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Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio.

Il desiderio è un’esperienza umana ben diversa dal capriccio.

Il capriccio è un’esperienza del tutto narcisistica, incapace di confrontarsi con l’esistenza dell’Altro e con la durezza della Realtà.

Prescinde, quindi, dal freudiano “principio di realtà”, mira a forzare, se non a rimuovere del tutto, la realtà.

Il desiderio, invece, è un’esperienza dell’anima che, a partire da un moto fisico, emotivo o intellettuale del singolo individuo, si accorda però con i moti degli altri singoli individui e, soprattutto, con la realtà.

Dalla quale non sempre riceve accoglienza immediata; e, infatti, alle volte il desiderio deve fare piccole o grandi forzature sulla realtà, per potersi realizzare.

Ma non è mai totalmente sganciato dalla realtà, totalmente estraneo ed ostile ad essa, come lo è invece il capriccio.

Il desiderio è sempre parte della Realtà, non è mai fuori della realtà, con i suoi limiti, i suoi divieti e le sue imposizioni; è sempre realistico, anche quando tende a forzare consuetudini e status quo.

In questo senso il desiderio non è mai solo la realizzazione di un moto che nasce all’interno del nostro animo.

Ma è anche in qualche modo la risposta ad una chiamata che ci viene dall’esterno, la realizzazione di un compito, come lo intendeva Victor Frankl.

O addirittura la realizzazione di un dovere, come la pensava Jacques Lacan.

© Giovanni Lamagna

L’omosessualità e il concetto di “normalità”.

Esistono, a mio avviso, tre modi di considerare il concetto di “normalità”, quando parliamo di essere umano: il primo assume a criterio di riferimento la cosiddetta “statistica”, il secondo la “funzionalità oggettiva” e il terzo “la felicità soggettiva”.

Cercherò di spiegare qui di seguito quale significato hanno per me questi tre approcci al concetto di “normalità”, prendendo a pretesto una situazione, una condizione umana, che, ancora oggi, è molto al centro del dibattito relativamente a ciò che è (o sarebbe) normale e ciò che non lo è (o non lo sarebbe): l’omosessualità.

1.Se valutiamo l’omosessualità dal punto di vista statistico essa è oggettivamente fuori della norma: la maggioranza degli esseri umani, infatti, nasce e si comporta da eterosessuale; solo una minoranza è omosessuale.

Qui non si tratta affatto di concordare con le “analisi” e i giudizi, espressi addirittura in un libro, da un generale dell’esercito italiano che è assurto di recente agli onori della cronaca: si tratta di prendere semplicemente atto di un dato di realtà.

Credo che questo dato anche gli omosessuali lo possano e lo debbano riconoscere: è un puro dato numerico, che in sé non contiene (o non dovrebbe per me contenere) alcun giudizio di valore.

Che importanza ha, infatti, sul piano sociale, delle relazioni umane questo dato? Nessuna, assolutamente nessuna!

Soprattutto per chi ritiene che un principio basico e sacro delle democrazie debba essere il rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze.

Ovviamente chi non ritiene che le maggioranze debbano rispetto alle minoranze si sente in diritto di disprezzarle e, al limite, anche vessarle; e quindi disprezzerà e, al limite, vesserà anche le minoranze LGBT.

Ma in questo modo si metterà, senza alcun dubbio, fuori dall’ambito democratico: anche questo è un dato oggettivo.

È grave, quindi, molto grave, che un generale, il quale ha dovuto giurare sulla Costituzione per svolgere il suo ruolo, tragga da un semplice dato statistico, anche se oggettivo, pretesto per esprimere giudizi che offendono gravemente la dignità di alcune minoranze del nostro Paese, anzi del genere umano, da sempre esistite e che sempre esisteranno.

D’altra parte a voler essere conseguenti col principio statistico dovremmo dire che anche i geni sono anormali, perché neanche i geni rientrano nel livello normale, cioè medio, del Q. I. (Quoziente Intellettuale): si situano, infatti, ad un livello superiore.

