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Recensione del romanzo “Confidenza” di Domenico Starnone (Einaudi 2019).

Il romanzo breve (appena 140 pagine) di Domenico Starnone “Confidenza” (Einaudi 2019), dal quale è stata recentemente ricavata la sceneggiatura di un film con Elio Germano protagonista, è bello.

Degno della migliore scrittura di questo autore, di cui mi piacciono sia le problematiche che affronta, sia il modo con cui ce le racconta.

Il romanzo, anche questa volta, ruota attorno a una vicenda familiare; sono chiari – conoscendo Starnone – i riferimenti autobiografici.

È la storia – quasi la biografia – di un uomo, Pietro Vella, un insegnante di liceo nato a Napoli, ma trasferitosi a Roma dopo la laurea, dove vive e lavora.

Che si innamora una prima volta di una sua allieva, Teresa, che ha almeno una decina di anni meno di lui e con la quale intreccia una tempestosa relazione, fatta di amore e di odio.

E poi, una volta conclusa – per sfinimento – questa prima relazione, ne inizia una nuova con una collega coetanea, Nadia, insegnante di matematica, con ambizioni di carriera universitaria ben presto naufragate.

Il rapporto con Nadia è tutto l’opposto di quello con Teresa; tanto tempestoso e lancinante era quello con Teresa, tanto tranquillizzante e rassicurante è quello con Nadia.

Che, infatti, “regala” a Pietro tre figli e, soprattutto, accudimento, cura e, pertanto, la libertà di dedicarsi ai suoi principali interessi: professionali, culturali e politici.

Così Pietro, da oscuro insegnante di liceo, diventa un saggista abbastanza noto che pubblica due libri e svariati articoli, viene invitato a dibattiti e convegni e, soprattutto, entra nel mondo dell’editoria, dove conosce un importante pedagogista, Stefano Itrò, e una editor avvenente, benestante e colta, Tilde, con la quale, grazie anche alla intensa frequentazione, vive una sorta di (anche se solo platonico) flirt.

Su queste tre relazioni – quella con Nadia (la moglie), quella con Teresa (la prima amante) e quella con Tilde (l’amica) – Starnone costruisce un’avvincente intreccio emotivo-sentimentale, profondamente erotico e persino – almeno a tratti – passionale, che ci porta a scandagliare la complessità, le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano i rapporti tra gli esseri umani, soprattutto quelli tra i due sessi, e in fondo la complessità, le ambiguità e le contraddizioni dello stesso animo umano, di cui quelle relazionali in fondo non sono altro che il riflesso.

Viene fuori, ad esempio, la complessità delle dinamiche legate a termini quali “fedeltà” e “tradimento”.

Il protagonista Pietro Vella tradisce più volte la moglie Nadia con la mente e col desiderio, “con discrezione, forse addirittura castamente” (p.121); e – almeno in una situazione – riesce ad evitare di farlo anche concretamente, fisicamente (con Tilde), per puro caso, perché distratto/attratto da un altro “tradimento” (con Teresa) di natura puramente mentale.

La stessa moglie Nadia – che pure sembra il ritratto della donna tranquilla, tutta casa e lavoro, ma soprattutto fedele – sul finale del romanzo confessa alla figlia: “… tuo padre mi è così indispensabile che, per poter restare con lui, ho dovuto tradirlo moltissime volte, secondo tutte le possibili accezioni lecite del tradimento.” (p. 121).

Per cui la figlia Emma così ne riassume la vicenda emotivo-affettivo-sentimentale-matrimoniale: “… mi è sembrato tutto sommato bello che questi due vecchi… per poter vivere insieme tutta la vita, avessero dovuto inventarsi una pratica innocente del tradimento che permettesse loro di non dirsi: non ci vediamo più.” (p. 121).

Come se un matrimonio, per reggersi, per durare nel tempo, avesse bisogno necessariamente, indispensabilmente di tradimenti reciproci dei due partner; reali o solo mentali, effettivi o sessualmente casti qui ha poca importanza.

