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Lettera aperta a Franco Arminio.

Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.

Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.

Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.

L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).

La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.

Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.

Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.

Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.

Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.

Non so se queste parole ti esprimono?

Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.

Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,

Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire amarsi?

In premessa dico che il livello dell’amore tra due persone non è dato (almeno per me) dal tempo che trascorrono assieme e, meno che mai, dalla quantità di parole che si rivolgono e di discorsi che fanno tra loro.

“Amarsi” per me vuol dire innanzitutto condividere – almeno nelle sue linee fondamentali – la stessa visione del mondo.

L’amore tra due persone, insomma, come altri più autorevoli di me hanno già detto, non sta tanto nel fatto che si guardano continuamente negli occhi, ma piuttosto nel fatto che guardano e camminano entrambe nella stessa direzione.

© Giovanni Lamagna

La nostra personale visione del mondo.

“Il modo in cui i genitori guardano il mondo è il patrimonio più fondamentale che lasciano al figlio. Lo sguardo sul mondo è il primo dono che facciamo al figlio che viene al mondo,” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; pag. 54)

Ho sempre pensato anch’io che la nostra personale visione del mondo fosse/sia il bene più prezioso che ciascuno di noi possiede.

Quindi condivido pienamente, assolutamente il pensiero di Recalcati: la nostra visione del mondo è il bene più prezioso che possiamo lasciare in eredità ad un nostro figlio.

Più dei soldi, più delle case, più di qualsiasi altro bene materiale; molto di più.

© Giovanni Lamagna

Nelle nostre scelte morali viene prima la teoria o prima l’esperienza?

Nel suo “La filosofia come modo di vivere” (Piccola Biblioteca Einaudi, 2008) Pierre Hadot, a p. 255, a proposito della famosa regola “non fare all’altro quello che non vorresti che fosse fatto a te”, sostiene che “questo principio non si fonda su nessuna filosofia, è legato all’esperienza umana”.

Io sono in parte d’accordo e in parte no con questa sua tesi.

Sono d’accordo perché, a mio avviso, la famosa “regola d’oro” a cui fa riferimento Hadot è figlia di un pre-giudizio (nel senso che essa viene assunta in prima battuta da una scelta emotivo-affettiva) piuttosto che di un vero giudizio (e, quindi, di un atto compiutamente filosofico).

La “regola d’oro” si fonda su un certo tipo di esperienza umana piuttosto che su una considerazione teorica, intellettuale.

Un’esperienza umana che, nel caso specifico della “regola d’oro”, deve essere per forza di cose positiva, potremmo anche dire “buona”, nel senso che sorride alla vita e non ne è certo rattristata, depressa; che inclina, propende per questo verso una visione ottimistica della vita e non verso una pessimistica.

E tuttavia – noi lo sappiamo bene – ci sono molti uomini per i quali la vita non è stata e non è affatto favorevole, ma è stata ed è piuttosto sfavorevole, uomini ai quali la vita ha riservato più male che bene e che, di conseguenza, non sono portati ad avere dell’esistenza un giudizio positivo, ma piuttosto uno negativo.

Per questo tipo di uomini allora la “regola d’oro” ha poco senso, anzi in alcuni casi non ha alcun valore, è inapplicabile.

Per questo tipo di uomini vale piuttosto la legge hobbesiana che “homo homini lupus”.

In altre parole, dunque, il giudizio sulla vita più che su considerazioni di carattere filosofico, quindi teoriche, si fonda sulle esperienze di vita, soprattutto su quelle primarie, vissute durante l’infanzia.

Ha poco a che fare con analisi teoriche e razionali, ma piuttosto con le emozioni fondamentali che hanno dato un imprinting incancellabile, sin da subito, alla nostra esistenza.

In questo sono perciò del tutto d’accordo con l’affermazione di Pierre Hadot, dalla quale è partita questa mia riflessione.

