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Sesso e amore.
Quando il sesso è strappato con violenza, certo non vede la presenza dell’amore: in questo caso sarebbe assurdo parlare di amore.
Ma, quando il sesso è condiviso, è desiderato da entrambe le parti, non è mai totalmente privo di amore.
Anche se il rapporto finisse lì, un attimo dopo aver copulato; quell’attimo sarebbe stato pur sempre un momento di amore.
Breve, fine a sé stesso, ma pur sempre un momento di amore.
Come quando due persone si scambiano un sorriso in metropolitana o un uomo fa sedere al suo posto una signora.
Anche questi – in fondo – sono gesti di amore.
Piccoli, ma comunque gesti di amore.
© Giovanni Lamagna
Violenza e linguaggio.
Il ricorso alla violenza fisica presuppone sempre un deficit della capacità di pensiero e di linguaggio, denuncia sempre comunque una sconfitta del pensiero e del linguaggio verbale.
Questi, infatti, per loro natura, si fondano sul ricorso all’astrazione e al simbolico, come sublimazione, trasfigurazione del reale.
Quanto più, dunque, una persona è incapace di sublimare, in altre parole di pensare, traducendo in parole, in linguaggio verbale, la sua aggressività, tanto più è incapace di dominare e arginare i suoi impulsi aggressivi.
Allora la violenza fisica, che – in alcuni casi estremi – diventa addirittura omicida, resta la sua unica forma di linguaggio e di (paradossale) comunicazione.
© Giovanni Lamagna
La grandezza di Giorgio Gaber.
A mio avviso Gaber è stato grande sempre, anche agli inizi, quando faceva il rockettaro.
La sua grandezza ovviamente è stata confermata, anzi accresciuta, dal fatto che nel corso degli anni si è evoluto, ha avuto un percorso, è andato avanti, non è rimasto fermo al rock.
Anche se il suo non è mai stato un rock puro, rozzo, elementare; era un rock colto, mescolato col jazz; e questo sin dagli esordi.
Gaber è stato, oltre che un cantante meraviglioso, dalla voce calda e profonda, melanconica e allegra, dura e romantica allo stesso tempo, un formidabile uomo (anzi, animale) di spettacolo: cantava e parlava col volto e col corpo, oltre che con la bocca.
Lo si è visto subito, sin dalle sue prime apparizioni televisive; e, infatti, ha avuto da subito un grande successo.
Anche se il Gaber che resta di più nei miei ricordi e che ha segnato la mia vita negli anni ’70 è il Gaber del teatro-canzone; qui Gaber ha dato, secondo me, il meglio di sé, anche grazie alla collaborazione col grande Sandro Luporini.
Di questo Gaber, poi, in modo particolare ricordo (ed è questo il Gaber nel quale più mi riconosco) la capacità di denunciare – e la forza, il coraggio, l’anticonformismo con cui lo ha fatto – le derive involutive di una certa sinistra movimentista, quella che in una prima fase si era riconosciuta in lui e che lui a suo modo aveva rappresentato e che, infatti, cominciò a contestarlo, perché completamente priva di spirito autocritico, mentre Gaber, al contrario, era uno che si metteva continuamente in discussione.
La capacità di denunciare gli ideologismi, le astrattezze, la violenza (verbale e fisica), la cecità rispetto al dato personale e concreto (“voglio parlare di Maria”), il rivoluzionarismo parolaio, la finta democrazia assembleare; in questo ricordava – è evidente – il Pasolini degli “Scritti corsari”.
È questo il Gaber – anche se di lui mi piace (quasi) tutto, anche il primo, quello rockettaro – che resterà per sempre maggiormente nei miei ricordi e che ieri mi ha fatto ancora una volta piangere e commuovere, mentre vedevo il film documentario che gli ha dedicato Riccardo Milani a venti anni dalla sua morte.
© Giovanni Lamagna
Amore, frustrazione, aggressività, violenza.
In ogni amore c’è sempre una componente aggressiva.
Ogni amore, infatti, si deve confrontare prima o poi con la separazione/allontanamento, per quanto provvisori, dell’altro e con l’impossibilità di superarli del tutto.
Questa consapevolezza genera allora frustrazione e la frustrazione inevitabilmente l’aggressività; almeno come moto istintivo e iniziale dell’animo.