Viene, quindi, fuori in questo romanzo, in maniera paradigmatica a me sembra, una delle lezioni fondamentali di Jung: ciascuno di noi è fatto di una “persona” – la maschera che mostriamo agli altri – e di una “ombra” – il nostro lato oscuro, quello che tendiamo a nascondere, non solo agli altri, ma anche a noi stessi.

Ciascuno di noi ha quindi, molto probabilmente, una qualche “confidenza” (non a caso è questa la parola che dà il titolo al romanzo), fatta in un momento di particolare intimità (o debolezza) a qualcuno/a, di qualcosa di cui prova vergogna, con le conseguenti paura, preoccupazione, ansia, in certi momenti vero e proprio terrore, che l’altro/a possa portarla allo scoperto, rivelandola in pubblico.

L’altro/a, in questo caso, è la metafora della nostra coscienza (più o meno) sporca, con la quale ciascuno di noi deve fare i conti.

Aggiungo su questo punto solo un ultimo elemento di riflessione: alcuni – di quello che siamo – vedono solo o prevalentemente il bello e il pulito, altri solo o prevalentemente il brutto e lo sporco.

Mentre forse ciascuno di noi non è né solo e totalmente il primo, né solo e totalmente il secondo, ma un impasto complicato, complesso, del primo e del secondo, nel quale è difficile distinguere il primo dal secondo.

© Giovanni Lamagna

Scrivere è come partorire.

Quando si comincia a scrivere qualcosa spesso non si ha un’idea esatta, precisa, completa, di quello che si scriverà.

Molte volte si è mossi da un pensiero inizialmente ancora vago, generico, confuso: appena l’abbozzo di un’idea.

Poi, man mano che si scrive, il pensiero si dipana, chiarisce, si rivela prima alla mente, poi alle mani, infine – quando è stato messo sul foglio – alla vista dello scrittore.

Per questo lo scrivere assomiglia molto al partorire.

Infatti, quando la mamma sta per partorire il suo bambino sente di averlo già tutto formato dentro il suo ventre; ma, ovviamente, non ne conosce ancora esattamente, anzi non ne conosce quasi per niente, le fattezze.

Per tutti i nove mesi di gravidanza ne ha avuto solo timidi indizi: i calci nella pancia, per esempio.

Oggi, con le moderne ecografie, se ne possono sapere in anticipo innanzitutto il sesso e poi, con una certa precisione, anche il peso, l’altezza e persino i lineamenti del viso.

Ma è solo con il parto che il bambino si rivela pienamente alla madre in tutte le sue fattezze.

Proprio come avviene con il testo scritto che si rivela pienamente all’autore solo dopo che egli lo definitamente portato sulla carta o sul computer.

Insomma solo dopo che lo scrittore lo ha – per restare nella metafora – finalmente partorito.

© Giovanni Lamagna

Pancia, cuore e testa.

Sono tre – a mio avviso – i tipi fondamentali di approccio alla vita.

Il primo, quello tutto di pancia, di chi agisce in base al puro istinto.

Il secondo, tutto di cuore, di chi agisce in base alla pura emotività.

Il terzo, tutto di testa, di chi agisce in base alle sole ragioni della mente.

Credo che siano tutti e tre, se non proprio sbagliati, quantomeno parziali ed incompleti.

Credo che, per agire bene ed in maniera equilibrata, bisogna tener conto sia della pancia che del cuore che della testa.

L’approccio migliore alla vita sta in buon mix di istinto, emotività e razionalità.

© Giovanni Lamagna

Possiamo fare a meno di una nostra visione del mondo?

Krishnamurti, nel suo libro “La quiete della mente” (Ubaldini, Editore; 2021), a pag. 100, così scrive: “… i sistemi non purificano la mente e non liberano il cuore dalle cose della mente.”

Per “sistema” egli intende “un metodo”, “un ideale”, “un credo”, una “fede”, “un particolare modello di attività”.

Cosa penso di una tale tesi?

