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Reale e simbolico.

Per noi umani – come ci ha insegnato Lacan e come continua a ricordarci Recalcati – il reale e il simbolico hanno lo stesso peso, la stessa importanza.

Ciò che ci caratterizza, infatti, rispetto agli altri animali, è il linguaggio.

E di cosa è fatto il linguaggio se non di simboli?

Per noi umani – da quando abbiamo imparato a comunicare con le parole – la realtà si è fatta in gran parte simbolica: ha perso la sua innocenza e il carattere primordiale di nuda cosa.

Rinunciare ai simboli per restare attaccati (velleitariamente) al puro “reale” equivale, quindi, a rinunciare allo specifico della nostra umanità.

© Giovanni Lamagna

Desiderio e responsabilità.

La coscienza si muove (o dovrebbe muoversi) sempre al confine tra desiderio e responsabilità.

Se non abita questo confine semplicemente non è o non è ancora: è in-coscienza.

Il desiderio è, per sua natura, un’istanza potenzialmente illimitata.

Nasce nell’infanzia, anzi già al momento della nascita, all’insegna del “voglio tutto, subito e sempre”.

Quindi all’insegna dell’egocentrismo, del narcisismo, del sogno allucinatorio di onnipotenza.

Ovviamente ben presto e sempre di più, anche se gradualmente, questo tipo di desiderio (oggettivamente delirante, giustificato solo dall’età) deve confrontarsi con la realtà.

Innanzitutto con la realtà della natura, che gli pone (anzi impone) dei limiti: io vorrei volare, ma non posso farlo, perché la natura non mi ha dotato di ali come agli uccelli.

Ma anche con la realtà del desiderio degli altri, che quasi mai coincide col mio e talvolta (o spesso) addirittura confligge col mio.

Di qui il senso di responsabilità.

Che (attenzione!) non è, non deve essere, rinuncia totale, sic et simpliciter, al mio desiderio.

Anzi, la prima forma di responsabilità (proprio nel senso letterale del termine, che deriva dal verbo latino “respondere”) è quella di cor-rispondere al proprio desiderio.

Lacan diceva, non a caso, che “il peccato più grande è quello di cedere sul proprio desiderio”.

Ma il mio desiderio va realizzato compatibilmente con i limiti che mi impone la Realtà – la natura delle cose – e che mi pone il desiderio dell’Altro.

E, siccome non posso aggirare, evadere, la realtà e non posso fregarmene del desiderio dell’altro (perché una delle componenti principali del desiderio è proprio quella di incontrare il desiderio altrui) ecco che desiderio e responsabilità devono viaggiare di pari passo; l’uno non può fare a meno dell’altro.

Se il desiderio vuole trovare una risposta, una soddisfazione vera, buona e giusta, che fa crescere la vita, e non sfociare in un “godimento mortifero” (come lo definiva Lacan), che invece ammazza la vita.

© Giovanni Lamagna

Sulla Storia.

La Storia non la si può certo ricostruire con i “se” e con i “ma”.

È vero che in teoria, se gli uomini (soprattutto alcuni uomini; pensiamo, ad esempio, agli uomini di Stato) avessero fatto altre scelte, i fatti storici potevano andare in un modo diverso da come sono accaduti nella realtà.

Ma nella pratica lo storico deve solamente prendere atto che, se le cose si svolte e sono accadute in un certo modo, forse non potevano che svolgersi e accadere in quel modo; che risulta quindi essere l’unico modo possibile.

Da questo punto di vista acquista, quindi, un senso profondo la massima hegeliana: “tutto ciò che è reale è razionale”.

Non nel senso – ovviamente – che sia il meglio possibile, ma nel senso che – evidentemente – è l’unico possibile; dato il contesto e le condizioni storiche in cui esso si manifesta, si “realizza”, appunto!

© Giovanni Lamagna

Super-io e Ideale dell’Io.

Una cosa è il cosiddetto “Super-io”, altra cosa è il cosiddetto “Ideale dell’Io”: entrambe espressioni del linguaggio di Freud.

Il Super-ego è un “ideale” sovra-imposto autoritariamente al soggetto dal contesto sociale (specie quello familiare) in cui egli è nato, è cresciuto o nel quale vive in un dato momento.

L’Ideale dell’Io è quell’ideale che il soggetto stesso autonomamente si è dato, come risultato di un compromesso voluto, ricercato, tra le istanze dell’Es, che lo spingono verso il piacere assoluto, e le istanze della Realtà, fisica, materiale o sociale in cui egli vive, che a quel piacere tendono a porre dei limiti.

