzionalità oggettiva” e il terzo “la felicità soggettiva”.

Cercherò di spiegare qui di seguito quale significato hanno per me questi tre approcci al concetto di “normalità”, prendendo a pretesto una situazione, una condizione umana, che, ancora oggi, è molto al centro del dibattito relativamente a ciò che è (o sarebbe) normale e ciò che non lo è (o non lo sarebbe): l’omosessualità.

1.Se valutiamo l’omosessualità dal punto di vista statistico essa è oggettivamente fuori della norma: la maggioranza degli esseri umani, infatti, nasce e si comporta da eterosessuale; solo una minoranza è omosessuale.

Qui non si tratta affatto di concordare con le “analisi” e i giudizi, espressi addirittura in un libro, da un generale dell’esercito italiano che è assurto di recente agli onori della cronaca: si tratta di prendere semplicemente atto di un dato di realtà.

Credo che questo dato anche gli omosessuali lo possano e lo debbano riconoscere: è un puro dato numerico, che in sé non contiene (o non dovrebbe per me contenere) alcun giudizio di valore.

Che importanza ha, infatti, sul piano sociale, delle relazioni umane questo dato? Nessuna, assolutamente nessuna!

Soprattutto per chi ritiene che un principio basico e sacro delle democrazie debba essere il rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze.

Ovviamente chi non ritiene che le maggioranze debbano rispetto alle minoranze si sente in diritto di disprezzarle e, al limite, anche vessarle; e quindi disprezzerà e, al limite, vesserà anche le minoranze LGBT.

Ma in questo modo si metterà, senza alcun dubbio, fuori dall’ambito democratico: anche questo è un dato oggettivo.

È grave, quindi, molto grave, che un generale, il quale ha dovuto giurare sulla Costituzione per svolgere il suo ruolo, tragga da un semplice dato statistico, anche se oggettivo, pretesto per esprimere giudizi che offendono gravemente la dignità di alcune minoranze del nostro Paese, anzi del genere umano, da sempre esistite e che sempre esisteranno.

D’altra parte a voler essere conseguenti col principio statistico dovremmo dire che anche i geni sono anormali, perché neanche i geni rientrano nel livello normale, cioè medio, del Q. I. (Quoziente Intellettuale): si situano, infatti, ad un livello superiore.

Ma non per questo la maggioranza disprezza i geni e meno che mai li vessa o persegue. Anzi!

2. Esiste poi un secondo approccio al concetto di “normalità”, che si misura rispetto alla “funzione”, che ha (o dovrebbe avere) un determinato organo e perfino un individuo.

Da questo punto di vista, nel momento in cui si riconosce che una funzione (ma non l’unica) della sessualità è quella procreativa, ne consegue che all’atto omosessuale è negata per natura – e non solo per scelta – questa funzione.

Per natura, nel senso che due omosessuali, anche se lo volessero, non possono procreare nel momento in cui si congiungono sessualmente.

Al contrario di due eterosessuali che possono congiungersi sessualmente e fare in modo – per scelta (con opportuni metodi e strumenti) – che il loro atto non abbia (almeno in quel caso) un esito procreativo.

Anche questa è una realtà oggettiva, che non può essere negata da nessuno; manco (a meno che non vogliano negare l’evidenza) dagli omosessuali.

E, però, anche questo dato di realtà oggettiva cosa toglie alla dignità umana, esistenziale di un omosessuale? Cosa lo renderebbe meno degno (o, addirittura, non degno) di rispetto?

A me sembra, nulla, assolutamente nulla!

La sua scelta, infatti, è in tutto simile da questo punto di vista a quella di un eterosessuale, che rinuncia ad avere dei figli.

Semmai gli si potrebbe obiettare: non sai cosa ti perdi! È questa l’unica obiezione che gli si può fare.

Ma la stessa obiezione può essere fatta – appunto! – anche ad un eterosessuale che rinuncia, per sua libera scelta e non per impedimento fisiologico, ad avere dei figli.

3. Esiste, infine, un concetto di “normalità” che si misura in base al livello di felicità o di benessere soggettivi di una determinata persona.