Penso che – in linea teorica e di principio – Krishnamurti abbia ragione: i sistemi in qualche modo ci limitano, ci ingabbiano, ci condizionano.

Allo stesso tempo, però, ritengo che non possiamo fare a meno dei “sistemi”, cioè di una certa visione del mondo; non possiamo prescinderne.

D’altra parte, in fondo, lo stesso Krishnamurti porta avanti, propugna una sua particolare visione del mondo, quindi un suo sistema di vita.

E allora?

Credo che la parte di verità di quello che dice Krishnamurti stia in questo: ciascuno di noi non può fare a meno di avere un suo sistema di vita, una sua visione del mondo.

Non deve però chiudersi in questo sistema e diventarne prigioniero.

Il suo sistema deve rimanere aperto ai cambiamenti, sempre.

Deve essere disponibile ad evolvere, financo, se è il caso, a negare sé stesso.

La vita è, infatti, movimento.

Pertanto tutto ciò che contribuisce a fermarla, bloccarla (anche le cose che per un certo tempo e fino ad un certo momento ci hanno reso felici) è negativo, perché interrompe o, quantomeno, ostruisce il nostro flusso vitale.

Bisogna avere (è impossibile non averla) una propria visione del mondo; senza di essa deraglieremmo come un treno uscito fuori dai binari, oscilleremmo come una canna al vento.

Ma la nostra visione del mondo deve essere e restare sempre aperta, disponibile ad essere messa in discussione in qualsiasi momento.

© Giovanni Lamagna

Il tuo piacere è (può essere) il mio piacere.

E’ del tutto vero – come sostiene Massimo Recalcati, nel suo “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina Editore, 2021), muovendo dalla lezione del suo maestro, Lacan – che noi non possiamo sentire il piacere dell’altro come se fosse il nostro.

A maggior ragione – io aggiungo per inciso– nessuno di noi può avvertire il dolore dell’altro come se fosse il suo, davvero il suo.

Da questo punto di vista noi umani – come del resto anche gli altri animali- siamo “condannati” ad una separatezza ontologica, che niente e nessuno potranno mai annullare.

E, però, è anche vero che io posso avvertire (ho gli strumenti per farlo, volendo) il piacere che sale, che monta nel corpo dell’altro, coglierne distintamente l’onda e farmene toccare, in alcuni casi perfino (estaticamente) travolgere.

Proprio come quando sono a mare: l’onda rimane onda ed io resto io; ma l’onda che mi arriva e mi travolge l’avverto; eccome!

E il piacere che prova l’altro sarà pure fisiologicamente il piacere solo dell’altro, ma non lo è altrettanto psicologicamente.

Perché psicologicamente io lo avverto, se ci presto attenzione, se mi ci sintonizzo; e, nel momento in cui l’avverto, diventa anche mio.

Aggiungendo piacere a piacere: un piacere ben reale, che si fa sentire nel mio corpo, oltre che nella mia mente.

Lo sa bene chi, quando fa sesso, vive questo atto non come semplice sfogo di una spinta fisiologica, ma come ricerca di una comunione emozionale, sentimentale ed affettiva, quindi amorosa, con l’altro/a.

E’ proprio questo (tra l’altro) che fa una profonda differenza tra un atto masturbatorio (dove l’altro/a è del tutto assente o è, tutt’al più, presente nell’immaginario, nella fantasia) e un atto sessuale vissuto in (reale) comunione con l’altro/a.

Dove l’altro/a è non solo fisicamente presente, ma vive il suo piacere in sintonia con il mio ed io vivo il mio in sintonia con il suo.

In questo caso – è vero – si rimane comunque due persone distinte e il piacere dell’uno è diverso, distinto, dal piacere dell’altro e inassimilabile ad esso.

E’ anche vero però che in quel momento si realizza (può realizzarsi) una vera, percepibile, comunione di anime, nella quale il piacere dell’uno psicologicamente si fonde con quello dell’altro/a ed aumenta esponenzialmente nella misura in cui questa comunione si è venuta a creare.