D’altra parte è anche vero, però, e in questo non sono d’accordo con Hadot, che quello che potremmo definire una specie di pre-giudizio fondato su esperienze di vita concrete, reali, più che su analisi teoriche, si trasforma poi, in genere, in un vero e proprio giudizio teorico, che fonda (o perlomeno può fondare) addirittura l’orientamento filosofico di cui ciascuno di noi (in maniera più o meno conscia e consapevole) è portatore.

Per cui le nostre azioni, il nostro agire, potremmo dire perfino il nostro stesso stile di vita, si adeguano, conformano a questo giudizio e orientamento teorico.

Sono figli (almeno in una certa misura, soprattutto in età adulta) anche della visione del mondo (quindi della filosofia, più o meno elaborata) che si è venuta formando in noi nel corso degli anni.

Perciò sono portato a dire (su questo in dissenso con Hadot) che ogni orientamento etico (da quello più ottimistico e solidaristico, di cui la regola d’oro è la massima espressione, a quello più cinico e pessimistico, di cui la famosa massima hobbesiana è l’altrettanto massimo paradigma) si fonda sempre e necessariamente su una (per quanto rozza, minima, appena abbozzata) teoria (diciamo pure filosofica) dell’uomo e dell’Umanità, intesa come l’insieme degli uomini e delle relazioni che essi intrattengono tra di loro.

In altre parole e in estrema sintesi possiamo dire che la visione del mondo di cui siamo portatori si fonda sempre su un’esperienza di vita iniziale, più o meno positiva, solare, ottimistica o, per contro, negativa, ombrosa, pessimistica, che l’avrà influenzata e segnata.

Ma che la visione del mondo che ci siamo formata, soprattutto in età infantile e adolescenziale, a sua volta darà forma alle esperienze di vita successive, le condizionerà e, in alcuni casi, le determinerà, dando un certo colore o un altro alla nostra esistenza.

© Giovanni Lamagna

Possiamo fare a meno di una nostra visione del mondo?

Krishnamurti, nel suo libro “La quiete della mente” (Ubaldini, Editore; 2021), a pag. 100, così scrive: “… i sistemi non purificano la mente e non liberano il cuore dalle cose della mente.”

Per “sistema” egli intende “un metodo”, “un ideale”, “un credo”, una “fede”, “un particolare modello di attività”.

Cosa penso di una tale tesi?

Penso che – in linea teorica e di principio – Krishnamurti abbia ragione: i sistemi in qualche modo ci limitano, ci ingabbiano, ci condizionano.

Allo stesso tempo, però, ritengo che non possiamo fare a meno dei “sistemi”, cioè di una certa visione del mondo; non possiamo prescinderne.

D’altra parte, in fondo, lo stesso Krishnamurti porta avanti, propugna una sua particolare visione del mondo, quindi un suo sistema di vita.

E allora?

Credo che la parte di verità di quello che dice Krishnamurti stia in questo: ciascuno di noi non può fare a meno di avere un suo sistema di vita, una sua visione del mondo.

Non deve però chiudersi in questo sistema e diventarne prigioniero.

Il suo sistema deve rimanere aperto ai cambiamenti, sempre.

Deve essere disponibile ad evolvere, financo, se è il caso, a negare sé stesso.

La vita è, infatti, movimento.

Pertanto tutto ciò che contribuisce a fermarla, bloccarla (anche le cose che per un certo tempo e fino ad un certo momento ci hanno reso felici) è negativo, perché interrompe o, quantomeno, ostruisce il nostro flusso vitale.

Bisogna avere (è impossibile non averla) una propria visione del mondo; senza di essa deraglieremmo come un treno uscito fuori dai binari, oscilleremmo come una canna al vento.

Ma la nostra visione del mondo deve essere e restare sempre aperta, disponibile ad essere messa in discussione in qualsiasi momento.

© Giovanni Lamagna

Thomas Hobbes e la mia visione del mondo.

