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Freud: pensatore conservatore o progressista?
Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.
Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.
Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?
No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.
Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.
Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).
E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.
Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.
Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:
“Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.
Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.
Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.
Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)
Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.
Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.
© Giovanni Lamagna
La politica deve essere necessariamente una professione?
Il terzo mito filosofico da sfatare è quello della “politica come professione”. Che allude immediatamente e inevitabilmente al titolo (“Politik als Beruf”) della famosa conferenza tenuta da Max Weber nel 1919.
Chi intende la politica essenzialmente come una professione, infatti, spesso si rifà all’autorevolezza del grande pensatore tedesco per avvalorare la sua tesi, dimostrando di non aver letto bene o di non aver letto per niente lo scritto di Weber.
Infatti, a leggere bene il testo di Weber, non emergono affatto argomenti a sostegno della tesi che la politica debba essere terreno esclusivo degli specialisti, anzi dei professionisti della politica.
Innanzitutto perché il termine “Beruf” in tedesco può essere inteso sia come “professione” che come “vocazione”. E poi perché dalle argomentazioni che porta avanti Weber sembra che egli abbia voluto dare al termine più la seconda accezione che la prima.
E comunque qui io non voglio appoggiarmi tanto all’autorità intellettuale di Max Weber, ma provare a fare un ragionamento autonomo. Che tende a replicare a due argomenti forti di chi sostiene la tesi della “politica come professione”.
I due argomenti sono: 1) la politica richiede competenze specialistiche; 2) la politica richiede esperienza.
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Al primo argomento così replico. Certo la politica richiede competenze specialistiche. Non credo affatto che la casalinga di Voghera possa andare al governo del Paese e governare bene. Né che “uno valga uno”, come sostengono i 5 Stelle.
Ritengo, infatti, che per occuparsi di questioni economiche occorra essere degli economisti, che per occuparsi di questioni scolastiche occorra essere esperti del mondo della scuola, che per occuparsi di questioni sanitarie occorra essere esperti del mondo della sanità, che per occuparsi di infrastrutture occorra essere degli ingegneri, che per occuparsi della questione della giustizia occorra essere dei giuristi e così via…
Ma, se questo è vero, allora il punto è mettere al posto giusto, per decidere delle questioni che riguardano il bene comune (cioè la politica), le persone giuste, cioè dei tecnici competenti. E non il politico di professione, che magari non capisce niente delle questioni tecniche di cui si dovrà occupare ed ha come unico titolo quello di fare il “politico di professione”.
E non mi si venga a dire che per fare il ministro o l’assessore non occorre essere competenti delle questioni di cui si occupa un certo ministero o un certo assessorato, perché il ministro o l’assessore deve avere e dare una linea politica e non essere un tecnico esperto della materia specifica di un ministero o di un assessorato.
Perché a questa obiezione rispondo: ma la linea politica riguardante un determinato settore di problemi mica nasce in un empireo astratto, separato dalle questioni concrete; si forma, invece, analizzando le questioni concrete e confrontando, diverse ipotesi di soluzione, per poi sceglierne una, certo anche in base ad una determinata line politica, ma non certo prescindendo da un obiettivo esame tecnico dei problemi.
Se il ministro o l’assessore delle questioni concrete facenti capo al suo ministero o al suo assessorato, non capisce niente, come farà a scegliere tra le varie ipotesi di soluzione?
Non sto manco dicendo (come dicono i 5 Stelle) che le questioni sono solo tecniche e che fare scelte politiche significa dare semplicemente soluzioni tecniche ai problemi. Perché non esisterebbero soluzioni di destra, di sinistra o di centro, esisterebbero solo “le soluzioni”, come fatti esclusivamente tecnici e, quindi, neutri.
Questa è un’emerita sciocchezza, contraddetta, tra l’altro dalla stessa esperienza politica dei 5 Stelle, che hanno rotto con la Lega sulle soluzioni politiche da dare alle questioni tecnico-politiche che via, via si ponevano. Segno evidente che ai problemi si posso dare soluzioni tecniche diverse, la cui diversità è data dal loro diverso segno politico.
Sto solo dicendo (e lo ribadisco di nuovo) che le soluzioni politiche non possono prescindere da un esame tecnico dei problemi. La scelta sulla TAV (per fare un solo esempio) è di natura squisitamente e prevalentemente politica (nel senso che dipende in ultima istanza dalla visione politica dello sviluppo e di ciò che si intende per “progresso”, che ciascuna forza politica ha).
Ma non può prescindere da una valutazione (anche) tecnica dei costi (non solo economici) ed degli eventuali benefici, che l’opera comporta.
Qual è allora la mia proposta per selezionare e scegliere il personale politico destinato a ricoprire determinati ruoli politico-istituzionali?
La mia proposta è quella di “pescare” nella società civile le competenze professionali migliori nei vari settori della vita economica e culturale. E affidare loro incarichi politici, cioè istituzionali, collegati alle loro competenze.