In questo senso, a mio avviso e al contrario di quanto sostengono Recalcati e Lacan, il piacere dell’altro è (può essere) anche il mio piacere, io posso arrivare a sentire, in qualche modo, il piacere dell’altro come se fosse mio.

© Giovanni Lamagna

Esplorare significa fare delle scelte.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Astrolabio Ubaldini 2021; pag. 54) così scrive: “La scelta esiste solo quando la mente è confusa. Nel momento in cui la mente è esitante, confusa e non è in grado di vedere con chiarezza, allora viene fatta una scelta.”

Mi chiedo: come potrebbe essere altrimenti?

La mente umana vive spesso, se non il più delle volte, nel dubbio, nell’incertezza e, quindi, nella confusione.

Non ha niente a che fare con la mente (supposta) divina, la quale sola sarebbe onnisciente e perfetta, quindi senza oscillazioni ed esitazioni.

La mente umana è caduca, imperfetta, per sua natura esitante e alla ricerca.

Nel dubbio, nell’incertezza, deve operare delle scelte; o, quantomeno, vivere l’illusione che siano possibili per essa delle scelte.

Krishnamurti aggiunge: “Ciò che è importante non è la scelta, ma mettere ordine nella confusione, o meglio porre fine alla confusione in modo da comprendere con chiarezza.”

Io però mi chiedo: come si fa a mettere ordine nella confusione, se non facendo delle scelte?

Che potranno anche essere inizialmente sbagliate, ma che in ogni caso ci aiuteranno a capire dove sta la “verità” e qual è la strada più giusta da seguire, quando questa all’inizio non ci appare chiara e senza alternative.

La scelta, quindi, al contrario di quanto afferma Krishnamrti (“… l’esplorazione non ricade nel dominio della scelta”; pag. 55) è parte integrante del processo di esplorazione.

Anzi per me esplorare significa scegliere, procedendo per prove ed errori.

Alcune volte il cammino avanza spedito, perché si ha la fortuna (sì, alle volte, è anche questione di fortuna!) di imboccare subito la strada giusta.

Altre volte ci si accorge ad un certo punto del cammino di aver imboccato la strada sbagliata; ed allora bisogna avere l’umiltà, la pazienza, la costanza e la tenacia di tornare indietro e imboccare una nuova strada.

Esplorare significa dunque scegliere; l’uomo non può fare a meno di scegliere.

Perché nessun uomo (almeno all’inizio) è davvero “individuo” nel senso letterale del termine; cioè “indivisibile, non frammentato, e quindi non confuso”.

Ogni uomo, almeno all’inizio, (ma potremmo anche dire sempre, nel corso della sua vita, anche se si può auspicare che lo sia un po’ di meno e sempre meno, man mano che la sua esperienza va avanti, procede, si arricchisce, che diventa più saggio) è frammentato “in pezzetti, consci ed inconsci”.

Io dico è un puzzle, i cui tasselli all’inizio sono sparpagliati, dispersi, e vanno poi ricomposti, con un lavoro paziente, tenace, che esige appunto riflessioni e scelte, per prove ed errori.

Nessuno è in grado di ricomporre il suo puzzle in un breve istante e senza operare delle scelte; senza esitazioni, senza (almeno all’inizio) provare un gran senso di confusione e diciamo pure di smarrimento.

© Giovanni Lamagna

Problema e mistero.

Per Gabriel Marcel – e Pierre Hadot lo chiarisce molto bene (“La filosofia come modo di vivere”; pag. 176) – una cosa è il “problema” altra cosa è il “mistero”.

Un problema è una questione, una domanda a cui è possibile, prima o poi, trovare una risposta.

Il mistero è una domanda a cui non potrà mai essere trovata una risposta, un problema la cui soluzione è al di là delle possibilità umane.

Il mistero è ciò che rimarrà per sempre avvolto nella nebbia della inconoscenza.

Potrà (forse, in certi momenti…) essere sfiorato, intuito, percepito emotivamente, emozionalmente, ma mai del tutto conosciuto dalla mente.