Ma non per questo la maggioranza disprezza i geni e meno che mai li vessa o persegue. Anzi!

2. Esiste poi un secondo approccio al concetto di “normalità”, che si misura rispetto alla “funzione”, che ha (o dovrebbe avere) un determinato organo e perfino un individuo.

Da questo punto di vista, nel momento in cui si riconosce che una funzione (ma non l’unica) della sessualità è quella procreativa, ne consegue che all’atto omosessuale è negata per natura – e non solo per scelta – questa funzione.

Per natura, nel senso che due omosessuali, anche se lo volessero, non possono procreare nel momento in cui si congiungono sessualmente.

Al contrario di due eterosessuali che possono congiungersi sessualmente e fare in modo – per scelta (con opportuni metodi e strumenti) – che il loro atto non abbia (almeno in quel caso) un esito procreativo.

Anche questa è una realtà oggettiva, che non può essere negata da nessuno; manco (a meno che non vogliano negare l’evidenza) dagli omosessuali.

E, però, anche questo dato di realtà oggettiva cosa toglie alla dignità umana, esistenziale di un omosessuale? Cosa lo renderebbe meno degno (o, addirittura, non degno) di rispetto?

A me sembra, nulla, assolutamente nulla!

La sua scelta, infatti, è in tutto simile da questo punto di vista a quella di un eterosessuale, che rinuncia ad avere dei figli.

Semmai gli si potrebbe obiettare: non sai cosa ti perdi! È questa l’unica obiezione che gli si può fare.

Ma la stessa obiezione può essere fatta – appunto! – anche ad un eterosessuale che rinuncia, per sua libera scelta e non per impedimento fisiologico, ad avere dei figli.

3. Esiste, infine, un concetto di “normalità” che si misura in base al livello di felicità o di benessere soggettivi di una determinata persona.

Da questo punto di vista è del tutto evidente, è sotto gli occhi di tutti, che abbiamo omosessuali felici e omosessuali infelici, esattamente come abbiamo eterosessuali felici e eterosessuali infelici.

Abbiamo, anzi, omosessuali che sono molto più felici ed hanno raggiunto livelli di benessere psico-fisico e, perfino, spirituale di gran lunga superiori a quelli di tanti eterosessuali.

In questo caso allora è lecita, anzi viene spontanea la domanda: chi è più “normale”? l’eterosessuale infelice, depresso, ripiegato su sé stesso o nel migliore dei casi, triste e malinconico? oppure l’omosessuale felice o, quantomeno, gaio, allegro, aperto e socievole cogli altri?

Come si vede, il concetto di “normalità” può essere visto ed esaminato da svariati punti di vista; io ne ho colti tre, ma forse ce ne sono anche altri che potrebbero essere considerati e analizzati.

E da nessuno di essi riceve giustificazione e legittimità l’atteggiamento ostile, spregiativo, in una parola “omofobo”, che ancora oggi caratterizza il comportamento di molti individui nei confronti degli omosessuali e delle minoranze LGBT in generale.

© Giovanni Lamagna

La maternità non è solo quella fisica, ma è soprattutto quella spirituale.

Senza una madre (non necessariamente la madre biologica) la vita di un essere umano non potrebbe neanche avere inizio.

Non sto parlando qui della vita fisica: questa affermazione sarebbe fin troppo ovvia!

Sto parlando della vita psichica, cioè della vita dell’anima di un individuo.

Questa non avrebbe neanche inizio, abortirebbe subito senza la presenza, la vicinanza, l’assistenza, le cure di una madre.

E con la fine precoce, con l’aborto della vita psichica, probabilmente (anzi sicuramente) avrebbe fine, prima o poi, anche la vita fisica, quella del corpo di un individuo.