Ma per periodi non troppo prolungati. Conclusi i quali, il “professionista politico” (che è cosa ben diversa dal “politico di professione”) tornerà a svolgere la professione per cui si è formato e che praticava prima di “entrare in politica”.
In questo caso il professionista in questione non sarebbe “prestato alla politica”, come si suol dire oggi con un’espressione a mio avviso impropria, ma sarebbe semmai “prestato alle Istituzioni”.
Nessuno di noi può essere, infatti, “prestato alla politica”, perché ciascuno di noi è “politico” nella sua essenza, è politico vita natural durante e in ogni atto che compie. Non si entra in politica, perché si è già politici per il semplice fatto di essere cittadini. Semmai si entra nelle istituzioni: che è cosa diversa.
In questo modo, secondo questo mio criterio, nessuno diventerebbe mai “politico di professione”, non ci sarebbero più i cosiddetti “professionisti della politica”, e, nello stesso tempo, la politica avrebbe a sua disposizione le professionalità migliori presenti nel campo della cittadinanza, cioè della cosiddetta “società civile”.
Questo tipo di selezione garantirebbe, oltretutto, al massimo l’autonomia e l’indipendenza dell’uomo politico, il quale non verrebbe mai a trovarsi nella condizione di quei chierici che perdono la vocazione ma sono costretti a continuare a fare i chierici perché questo è anche il loro mestiere, quello che garantisce loro il reddito con cui vivere.
E nello stesso tempo limiterebbe al massimo il rischio che la categoria degli uomini a cui affidiamo la nostra rappresentanza e, soprattutto, la gestione delle nostre Istituzioni, si costituisca, come spesso è avvenuto in passato e come avviene ancora tuttora, in corporazione separata dagli altri cittadini e, quindi, come vera e propria casta.
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Al secondo argomento (“la politica richiede esperienza”) replico con le argomentazioni che seguono.
Certo, la politica richiede esperienza!
E, infatti, le scelte politiche non possono essere improvvisate: richiedono competenze tecniche, professionali (come abbiamo visto in precedenza); e le competenze uno o ce le ha o non ce le ha, non se le può inventare solo perché fa il politico di professione.
E questo è quindi (come abbiamo già visto) un argomento non a favore, ma semmai contro il concetto di “politica come professione”.
In secondo luogo, se la politica richiede esperienza, non ci si improvvisa politici. Perché le relazioni politiche richiedono ponderazione, capacità di dialogo, di diplomazia, di compromesso, conoscenza della vita, saggezza e chi più ne ha più ne metta.
Tutte doti, qualità, che possono anche essere innate in alcuni casi (lo dubito, però), ma che nella maggior parte dei casi, si maturano col tempo, con l’avanzare dell’età.
Questo va contro un vezzo oggi molto diffuso in politica, dopo la vertiginosa ascesa del giovane Renzi (seguita da una altrettanto vertiginosa e ben meritata sua caduta): quello che, se hai superato una certa soglia di età non sei più buono per fare politica, per ricoprire incarichi istituzionali, vai rottamato.
Magari sei buono per lavorare in miniera o presso un altoforno, ma non lo sei più per la “politica”.
La mia tesi sostiene esattamente il contrario: io penso che in politica più sono alti i livelli degli incarichi istituzionali da ricoprire e più bisogna affidarli a persone di età avanzata (non sto parlando, ovviamente, degli ottuagenari, come Napolitano, ad esempio). Perché gli anziani sono, appunto, dotati di esperienza (come ci hanno insegnato bene i Romani, per i quali i “senatores” erano appunto gli anziani).
Trovo singolare, quindi, che chi sostiene la tesi del “professionismo in politica” trovi poi del tutto naturale, anzi addirittura auspicabile, che vengano affidati incarichi istituzionali (perfino nel governo nazionale) a uomini e donne quarantenni o, addirittura, trentenni.
Per me l’esperienza necessaria in politica significa innanzitutto questo: che prima di una certa età non puoi (e non dovresti) ricoprire determinati incarichi istituzionali, perché potrai anche essere uno scienziato, ma non ne hai (appunto!) l’esperienza (quantomeno quella umana).
Come dimostra, ad esempio, da ultimo ma non da sola, la vicenda politica del 33enne Di Maio.
L’esperienza, quindi, per me (anche per me) necessaria in politica, non è quella maturata nella “professione della politica” (per intenderci, come funzionario di qualche organizzazione politica), ma piuttosto quella che matura cogli anni nel corso della vita in generale e nell’ambito delle professioni specifiche in particolare.
E’ di questa esperienza che le Istituzioni hanno un imprescindibile bisogno ed è questo tipo di esperienza (e solo di questa) che non bisogna far mancare alla politica, cioè alla gestione pubblica, dei nostri quartieri, dei nostri comuni, del nostro Paese.