Il problema, invece, è qualcosa che, pure esso, all’inizio è avvolto nelle nebbie del non conosciuto, ma che poi ad un certo punto– in seguito ad una ricerca intellettuale – si illumina, diventa chiaro, noto, perfettamente risolto e conosciuto.

Anche dall’intelletto, dalla mente.

© Giovanni Lamagna

Lo sguardo contemplativo.

Lo sguardo contemplativo è uno sguardo particolare: lungo, perché si proietta lontano, ben oltre il momento presente, anche se si costruisce momento per momento; e dritto, affilato, tagliente, come una spada.

La sua caratteristica principale è la concentrazione, la capacità di mettere a fuoco la realtà (quella interiore e quella esteriore), di limitare al massimo (e sempre di più, mano a mano che cresce la sua pratica ed esperienza) la dispersione, la dissipazione, le distrazioni, di cui soffre normalmente la nostra mente.

E’ lo sguardo concentrato sul proprio desiderio fondamentale, sulla propria vocazione unica e personale, su quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, che abita in ognuno di noi, anche se non è facile e non è dato a tutti incontrarlo e ascoltarne la voce, il richiamo.

E’ uno sguardo che ci dà una particolare energia vitale, perché è da esso che ci deriva la chiarezza su qual è la nostra strada, quella che siamo chiamati – per destino unico, che è solo nostro, a imboccare e percorrere.

Chi ha lo sguardo contemplativo saprà sempre, pur se magari dopo qualche più o meno lungo attimo di dubbio, incertezza, esitazione, in che direzione andare; anche quando tutto intorno a lui è scesa la nebbia e l’orizzonte non è del tutto chiaro e ben definito.

E non (tanto) perché ha fatto o fa dei ragionamenti e delle analisi intellettuali, ma perché sente, intuisce, quasi annusa, dove lo porta il suo percorso esistenziale, perché è guidato da una luce interna e misteriosa, ma ben reale.

Perché segue una specie di istinto primordiale, che poi solo istinto non è, dal momento, che è anche (e, forse, soprattutto) il risultato di un esercizio, di una pratica, appunto.

Il frutto di un’applicazione costante, eppure dolce; necessaria, eppure mai e per niente ossessiva o nevrotica.

Beato chi nella vita riuscirà a maturare uno sguardo contemplativo!

Perché avrà trovato la roccia su cui poggiare i suoi piedi, il sentiero su cui camminare saldo, pur se non sempre sicuro, la bussola che guiderà la sua esistenza, la pietra angolare che gli indicherà, momento per momento, la via da seguire.

Chi ne è sprovvisto, invece, sbanderà di continuo, sarà come una barca in balia delle onde, arrancherà spesso nel suo cammino esistenziale, senza orientamento e conforto, sarà preso dalla paura e, qualche volta, addirittura dal panico ogni volta che dovrà operare delle scelte o prendere una decisione.

Tutti siamo chiamati a coltivare, formare, far crescere in noi uno sguardo contemplativo; perché in ognuno di noi ce ne sono le potenzialità, le strutture fondamentali.

Purtroppo, però, non tutti lo attiviamo, non tutti ne diventiamo consapevoli; e così ci lasciamo sfuggire il tesoro più prezioso che la vita ci ha destinato, quello che sarebbe capace di realizzarla alla sua massima potenza.

© Giovanni Lamagna

I concetti di “Dio” e di “anima” nel pensiero buddhista.

Dopo aver affermato e, quindi, riconosciuto che il Buddhismo nega sia il concetto di Dio che quello di anima, Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020), tra la pag. 194 e la pag. 203, cerca di recuperare entrambi i concetti, come dimensioni di pensiero sostanzialmente, anche se non esplicitamente, presenti nel Buddhismo,

Ma in questo modo, almeno a mio avviso, egli non rende un buon servigio (come, invece, molto probabilmente, era nelle sue intenzioni) al Buddhismo stesso, almeno come pensiero in qualche modo compatibile con l’evoluzione (prevalente) del pensiero filosofico (occidentale) degli ultimi 4/5 secoli.