Il fatto poi che la consapevolezza e l’amore ci consentano di tenere a bada e non agire questa aggressività non vuol dire che essa non sia insorta e che in alcuni casi duri anche nel tempo.
Questa dinamica la si vede benissimo nei bambini.
Capita, infatti, che essi, mentre stanno giocando allegramente e gioiosamente con la madre o con il padre, in un’atmosfera che a volte sembra di armonia pura, perfetta, quasi magica, improvvisamente si rannuvolano e diventano aggressivi, perfino violenti.
È questo il loro modo di difendersi dall’amore, che li rende dipendenti dalle figure che amano, mentre sono ancora incapaci di gestire l’allontanamento, per quanto solo provvisorio, dei loro genitori.
A dimostrazione che amore, frustrazione, aggressività e, persino, violenza sono sentimenti che lungi dall’essere inconciliabili e del tutto estranei, molto spesso si legano l’uno all’altro e si alternano tra di loro nella stessa persona e verso la stessa persona.
© Giovanni Lamagna
Legittima difesa e nonviolenza.
Ho la ferma, solida, intuizione (non arrivo alla presunzione di definirla “convinzione”) che la violenza contraccambiata sia solo uno dei modi coi quali si possa (qualcuno invece presuntuosamente, arriva a dire: si debba) reagire alla violenza ricevuta.
Certo, la risposta violenta è sicuramente quella più istintiva, quella che viene più immediata e facile; e (forse per questo) quella che finora ha prevalso nella storia delle relazioni umane, soprattutto tra le Comunità e gli Stati.
Il concetto di “difesa legittima” (per quanto limitato dal carattere della giusta proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta) è parte integrante del diritto di tutti gli Stati, anche di quelli più democratici e tendenzialmente pacifisti.
Ed è stato assunto perfino dalla morale cristiana, in modo particolare da quella cattolica; anche se negli ultimi decenni molti pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche hanno cominciato a metterlo seriamente in discussione.
Eppure è mia profonda sensazione che alla reazione violenta in risposta all’azione violenta subita possano esserci delle alternative, concretamente praticabili; e che, prima o poi bisognerà cominciare ad attuarle, se l’Umanità vorrà evitare di mettersi (se non si è già messa) sul pendio scosceso che la porterebbe fatalmente verso la catastrofe atomica mondiale e, quindi, verso il suicidio.
Ritengo, infatti, che sia istintivo e, quindi, naturale reagire difendendosi con la violenza dalla violenza, ma che sia altrettanto naturale e forse persino istintivo (almeno per alcuni) provare ripugnanza per la violenza in sé, anche per quella eventuale difensiva e non solo (com’è ovvio) per quella eventuale subita.
Chi prova ripugnanza istintiva, direi addirittura fisica prima che morale, verso ogni forma di violenza, avverte intimamente e profondamente che dovrà reagire con metodi non violenti alla violenza di cui sarà oggetto, che “all’occhio per occhio, al dente per dente” dovrà sostituire, se non proprio la scelta evangelica del “porgere l’altra guancia”, una difesa attiva nonviolenta.
Anche a costo di risultare inizialmente perdente e di dare scandalo, apparendo codardo agli occhi di chi non vede e non concepisce alternative alla “legittima difesa violenta”.
Ma tant’è: qui si confrontano due visioni del mondo, che entrambe hanno, a mio modesto parere, dei fondamenti di razionalità.
Anche se a chi ne sostiene una (specie a chi non vede alternative alla “legittima difesa violenta”) risulterà difficile riconoscere i fondamenti di razionalità (e, quindi, di legittimità) dell’altra.
La mia previsione è che non sarà la preveggente autocoscienza (come sarebbe auspicabile, anche se forse è pura utopia) ma la storia e solo la storia a stabilire (quindi – purtroppo! -solo a posteriori) quale di essa era la più saggia e lungimirante.
Spero solo che non sarà una storia tragica, anzi apocalittica.
Come temo, invece, sarà, se l’Umanità non si deciderà a fare (quanto prima, non ci resta molto tempo a disposizione) una scelta radicale di nonviolenza.
Che poi – sia detto qui solo per inciso; il discorso richiederebbe ben altro spazio – non vuol dire affatto arrendersi passivamente alla violenza subita (come la caricatura propagandistica che ne fanno i “militaristi” tende a far passare nel comune immaginario), ma significa fare ricorso ad altre forme di conflitto, diverse da quelle pur legittime (almeno in sede teorica) della difesa violenta, dell’occhio per occhio, dente per dente.
