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Valore in sé e riconoscimento sociale.

Le persone hanno un valore in sé e un valore che attribuisce loro la società.

Sono due valori completamente distinti, non poche volte divergenti.

Il primo è legato alle qualità che la persona possiede: bellezza fisica, simpatia caratteriale, sensibilità, equilibrio, saggezza, intelligenza, onestà, coerenza, generosità, altruismo, coraggio, spirito di ricerca… e chi più ne ha più ne metta.

Tali qualità definiscono oggettivamente la statura morale, intellettuale, spirituale, umana di una persona; a prescindere dal suo ruolo sociale.

Il secondo valore, invece, è legato al prestigio sociale che una persona è riuscita a conquistarsi, cioè al livello di riconoscimento sociale ottenuto, potremmo anche dire al grado di successo conquistato.

In genere questo valore è molto legato al mestiere o alla professione svolta dalla persona e, quindi, al ruolo sociale che da quel mestiere o da quella professione consegue.

Ci sono persone nelle quali valore in sé e valore sociale più o meno coincidono e si pareggiano.

Altre per le quali il riconoscimento, il valore e il ruolo sociale sopravanzano (a volte di gran lunga) il loro valore umano: sono parecchie.

Altre, infine, il cui valore in sé supera (e a volte di gran lunga) il valore e il ruolo che riconosce loro la società: sono pochine.

© Giovanni Lamagna

Il mio antidoto alla frenesia e al logorio della vita moderna.

Vedo, constato, che, in questa nostra epoca nella quale la velocità è diventata un valore principe, la grande maggioranza delle persone corre, si affanna, fa le cose senza un attimo di tregua, senza mai tirare il fiato.

Come presa da un ingranaggio al quale non riesce a sottrarsi, ma che anzi forse le piace perfino assecondare, in certi casi addirittura autolesionisticamente e, quindi, masochisticamente.

Io, invece, a differenza di questa maggioranza, amo stare il più possibile fermo, seduto, a pensare, a riflettere, a meditare, a contemplare, a connettermi con la parte di me più intima e nascosta, con il mio io profondo.

È questo il mio status fondamentale, stavo quasi per dire il mio lavoro odierno, specie da quando sono andato in pensione e non vado più a lavorare.

L’ho scelto e lo preferisco anche a costo di apparire (anzi, essere) un po’ lento, se non proprio passivo, nelle mie reazioni agli stimoli esterni o eccessivamente statico, inattivo.

E, forse, questo mio atteggiamento, ne sono consapevole, può indurre reazioni negative nei miei confronti da parte di alcuni, che possono giudicarlo persino indolente, pigro.

Eppure niente e nessuno riesce a smuovermi, a distogliermi da questa mia postura fondamentale.

Quasi mi fossi assegnato un compito: quello di andare contro corrente, di compensare con una loro aggiunta, un loro surplus, un loro eccesso, la carenza di lettura-meditazione-contemplazione, direi addirittura di anima, di spiritualità, che a me sembra caratterizzare il muoversi frenetico, in certi casi e momenti addirittura caotico e agitato, della maggior parte dei miei simili.

Cosa è, infatti, l’agire senza il necessario distacco e, quindi, senza una quota parte di pensiero, di riflessione, di meditazione, se non un inutile e a volte persino sciocco girare a vuoto?

Non che sia tale o che giudichi tale la maggior parte delle azioni degli uomini che mi circondano; non arrivo a pensare questo; anche se talvolta, anzi in molti casi – devo confessarlo – tale pensiero mi sfiora.

È che, forse, a mio giudizio, un po’ più di riflessione prima di agire, prima di tradurre un impulso istintivo o puramente emotivo in azione, non farebbe male; anzi!

È a questa carenza, a questa deficienza di consapevolezza, che ritengo voglia (lo ammetto: forse presuntuosamente), quasi per un istinto o per un riflesso condizionato uguale e contrario, sopperire il mio non-agire, il mio “stare fermo”.

Che, forse, per altri aspetti, non lo nego, arriva ad essere anch’esso negativo, per motivi opposti, soprattutto quando eccede, quando supera un certo livello.

Come se esso (forse mi illudo in questo) potesse essere il necessario o, quantomeno, utile bilanciamento di altri eccessi; quelli che vedo prevalere attorno a me.

© Giovanni Lamagna

Riflessione a margine della lettura di Schopenauer (1)

Il livello della nostra felicità o infelicità dipende molto da quello delle nostre pretese e ambizioni: più le nostre pretese e ambizioni sono alte, più corriamo il rischio di vivere situazioni di infelicità; meno sono alte e meno corriamo tale rischio.

Questo non significa che allora dobbiamo necessariamente abbassare il livello delle nostre pretese e ambizioni.

Significa solo che dobbiamo essere consapevoli del rischio che corriamo, se ci poniamo obiettivi di vita molto elevati.

Poi possiamo benissimo fare questa scelta e andare incontro alle maggiori sofferenze che essa comporta, se non vogliamo accontentarci di vivere la mediocre condizione di vita (né troppo felice, né troppo infelice) della gente comune, della massa.

© Giovanni Lamagna