Cosa dice Mancuso rispetto al concetto di Dio? Egli parte dall’assunto che, quando si parla di Dio, “si intende rimandare a un livello dell’essere diverso rispetto a quello della vita ordinaria, ritenuto più vero, più giusto, più stabile, permanente e non impermanente, pace infinita e non lotta continua.”

E poi aggiunge: “… parlando di Dio si intende anche affermare che questo livello più vero dell’essere, pur essendo totalmente altro, è altresì fortemente intrecciato con il nostro livello dell’essere, così che è possibile accedervi qui e ora, entrarvi in comunione, sperimentarlo, viverne. E’ quanto il Buddha sperimentò con l’esperienza del nirvana…”

Per, infine, concludere, in buona sostanza, che quindi il concetto di “divino” non è affatto estraneo, ma pienamente presente, per quanto solo sottinteso, nel pensiero buddhista.

Qui, almeno in questo passaggio, Mancuso si dimostra un cattivo filosofo, perché identifica, fa coincidere termini ed esperienze diverse, confondendo i concetti, invece di chiarirli.

Innanzitutto fa coincidere il concetto di “divino” con il concetto di “Dio”; mentre i due concetti non coincidono affatto; il “divino” non è “Dio”; perlomeno non è il Dio trascendente, separato da questo mondo, creatore e non creato, eterno, infinito e onnisciente, come lo intende la gran parte delle tradizioni religiose del mondo.

In secondo luogo l’esperienza del “nirvana”, come la descrive il Buddha, è appunto un’esperienza etica, meditativa, ascetica, contemplativa, mistica, ma pur sempre un’esperienza umana, quindi un’esperienza che può essere analizzata con gli strumenti e descritta coi termini della psicologia.

Un’esperienza che potremmo anche definire, in senso lato e metaforico, esperienza del “divino”, ma di un divino che “è qui, ora, in questo mondo; è questo mondo diversamente sperimentato”; non è certo l’esperienza di un mondo altro, diverso, separato, da quello nel quale ora viviamo.

Ora cosa ha a che fare questa esperienza con il concetto di “Dio” classicamente inteso, come ce lo hanno trasmesso le maggiori tradizioni religiose del mondo e perfino la maggioranza delle filosofie dei primi due millenni di storia di questa disciplina di pensiero? A mio avviso, nulla; anzi le è del tutto incompatibile.

Più complesso si fa il discorso relativamente all’anima, sia relativamente a quello che fa Buddha che a quello che fa Mancuso.

Perché, mentre nei confronti dell’esistenza o meno di Dio, – dice Mancuso – “Buddha sospese il giudizio con il suo silenzio, sul concetto di anima egli prese esplicitamente posizione parlando di non-anima, anatman, negò cioè la realtà dell’anima (in sanscrito atman) per affermare piuttosto l’assenza di un sé individuale e permanente. Per il Buddha infatti l’individuo è soltanto un insieme di aggregati impermanenti e il più delle volte ricolmi di sofferenza…”.

Qui manifesto subito il mio accordo con Buddha e, allo stesso tempo, il mio dissenso da lui.

Sono sostanzialmente d’accordo con lui sul fatto che l’individuo, come del resto ogni altra realtà singolare, anche quelle esclusivamente materiali (come, ad esempio, una pietra) siano realtà “impermanenti”, destinate cioè ad avere un inizio e una fine, quindi a non durare in eterno.

Non sono d’accordo, invece, con lui sul fatto che le varie realtà, specie quelle non esclusivamente materiali (come, ad esempio, una psiche umana) non abbiano “un sé individuale”, che non si confonda con altre realtà individuali (ad esempio, una pietra), almeno per la fase in cui l’insieme di aggregati che la costituisce si mantiene unito, compatto, potremmo anche dire in vita.

Non sono inoltre d’accordo con Buddha sul fatto che ciò che caratterizza le varie realtà individuali, singolari, sia soprattutto, se non esclusivamente, la sofferenza; perché ciò contrasta – a quanto mi consta – con il sentimento diffuso e prevalente della gran parte di esse o, almeno, di quelle umane.