La madre, una vera madre (ripeto: non necessariamente la madre biologica; e, forse, neanche la madre nel senso del genere femminile, ma la madre come archetipo, come figura simbolica; in questo senso anche un maschio, forse, potrebbe esserlo) è generatrice quindi non solo della vita fisica, organica, materiale, ma anche (e, forse, soprattutto) di quella spirituale di un figlio.

© Giovanni Lamagna

Ideali e centralità della vita.

La vita umana può trovare senso e unità solo nella dedizione ad una causa, a un ideale, a un compito, a una vocazione, che in qualche modo la trascendano.

Ma questa causa, questo ideale, questo ideale, questa vocazione, non dovranno mai negare il valore, anzi la centralità, della vita umana.

E non la vita umana come concetto astratto, ideologico: ovverossia la vita dell’Umanità come specie.

Nel nome della quale (quasi come nel nome di Dio) gli uomini hanno compiuto i peggiori delitti e si sono resi colpevoli delle peggiori efferatezze.

Ma la vita umana intesa come singola vita umana, quella che si incarna in ogni singolo individuo della specie, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.

Anche l’ideale più grande, la più nobile delle cause, non potranno e non dovranno mai prescindere dal principio che la vita di ogni uomo è il fine e non il mezzo per altri fini, presunti superiori.

© Giovanni Lamagna

Super-io e Ideale dell’Io.

L’Ideale dell’Io non ha nulla a che fare – almeno per come lo intendo io – con il Super-io.

Perché l’Ideale dell’Io è il frutto, il risultato di una scelta consapevole (per quanto le nostre scelte possano essere consapevoli) dell’Io, del mio essere individuale nel pieno e libero (per quanto è possibile) possesso delle sue facoltà, emotive ed intellettuali.

E’ ciò che voglio, aspiro a diventare rispetto a ciò che sono; è il mio desiderio (per dirla con Jacques Lacan), è il mio daimon e la mia vocazione (per dirla con Carl Gustav Jung), è il compito che ho assegnato a me stesso nella vita (per dirla con Victor Frankl).

Mentre il Super-io è un modo di essere che viene imposto (“imposto” è il termine giusto) all’Io dell’individuo dall’esterno, in primis dalla sua famiglia di origine, poi dal contesto ambientale in cui è cresciuto ed ha vissuto i suoi primi anni di vita (decisivi per la formazione del Super-io), infine dal contesto sociale in cui vive da adulto.

E’ vero che i due (Ideale dell’Io e Super-io) si possono confondere; nel senso che noi possiamo ritenere come nostro Ideale dell’Io quello che è in realtà Super-io.

Però, se analizziamo bene le loro due strutture, esse hanno origini e conformazioni molto diverse.

L’Ideale dell’Io (ripeto, almeno per come lo considero io) esprime la nostra volontà e libertà, quel poco o molto di libera volontà che ci è consentita; è – come direbbe Sartre – “ciò che facciamo e vogliamo fare con quello che gli altri hanno fatto di noi”.

Il Super-io, invece, è la negazione della nostra libera e autonoma volontà; esprime i nostri condizionamenti psicologici, soprattutto quelli che abbiamo ricevuto nell’infanzia; è semplicemente “ciò che gli altri hanno fatto di noi”.

© Giovanni Lamagna

“Persona” e “Ombra”.

In ognuno di noi c’è una personalità più esterna, che appare di più agli altri e forse anche a sé stessi; e che Jung ha chiamato “Persona”.

E una personalità più interna, più nascosta, che Jung ha chiamato “Ombra”.

Spesso la “Persona” e l’ “Ombra” non sono in buoni rapporti, vivono in conflitto, quasi fossero due entità alternative l’una all’altra.

Uno dei compiti della vita – almeno a mio giudizio – è quello di portare sempre più all’esterno, di rendere sempre più visibile, innanzitutto a noi stessi, la nostra “Ombra”.

Rendendola il più compatibile e il meno conflittuale possibile con la nostra “Persona”.

Diventare insomma un individuo unificato e, quindi, pacificato; non più scisso e, quindi, non più in conflitto con sé stesso.