Da questo punto di vista è del tutto evidente, è sotto gli occhi di tutti, che abbiamo omosessuali felici e omosessuali infelici, esattamente come abbiamo eterosessuali felici e eterosessuali infelici.

Abbiamo, anzi, omosessuali che sono molto più felici ed hanno raggiunto livelli di benessere psico-fisico e, perfino, spirituale di gran lunga superiori a quelli di tanti eterosessuali.

In questo caso allora è lecita, anzi viene spontanea la domanda: chi è più “normale”? l’eterosessuale infelice, depresso, ripiegato su sé stesso o nel migliore dei casi, triste e malinconico? oppure l’omosessuale felice o, quantomeno, gaio, allegro, aperto e socievole cogli altri?

Come si vede, il concetto di “normalità” può essere visto ed esaminato da svariati punti di vista; io ne ho colti tre, ma forse ce ne sono anche altri che potrebbero essere considerati e analizzati.

E da nessuno di essi riceve giustificazione e legittimità l’atteggiamento ostile, spregiativo, in una parola “omofobo”, che ancora oggi caratterizza il comportamento di molti individui nei confronti degli omosessuali e delle minoranze LGBT in generale.

© Giovanni Lamagna

Destino e psicoterapia.

Non credo che l’analisi serva a cambiare il destino, come afferma lo psicoanalista junghiano Paolo Ranzato.

Credo che serva piuttosto a prendere coscienza di qual è il nostro destino e a metterci nelle condizioni migliori per realizzarlo.

Nessuno può sfuggire al proprio destino.

Tutt’al più può sfuggire a quello che riteneva (ingannandosi) essere il proprio destino.

Su questo inganno, per smascherarlo, può lavorare una psicoterapia.

Ma una psicoterapia non può certo cambiare il destino di una persona.

© Giovanni Lamagna

Alcuni vanno in analisi…

Alcuni vanno in analisi per darsi l’illusione di stare ad affrontare i propri problemi.

Mentre, in realtà, non hanno nessuna intenzione di farlo.

Vogliono semplicemente tergiversare, girare attorno ad essi, senza mai afferrare il toro per le corna.

Il peggio è che alcuni analisti danno man forte a questo inganno, lo incentivano.

E, per giunta, si fanno pagare.

Anche molto salato.

© Giovanni Lamagna

Il problema riguarda SOLO gli uomini?

Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:

“La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici. Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.

Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo. È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”

Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende.

A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.

Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome.

L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.

I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto di primo acchito può sembrare tale.

Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.

Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.

Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice.

Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.

Non ha senso, quindi, dire (come fa Gramellini in maniera così perentoria e, a mio avviso, un po’ semplicistica, così noi maschi ci facciamo belli con le donne) che il problema è SOLO degli uomini; ovviamente degli ALTRI uomini, perché noi (che scriviamo) siamo diversi, non abbiamo nulla a che fare con i mostri.

Il problema, invece, come sempre in questi casi, è un problema che riguarda le relazioni e le relazioni spesso sono malate, anche quelle che non finiscono in maniera così tragica; occorre prenderne atto.

E, quando sono malate, non lo sono mai solo per responsabilità di uno/a.

Quando le relazioni sono malate le responsabilità sono sempre (in qualche misura; non sto dicendo certo che lo sono – sempre – al 50% e al 50%) di entrambe le persone coinvolte nella relazione.

In questo discorso (il mio può sembrare freddo e, quindi, cinico) non ci devono fare velo la (persino) ovvia, naturale, giusta, sacrosanta pietà che proviamo (e dobbiamo provare) per la vittima; e lo sdegno, il senso di rivolta morale che di conseguenza proviamo verso l’assassino.

Altrimenti rischiamo di cadere nella retorica, che è dannosa non solo perché non ci fa vedere le cose per quelle che sono, ma tende a rimuovere i mostri che sono in ognuno di noi; anche se l’intenzione vorrebbe essere tutt’altra.

© Giovanni Lamagna

La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?

Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).

E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.

Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.

Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.

Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.

Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.

Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.

Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.

Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.

Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.

E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.

“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.

“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.

“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.

Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.

Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.

Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).

Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.

© Giovanni Lamagna