Non sono, infatti, in grado di dire se una roccia o un fiore o un cane siano felici o almeno contenti di stare al mondo.

Ma sono bene in grado di affermare che la maggior parte degli uomini sono contenti di essere venuti al mondo e ci vogliono restare il più a lungo possibile, anche se questo loro stare al mondo non è esente da dolori fisici e sofferenze psichiche; altrimenti avrebbero la possibilità e troverebbero il modo di dargli volontariamente un termine.

Vengo, dunque, al discorso (molto singolare, a mio avviso!) che fa Mancuso sul tema dell’anima.

Egli da un lato concorda sul fatto che quella che Buddha chiama “mente” (citta) e che lui (Mancuso) definisce come “centro di volizione personale” o “coscienza” o “io psichico” sia destinata a perire, allo stesso modo del corpo, dall’altro afferma che non “finisce tutto” con la morte. Anzi attribuisce anche a Buddha questo suo pensiero.

Il suo ragionamento francamente mi pare che si arrampichi sugli specchi; proverò a dimostrare perché.

In primis si chiede: che cosa intendiamo concretamente con il concetto di “anima spirituale”? E si dà la seguente risposta, che articola su tre punti fondamentali:

“1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e di volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione;

2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte;

3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro spirituale svolto e dell’energia morale accumulata.”

Secondo Mancuso “il Buddha, pur negando l’esistenza dell’anima a livello concettuale, riconobbe pienamente le (tre) esperienze fondamentali che ne sono alla base.”

Proverò, allora, ad entrare nel merito dei tre ragionamenti fondamentali di Mancuso e a distinguere gli argomenti sui quali concordo da quelli sui quali dissento, perché mi appaiono incongrui.

1.Buddha “nega l’esistenza di un sé separato ma sottolinea con molta forza la volizione autonoma in prima persona singolare, la prima delle tre esperienze veicolate dal concetto di anima, ovvero la capacità di volere coscientemente e responsabilmente…”.

Buddha, infatti, “insistette sempre sul fatto che il lavoro di liberazione dalla ruota dell’esistenza tramite la ruota del Dharma debba essere compiuto dal singolo individuo e che nessun altro lo possa compiere al suo posto, non essendoci spazio per gli interventi soprannaturali…

Le ultime parole attribuitegli richiamano esattamente lo sforzo personale “Continuate a esercitarvi, instancabilmente”, a rimarcare nel modo più netto la centralità della volontà personale.”. E fin qui concordo con Mancuso.

2. Non concordo affatto, invece, con la seconda affermazione che fa – tra l’altro molto sbrigativamente, dandola quasi per scontata sul piano logico-teoretico – Mancuso relativamente al concetto di “anima”: la possibilità per questa “di connessione con l’essere eterno fino alla possibilità di esserne parte”.

In questo caso Mancuso opera quello che a me sembra un vero e proprio salto logico: perché, infatti, il riconoscimento della realtà che egli chiama “anima” dovrebbe implicare automaticamente la possibilità di entrare a far parte dell’essere eterno?

E, inoltre, su quali basi si dimostra l’esistenza di un “essere eterno”, almeno nel senso in cui lo intende Mancuso, nel senso cioè in cui comunemente qui in Occidente si intende “Dio”? Su questo argomento mi sono già soffermato in precedenza e quindi non ci ritorno sopra.

3. Anch’io concordo sulla tesi dell’anima come “continuità personale” dell’individuo. In precedenza l’ho già sostenuta e avvalorata. Concordo anche sul fatto che il buddhismo implicitamente, anche se non esplicitamente, la riconosca. Questo però cosa significa: che l’anima individuale è destinata a sopravvivere al corpo che l’ha ospitata fin quando questo è rimasto in vita?

Anche qui mi trovo davanti a un salto logico, che non sono disposto a fare.