© Giovanni Lamagna

L’essere umano o è “religioso” o semplicemente non è.

Chi rigetta, in modo frettoloso e saccente, non solo le religioni storiche, ma anche la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza”, in nome dello scientismo, del laicismo, dello sviluppo del pensiero umano (in modo particolare di quello filosofico), della secolarizzazione delle società moderne, dimostra, a mio avviso, di essere persona superficiale, banale, che non tiene conto della complessità della Storia e dell’animo umano.

Non ci sono dubbi (chi può negarlo? manco l’uomo di fede può farlo!) che le religioni storiche (soprattutto in certe epoche storiche e in certi contesti geografici) abbiano prodotto disastri immani, abbiano in molte occasioni coartato il libero pensiero e le potenzialità dell’umano, provocato carneficine e oppressioni orrende.

Ma non ci sono manco dubbi che esse siano state per una lunga fase della vicenda umana una delle componenti principali, se non la principale, del suo sviluppo, della sua crescita, del suo porsi domande e tentare di darsi risposte, senza le quali l’essere umano non può definirsi tale, si riduce al semplice genere di cui pure è parte.

Le religioni storiche hanno indubbiamente partorito molti mostri e angherie, ma hanno anche ispirato innumerevoli eroi ed atti eccelsi di santità.

Non a caso è nell’ambito della vicenda storica delle religioni che è maturata la regola aurea del “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te e non fare loro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”, su cui si fondano tutte le etiche umane, nelle loro varie e molteplici forme, sotto qualsiasi parallelo e lungo qualsiasi meridiano.

Certo poi le religioni storiche hanno spesso dato origine anche a contrasti e conflitti asprissimi, feroci, perfino a guerre interreligiose, che è il colmo dei colmi.

Ma questa è solo l’altra faccia della Luna, quella in ombra; che non può farci dimenticare la sua prima faccia, quella a noi visibile; o viceversa, a seconda di come vogliamo valutare le luci e le ombre che si accompagnano in ogni vicenda umana, quindi anche in quella storica delle religioni.

Negare o banalizzare la stessa “dimensione religiosa dell’esistenza” (con le domande fondamentali sul “senso della vita” che essa pone), andando ben oltre l’analisi e la critica delle forme da essa assunta nella storia e nella geografia, significa negarsi, chiudersi ad una dimensione che è la più profonda che possa sperimentare l’essere umano, a prescindere dalle risposte che egli sarà (o non sarà) in grado di darsi.

Domande alle quali nessuna scienza, nessun nuovo ritrovato tecnologico e manco le strutture sociali e politiche riusciranno mai (come la Storia, soprattutto quella recente, ha dimostrato in abbondanza) a trovare risposte; perché queste riposano, sono nascoste nel cuore di ogni singolo individuo.

E niente e nessuno mai potrà scovarle al suo posto, risparmiargli il cammino (spesso faticoso e sofferto, a volte persino drammatico) della ricerca e del ritrovamento, che non sarà mai scontato, mai certo, ma affidato sempre ad un incedere precario e incerto, del tutto individuale e personale.

In altre parole, una cosa è demitizzare il mito (o i miti) che si nascondono dietro le religioni storiche, ne hanno fondato la nascita e perpetuato la durata nel tempo; altra cosa è negare la verità profonda, la funzione simbolica, che si nasconde sempre dietro ogni mito, tutti i miti che hanno accompagnato da sempre la vicenda umana.

Infine, una cosa è aggiornare e modernizzare i rituali che fanno parte delle religioni storiche e che hanno arricchito e vitalizzato, pur con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni. la vita delle società trascorse, altra cosa è eliminare del tutto i rituali, l’idea stessa del rito, dalle nostre società contemporanee.

O banalizzarli (che cosa sono alcuni happening mondani – esclusivi o di massa che siano – o alcune manifestazioni sportive se non dei rituali dell’epoca d’oggi?) al punto da renderli ininfluenti o del tutto insignificanti dal punto di vista delle risposte che i riti di una volta intendevano dare alle domande di senso che provenivano dagli individui e dalle società di cui erano prodotti storici.