Della esperienza dei “funzionari di partito” possiamo, invece, benissimo fare a meno. Questi, infatti, tendono a fare più i loro interessi personali o, tutt’al più, quelli dell’organizzazione di cui sono parte, che gli interessi comuni della collettività, da cui spesso anzi si sentono “separati”, quasi fossero una casta a parte.
Giovanni Lamagna
(4, fine)
L’impegno politico e la volontà di potenza
L’uomo politico deve necessariamente essere guidato dall’aspirazione al potere, essere dominato dall’ istinto di potenza?
In un passaggio del suo “La politica come professione” Max Weber scrive a proposito del professionista della politica: “L’aspirazione al potere è lo strumento con cui egli si trova ad operare. L’istinto di potenza –come si usa dire – fa in effetti parte delle sue normali qualità.”
Sembra, insomma, – a leggere queste parole di Weber – che l’uomo politico o è un uomo di potere o semplicemente non è. Che chi non persegue il potere, chi non abbia ambizioni legate al potere non sia adatto alla politica. Che insomma la politica si risolva in buona sostanza in uno scontro tra volontà di potenza, tra aspirazioni contrapposte al potere.
Weber, però, così prosegue il suo discorso, chiarendo meglio il suo pensiero iniziale e almeno in parte, a mio avviso, correggendolo: “E tuttavia il peccato contro lo spirito santo della sua professione ha inizio laddove quest’aspirazione al potere diviene priva di causa e si trasforma in un oggetto di autoesaltazione puramente personale, invece di porsi al servizio della causa. Vi sono infatti in ultima analisi soltanto due tipi di peccato mortale sul terreno della politica: l’assenza di una causa e – spesso, ma non sempre, si tratta della stessa cosa – la mancanza di responsabilità. La vanità, vale a dire il bisogno di porre se stessi in primo piano nel modo più visibile possibile, induce l’uomo politico nella fortissima tentazione di commettere uno di questi peccati, se non tutti e due insieme.”
In questa seconda parte del discorso di Weber le parole-chiave, a mio avviso, sono: – peccato; – causa; – responsabilità; – vanità.
La parola “peccato” sta a dirci che per Weber la professione del politico non solo non è al di sopra della legge, ma che non è manco al di sopra della morale (come molti tendono a ritenere, considerando questa idea quasi un assioma, come se una politica etica o un’etica politica fossero degli ossimori)
La parola “causa” sta ad indicare che la professione del politico si nobilita, trova un senso, se è al servizio di una causa. Una causa, con tutta evidenza, esterna a lui e superiore a lui. Quindi una causa che non coincide con lui
La “responsabilità” è appunto l’atto di assunzione da parte del politico di una causa che gli è esterna, anzi superiore, e al cui servizio dunque egli si pone. Il politico deve rispondere di una causa, ad una causa: in questo senso è responsabile. La politica per Weber, quindi, o è la servizio di una causa superiore o è “irresponsabile”, perciò “peccaminosa”.
La “vanità” è il vizio del politico che, anziché mettersi al servizio di una causa a lui esterna e a lui superiore, trova in sé la “causa” del suo agire. Il politico vanitoso è il politico che agisce per sé, per i suoi scopi e interessi di natura personale e non per una causa a lui esterna e a lui superiore. La vanità in questo senso è il peccato massimo del politico “contro lo spirito santo della sua professione”.
Ma, se questo è vero, allora viene da mettere in discussione la stessa premessa da cui Weber è partito. E cioè che l’uomo politico o è un uomo di potere o non è un vero uomo politico. La premessa per cui sarebbe connaturato all’uomo politico l’istinto di potenza.
Può, infatti, considerarsi uomo di potere, con un connaturato e congenito istinto di potenza, chi non agisce in nome e per conto dei propri interessi e bisogni, ma al servizio di una causa a lui esterna e a lui superiore? Chi non si muove e agisce per perseguire il suo bene privato e individuale ma il bene comune e collettivo?
A mio avviso no. Non si può fare di ogni erba un fascio ed accomunare tutti gli uomini politici sotto la categoria degli uomini di potere.
A mio avviso ci sono uomini politici che perseguono il potere, nel senso che a loro interessa in primo luogo il proprio utile personale, la propria carriera. E bisogna riconoscere che forse sono la maggioranza. Come si potrebbe negarlo? Sono sotto gli occhi di tutti noi. Sono gli uomini politici che negli ultimi tempi si è soliti definire con la categoria (tutta dispregiativa) della “casta”.
Ma ce ne sono anche altri, per quanto forse solo una minoranza, (valgano per tutti tre nomi, Gandhi, Martin Luther King, Mandela, che sono oramai entrati nella Storia) che si pongono essenzialmente al servizio di una causa, che questa causa non la tradirebbero mai, anche a costo di rinunciare al potere che sarebbe a loro portata di mano (se lo barattassero con la “causa”) e, perfino, al potere già raggiunto (laddove per mantenerlo dovessero “tradire la causa”).
Giovanni Lamagna