Voglio riportare qui alcune affermazioni, tra le più esemplificative, di Thomas Hobbes (1588-1679) per confrontarmi col suo pensiero e definire, anche grazie a questo confronto, chiaramente il mio di pensiero, sulle questioni da lui – nei passi citati – affrontate:

La condizione dell’uomo è una condizione di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo. In questo caso, ognuno è governato dalla propria ragione e non c’è niente di cui egli può far uso che non possa essergli di aiuto nel preservare la sua vita contro i suoi nemici… Ne segue che in una tale condizione ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo.” (dal “Leviatano”; I, IV).

 “Vi è in primo luogo, come una inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e senza tregua di un potere dopo l’altro che cessa solo nella morte.” (dal “Leviatano”; I, XI).

 “È vero che certe creature viventi, come le api e le formiche, vivono in società fra loro, e per questo sono da Aristotele annoverate fra le creature politiche, e tuttavia non hanno altra guida che quella del loro particolare giudizio o desiderio, non hanno la parola con la quale ognuna di esse possa indicare a un’altra ciò che ritiene di utilità comune per loro; di conseguenza qualcuno forse desidererà sapere perché l’umanità non possa fare allo stesso modo. Al che io rispondo: in primo luogo gli uomini sono in continua competizione per l’onore e la dignità, cose che quelle creature non conoscono nemmeno, e di conseguenza fra loro sorgono per questa ragione invidia e odio e infine guerre: fra quelle creature invece niente di tutto questo; in secondo luogo fra quelle creature il bene comune non differisce da quello privato, per cui essendo esse per natura spinte a cercare il loro bene privato procurano per ciò stesso il bene di tutti.” (dal “De cive”).

Molti studiosi hanno esaltato in passato ed esaltano ancora oggi il pensiero di questo filosofo britannico, considerato uno dei principali punti di riferimento del pensiero politico moderno, come esaltano quello di Machiavelli (1469-1527), col quale esso ha molte concordanze.

Io, invece, non riesco ad apprezzarlo profondamente, meno che mai a condividerlo.

La sua, infatti, mi appare una visione del tutto unilaterale e parziale dell’Umanità; apparentemente e fintamente aderente alla realtà, in realtà molto deformante della realtà.

Non ci sono dubbi che molti uomini sono come li descrive Hobbes; ma questo non vuol dire che tutti gli uomini lo siano.

Non è affatto vero, infatti, che tutti gli uomini desiderino “senza tregua… un potere dopo l’altro”.

Non è affatto vero che tutti gli uomini siano in “continua competizione”tra di loro.

Infatti, ci sono oggi e ci sono stati in passato tanti uomini e donne (la Storia ne è piena; io stesso ne ho conosciuti tanti e tante di persona) che non ambiscono affatto ad avere più potere; il fine della vita per loro non è il potere, ma altro, ben altro!

Come ci sono tanti uomini e donne che vivono in spirito di collaborazione e cooperazione (in certi casi perfino di solidarietà, amicizia ed amore) coi loro simili, senza alcuno spirito di prevaricazione o invidia o gelosia, meno che mai in un clima di odio o conflitto.

Hobbes vede e descrive solo una parte dell’Umanità, non vede e non descrive un’altra parte di umanità, che pure esiste e che, forse, è addirittura maggioritaria.

In ogni caso è quella che, nonostante tutto, da sempre tiene in piedi il mondo, impedendo che esso vada in rovina.

Perlomeno ha impedito finora che andasse in rovina.

La realtà non è solo quella che ha descritto Hobbes (“homo homini lupus”, in guerra continua l’uno con l’altro; il mondo come una giungla), ma anche quella di tanti uomini e donne che si vivono come fratelli, impegnati nella costruzione di comunità dove regna la pace e la cooperazione.

© Giovanni Lamagna

La vita è solo sofferenza?

Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.

Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.

Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.

Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.

Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.

D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.

Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?

In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.

Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.

Ad un unico male – almeno per ora –  non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.

E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.

Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.

Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.

E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.

Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.

Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!

© Giovanni Lamagna