L’uomo (anche l’uomo contemporaneo, ipermoderno, postmoderno) non può fare a meno né di miti né di riti; ne va della sua vita spirituale, che senza di essi ne risulta gravemente impoverita.; e cosa sono i miti e i rituali se non l’essenza, l’anima stessa della “dimensione religiosa dell’esistenza”?

Per cui – ritornando a bomba – il rapporto dell’uomo con la/e religione/i non può essere quello di chi butta il bambino con l’acqua sporca quando svuota la vasca da bagno.

L’uomo certamente non può fare a meno di interrogarsi – continuamente e in maniera lucidamente, spietatamente laica – sul suo “essere religioso”; ma alla fin fine non può fare a meno di rinunciare del tutto a questa sua natura profondamente, intrinsecamente religiosa.

Perché il suo stesso interrogarsi, porsi dubbi e domande, il suo stesso depurare miti e rituali di un tempo, fanno parte intrinseca di questa sua connaturata e profonda religiosità.

Che tende a “rilegare” (sta qui l’etimo della parola “religione”) tutte le cose, anche quelle apparentemente lontanissime tra di loro; a trovare – in altre parole – l’essenza e l’unità del Tutto.

© Giovanni Lamagna

Che differenza passa tra chi è in contatto con sé stesso e chi non lo è?

Chi non è in contatto con sé stesso della vita coglie solo la superficie.

Vive in una sorta di stordimento/dormiveglia.

Non fa quello che realmente vuole e desidera (come spesso, invece, si illude di fare), ma quello che è trascinato a fare da una sorta di corrente che lo trascina.

Va, insomma, alla deriva.

E molto spesso non ne ha manco coscienza; quindi non ne soffre neanche particolarmente; perché vive in una sorta di beata (o, meglio, beota) incoscienza, letargia, anestesia.

Questo discorso vale sicuramente per il singolo, per l’individuo, ma vale anche – pari, pari – per molte società di cui si compone l’Umanità.

Oggi – ho l’impressione – stiamo vivendo – come mondo nel suo complesso, specie qui da noi in Occidente – proprio una situazione di questo tipo: stiamo andando verso il disastro e non ce ne rendiamo – salvo rare eccezioni – manco conto.

Siamo come i passeggeri del Titanic, che – mentre il piroscafo navigava nella nebbia e stava per scontrarsi con l’iceberg che lo avrebbe nel giro di pochi attimi fatto inabissare causando la morte di più di 1500 persone – ballavano e si divertivano, completamente ignari (incoscienti, appunto!) della tragedia alla quale stavano andando incontro.

Chi non è in contatto con sé stesso vive il tempo esclusivamente come kρόνος, come uno scorrere anonimo di attimi indistinti, sostanzialmente tutti uguali a sé stessi, senza particolare significato e valore.

Alla rincorsa di beni e piaceri materiali, per lo più voluttuari, nella illusione (che è quasi un delirio) di poter trovare in essi, anzi nell’accumulo di essi, il benessere e persino la felicità desiderati.

Chi è in contatto con sé stesso vive, invece, il tempo come καιρός; tende cioè a dare ad ogni attimo un valore particolare, unico ed irripetibile.

Chi vive il tempo in questo secondo modo non dà particolare valore ai beni materiali, dà invece grande valore a quelli spirituali, fondati non tanto sul valore economico delle cose possedute, ma sul modo del tutto personale – direi creativo, generativo –  di viverle e di goderle.

Può capitare a chi vive il tempo come καιρός di essere, possedendo poco, molto più felice di chi vive il tempo come kρόνος, possedendo molto.

E’ questa la differenza fondamentale tra chi ha scelto di puntare prevalentemente sull’essere e chi, invece, ha puntato le sue carte esistenziali soprattutto sull’avere.

© Giovanni Lamagna