In altre parole – a voler usare, invece, termini di Lacan – l’Ideale dell’Io è il risultato della mediazione raggiunta tra il “desiderio” e la “Legge”.

Del Super-ego il soggetto è succube e vittima.

Il Super-ego agisce nel soggetto sotto traccia e in maniera subdola, attraverso i sensi di colpa.

Dell’Ideale dell’Io il soggetto è autore e attore.

L’Ideale dell’Io agisce nel soggetto alla luce del sole, attraverso il senso di responsabilità.

© Giovanni Lamagna

“Reale” e “realtà”, simbolizzazione e sublimazione.

Per Lacan esiste una differenza tra il “reale” e la “realtà”.

La “realtà” è il “reale” nel quale è sopravvenuto il simbolico, è il reale attraversato dal simbolico, rivestito dal simbolico.

La “realtà” sopravviene per il soggetto, quando questi ha attraversato il conflitto edipico, ha vissuto cioè “la legge della castrazione”.

Il simbolico sopravviene quando il soggetto è capace di non godere più immediatamente della “Cosa”, di rinviarne il godimento, quando, in altre parole, è capace di sublimare.

Sublimare, in fondo, è la stessa cosa che simbolizzare.

Sublimare e simbolizzare costituiscono la coscienza, che in fondo è la presa di distanza dal “reale” allo stato puro, è la costituzione della diade “Io-Altro”.

© Giovanni Lamagna

Forze e debolezze.

Ci sono forze (apparenti) che (in realtà) sono debolezze.

E ci sono debolezze (apparenti) che (in realtà) sono forze.

© Giovanni Lamagna

Fatti e interpretazioni.

Nessuno di noi vede i fatti, le cose, le persone, insomma la cosiddetta “realtà”, per quelli che sono.

Ma ciascuno di noi vede la “realtà” filtrata sempre attraverso le lenti della sua interpretazione: quella che Massimo Recalcati chiama “il nostro fantasma fondamentale”.

Per cui possiamo ben dire che ci sono tante “realtà” quanti sono i soggetti che la osservano; non vi è una sola realtà uguale per tutti.

In fondo anche Nietzsche aveva detto la stessa cosa, estremizzando forse un po’ troppo: “Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

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In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Ansia e atteggiamento ansioso.

L’ansia è l’eccesso di preoccupazione per ciò che ci riserverà il futuro.

Si può parlare di ansia quando la preoccupazione per il futuro è esagerata, non giustificata dai dati di realtà.

L’atteggiamento ansioso è, invece, la tendenza (che abbiamo spesso alcuni di noi) a fare le cose in maniera frettolosa e approssimativa, ovverossia nei tempi e coi modi sbagliati.

Più che con l’ansia, ha a che fare con il non rispetto dei tempi giusti, quelli cioè necessari a fare determinate cose.

Che si manifesta, in modo particolare, quando le cose che stiamo facendo non ci appassionano molto o addirittura ci annoiano.

Per cui vorremmo (e cerchiamo di) sbrigarle nel minor tempo possibile.

E non per senso del dovere, ma per liberarcene quanto prima possibile.

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio.

Il desiderio è un’esperienza umana ben diversa dal capriccio.

Il capriccio è un’esperienza del tutto narcisistica, incapace di confrontarsi con l’esistenza dell’Altro e con la durezza della Realtà.

Prescinde, quindi, dal freudiano “principio di realtà”, mira a forzare, se non a rimuovere del tutto, la realtà.

Il desiderio, invece, è un’esperienza dell’anima che, a partire da un moto fisico, emotivo o intellettuale del singolo individuo, si accorda però con i moti degli altri singoli individui e, soprattutto, con la realtà.

Dalla quale non sempre riceve accoglienza immediata; e, infatti, alle volte il desiderio deve fare piccole o grandi forzature sulla realtà, per potersi realizzare.

Ma non è mai totalmente sganciato dalla realtà, totalmente estraneo ed ostile ad essa, come lo è invece il capriccio.

Il desiderio è sempre parte della Realtà, non è mai fuori della realtà, con i suoi limiti, i suoi divieti e le sue imposizioni; è sempre realistico, anche quando tende a forzare consuetudini e status quo.

In questo senso il desiderio non è mai solo la realizzazione di un moto che nasce all’interno del nostro animo.

Ma è anche in qualche modo la risposta ad una chiamata che ci viene dall’esterno, la realizzazione di un compito, come lo intendeva Victor Frankl.

O addirittura la realizzazione di un dovere, come la pensava Jacques Lacan.

© Giovanni Lamagna