Per me è legittimo affermare l’esistenza di una realtà psichica individuale e sono anche disposto a chiamarla, per convenzione terminologica, “anima”. Non sono disposto, però, a parlare di immortalità dell’anima. Il fatto che lo faccia il Dalai Lama attualmente vivente non è per me argomento sufficiente a favore di tale tesi.

Certo, il buddhismo afferma la teoria delle “rinascite successive”! Ma, come riconosce lo stesso Mancuso, secondo questa teoria ciò che trasmigra in altre vite non è l’individuo, non è la sua “anima immortale, quanto piuttosto l’operato dell’individuo, l’influenza e il carico morale delle sue azioni”.

Di cui io colgo l’inconfutabile nucleo di verità: ognuno di noi lascia, soprattutto alle persone che più gli sono state vicine e alle generazioni successive, l’eredità di un insegnamento e di una testimonianza personali, nella loro eventuale valenza positiva come in quella eventualmente negativa.

Ma questo cosa ha a che fare con la teoria dell’immortalità dell’anima? Nulla!

Almeno sotto questo punto di vista a me pare, dunque, che il Buddhismo si dimostri come sistema di pensiero molto più “laico” e, soprattutto, più teoreticamente rigoroso di Vito Mancuso; le cui riflessioni sono comunque per me molto stimolanti e quindi degne di tutta la mia stima e il mio apprezzamento, anche quando non le condivido o le condivido solo in parte.

© Giovanni Lamagna

Alcune semplici e brevi riflessioni sul concetto buddhista di “nirvana”.

Il concetto buddhista di “nirvana” non è esente da ambiguità e, quindi, da possibili fraintendimenti.

Infatti, può essere inteso (e da alcune scuole buddhiste viene inteso) come rinuncia totale a qualsiasi desiderio, in quanto nel desiderio risiederebbe la radice stessa della sofferenza umana.

Secondo questa interpretazione la rinuncia radicale e totale ai desideri metterebbe fine alle sofferenze.

Per cui, da questo punto di vista, la morte sarebbe la condizione che meglio realizzerebbe questa condizione nirvanica.

L’altro modo di intendere il “nirvana” è meno radicale ed estremo: non prevede la rinuncia totale al desiderio, ma solo il non attaccamento all’oggetto del desiderio.

Non dunque la rinuncia al desiderio in sé, inteso anzi come pulsione necessaria alla affermazione della vita, ma la rinuncia alle manifestazioni compulsive ed ossessive del desiderio, ai falsi bisogni, che non si riescono a padroneggiare, ma di cui si perde il controllo, fino, in certi casi, a diventarne schiavi.

Non la rinuncia pertanto al desiderio correttamente inteso, ma alla brama, alla bramosia, che sono degenerazioni del desiderio.

E’ questa l’interpretazione in genere prevalsa nel mondo occidentale tra coloro che hanno aderito al buddhismo o simpatizzato con esso, perché, con tutta evidenza, è quella che meglio si concilia (o perlomeno non vi si contrappone del tutto) con il modo di pensare e di vivere prevalente presso le nostre culture.

Anzi va pienamente d’accordo con le principali correnti ascetiche e mistiche della tradizione occidentale, coincide sostanzialmente con esse.

Io, però, non sono del tutto convinto che sia questa seconda l’interpretazione più esatta del pensiero di Buddha, il quale non a caso parlava di due tipi di nirvana: il “nirvana con residuo” e il “nirvana senza residuo”.

Il primo si ottiene appunto con il distacco emotivo e mentale dall’oggetto del desiderio; ma non può che essere parziale, in quanto libera dalle sofferenze della mente, ma non da quelle del corpo.

Il secondo si ottiene unicamente con la morte, la quale sola estingue, spegne ogni soffio vitale, realizzando quella condizione che è espressa dalla radice etimologica della parola (“nir”: non + “va”: soffio).

Per cui lo stato pieno del nirvana si raggiungerebbe solo con lo spegnimento totale della vita e non col semplice distacco dagli oggetti del desiderio, raggiunto attraverso una particolare ascesi della volontà e del pensiero.

© Giovanni Lamagna