© Giovanni Lamagna
Sullo spot della Esselunga.
Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.
Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.
Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.
E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.
Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.
Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.
Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?
Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?
Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?
Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?
© Giovanni Lamagna
Amore e odio, paura e desiderio: osservando un bambino.
Osservando un bambino potremmo renderci conto direttamente e direi empiricamente, quindi perfino scientificamente, di quanto siano fondate alcune tesi di Sigmund Freud (grande osservatore della vita umana), che magari facciamo fatica a condividere con la nostra sola razionalità e in mancanza di verifiche in laboratorio.
Due in particolare me ne vengono in mente.
La prima è che l’amore non si può mai separare dall’odio, che l’amore è sempre mischiato, intrecciato, impastato con l’odio.
Basta osservare – per averne conferma – il comportamento di un bambino, verificare come egli sia capace di passare quasi all’improvviso da un atteggiamento di grande tenerezza, affettuosità, quindi amore, ad un atteggiamento di grande aggressività, perfino di violenza, in certi casi solo verbale, in altri persino fisica, verso la madre e il padre, cioè verso le persone di gran lunga più significative e importanti nella sua vita affettiva.
La seconda tesi di Freud che mi sembra largamente confermata dall’osservazione del comportamento (in modo particolare) dei bambini è che desiderio e paura (come i “totem” e i “tabù” dei popoli primitivi) viaggiano di pari passo, camminano sempre insieme, sono associabili.
Lo verificavo l’altro giorno in maniera plastica giocando con un mio nipotino, Marco, che ha poco più di tre anni.
Marco ha sviluppato da sempre, fin dal suo primo compleanno, una sorta di paura/timore al momento del taglio della torta e, soprattutto, dello stappo dello spumante.
Il solo rumore del tappo estratto dalla bottiglia lo fa sobbalzare e quasi lo terrorizza.
Per cui, quando arriva il momento di stappare la bottiglia, egli chiede di farlo piano, piano, in modo da non fargliene sentire il rumore, che lo farebbe saltare per la paura.
Qualche giorno fa io e la nonna giocavamo con lui a tombola.
Sopra il panierino contenente i numeri del gioco noi abbiamo messo un tappo di spumante per impedire che i numeretti ne fuoriescano.
A lui è venuta, allora, spontanea l’associazione panierino/spumante.
Abbiamo, quindi, preso a giocare (ce ne ha dato lui l’idea) con il suo timore dello stappo.
Togliendo il tappo che chiudeva il panierino, abbiamo mimato con la bocca il rumore dello stappo e ci siamo accorti che lui saltava, ma allo stesso tempo rideva, facendoci chiaramente intendere che la cosa gli faceva al contempo paura e piacere.
Il piacere di entrare in contatto con la sua paura, di affrontarla e superarla.
Abbiamo ripetuto questo gioco più volte e con molto divertimento, anche su suo invito e sollecitazione.
Ecco una dimostrazione semplice, ma palmare, della veridicità e persino verificabilità della tesi freudiana.
© Giovanni Lamagna
Sesso e consenso.
Nel sesso tutto è moralmente (oltre che giuridicamente) lecito, se incontra il consenso libero dell’altro/a e se non offende la sensibilità, il “senso del pudore” di terzi.
Sono leciti tutti i desideri, tutte le fantasie, tutte le parole, tutte le posizioni, tutte le situazioni, perfino quelle che una volta la psichiatria giudicava “perversioni”.
Dal momento che – come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, rivoluzionando la psichiatria classica – la sessualità umana, al contrario di quella bestiale, è per sua natura “perversa e polimorfa”.
Nel senso che l’uomo riesce, quando vuole, a separarla (perciò, “perversa”) dal suo scopo biologico primario, quello della procreazione, ed è capace di viverla nelle forme più varie e diverse (perciò, “polimorfa”).
Ovviamente per consenso libero si intende un consenso non comprato, non ricevuto per circonvenzione d’incapace, né, tantomeno, estorto con la violenza fisica o morale.
Ogni riferimento a Silvio Berlusconi (pace all’anima sua!) è puramente casuale; anche se la sua morte recente mi ha dato lo spunto per questa riflessione.
© Giovanni Lamagna