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Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.

Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.

Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.

In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.

Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.

In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.

Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.

Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.

p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.

Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.

© Giovanni Lamagna

In memoria di Toni Negri.

Lo dico subito: a me Toni Negri non stava simpatico.

Ora che è morto provo ovviamente un sentimento di rispetto e di umana pietà, che è sempre giusto e naturale provare di fronte al fine vita di ogni essere umano.

Ma non posso esimermi dall’esprimere un mio giudizio franco sulla sua persona, anche, anzi proprio in nome del rispetto di cui prima.

Per me Toni Negri era il classico intellettuale, impegnato politicamente, che presumeva di parlare del popolo, anzi in nome del popolo, senza farne concretamente parte.

Il suo pensiero è stato, infatti, totalmente incapace di intercettare le masse a cui pure pretendeva di rivolgersi; è rimasto in buona sostanza un pensiero largamente minoritario.

Quindi – possiamo dire – del tutto fallimentare, anche alla luce dei suoi presupposti, degli obiettivi che autonomamente si era proposto.

Non posso poi perdonargli la deriva violenta che (direttamente o indirettamente) ha contribuito a promuovere.

Il movimento degli anni ’70, di cui Negri è stato un indubbio protagonista, anzi leader e “maestro”, ha rappresentato per me l’involuzione nettamente negativa di tutte le istanze (ovviamente già in sé ambivalenti, ma molte fortemente positive) maturate nel decennio precedente.

Questa deriva ha avuto un tragico e decisivo ruolo – anche se naturalmente non è stata l’unico fattore a provocarla – nella sconfitta del (vero) movimento di massa dei lavoratori, che in quegli anni aveva raggiunto la sua massima forza, anzi imponenza.

Da allora sono cominciate le sconfitte, che oggi vedono il loro punto culminante; almeno così io spero; anche se non ne sono del tutto sicuro, perché ci sono tornanti della storia nei quali al peggio sussegue l’ancora peggio in una spirale (quasi) senza fine.

Negli ultimi anni – ho letto qualcosa in proposito: spero sia vero – mi è giunta notizia che sorrideva spesso e parlava di amore; sono contento per lui; questo potrebbe essere il segno che si è vissuta una vecchiaia più felice di quanto non sia stata (immagino) la sua travagliata vita precedente.

E questo – ripeto: se fosse vero – me lo rende anche, in questo momento, umanamente un po’ più simpatico e vicino di quanto non lo sia stato nei lunghi decenni trascorsi, in cui pure l’ho seguito, ma da posizioni molto, molto lontane dalle sue.

© Giovanni Lamagna

Lo snodo decisivo di ogni psicoterapia.

È il movimento che accade in ogni analisi: il soggetto incontra una verità che rifiutava accanitamente, pur dichiarando di averla voluta ricercare con tutte le sue forze. Questa verità coincide con il peggio di noi stessi.” (Massimo Recalcati; “Il segreto del figlio”; Feltrinelli 2017; p.53)

Io mi permetto di aggiungere: questa verità/rivelazione può essere talmente luminosa, solare, abbagliante, da accecare; da costituire quindi un trauma simile, pari per intensità, a quello da cui era derivata la rimozione della verità, che aveva poi provocato la nevrosi.

Tanto è vero che l’analisi, giunta a questo punto, può impantanarsi.

Perché da un lato il soggetto vuole sapere, in quanto inconsciamente coglie che, se non scopre la verità su sé stesso, egli non sarà mai libero (“…la verità vi farà liberi”; Vangelo di Giovanni 8, 32).

Dall’altro ha la sensazione che la scoperta della verità può essere talmente traumatica per lui da sommergerlo, da provocargli un tracollo psicotico peggiore della nevrosi da cui voleva guarire.

In questo snodo l’analisi gioca il suo esito, che non può mai essere dato per scontato quando inizia un percorso terapeutico.

Questo esito sarà positivo, evolutivo, progressivo, se il paziente sarà in grado di affrontare e reggere il peso della verità su sé stesso.

Sarà negativo, involutivo e regressivo, se il paziente non avrà il coraggio e la forza di reggerlo e vi si sottrarrà, preferendo continuare a coltivare illusioni su sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna

Misticismo e movimento.

I mistici non sono “statici”, come afferma Franco Ferrarotti, “in attesa dell’estasi”.

A parte che la parola “estasi” (dal greco “ἔκ: fuori” + “στασις: stato”) vuol dire, letteralmente, “uscita da”.

Uscita da dove?

Dal proprio Sé (quello, sì, statico) per andare verso l’Altro da sé.

L’ estasi comporta, quindi, per definizione, un movimento.

Come potrebbe allora avvenire questo movimento, se i mistici stessero fermi?

Ma poi i mistici non stanno semplicemente, passivamente, “in attesa dell’estasi”.

Essi sono alla ricerca, una ricerca attiva, dell’estasi; l’estasi è, appunto, il risultato finale, l’approdo, il frutto, potremmo anche dire il premio, di questa loro ricerca.

I mistici, dunque, si muovono eccome, al contrario di quello che pensa Ferrarotti.

Solo che si muovono con lo spirito, anche quando stanno fermi, immobili, col corpo.

E il movimento spirituale, quello che avviene nella contemplazione, che precede e si realizza compiutamente nell’estasi, è il più importante.

Ben più importante di quello che avviene semplicemente col corpo, quando il corpo compie alcune azioni esteriori.

© Giovanni Lamagna

Dio e/o inconscio.

Ciò che gli uomini chiamano da vari millenni “Dio” o “divino” per me altro non è che l’inconscio.

Nel duplice senso di “ciò che ci è ancora sconosciuto” e di “ciò che un tempo abbiamo conosciuto, ma abbiamo poi rimosso”.

L’aspirazione al “divino”, all’unità con Dio, altro non è che il desiderio di rendere conscio l’inconscio.

Il freudiano “Laddove c’era l’Es ci sarà l’Io” è dunque un movimento di natura squisitamente religiosa.

Direi (quasi) un’esperienza mistica.

Di espansione (volendo, continua e interminabile) del Sé cosciente, consapevole.

Qui l’allusione al concetto di “analisi terminabile e interminabile” di Freud, con tutta evidenza, non è casuale, ma del tutto voluto.

© Giovanni Lamagna

Noi, l’Altro e gli altri.

Se non ci apriamo all’Altro, non ritroveremo mai davvero noi stessi, il nostro vero Sé.

Il nostro vero Sé, infatti, è intrinsecamente duale: è fatto non solo di un Io, come si è naturalmente portati a pensare, ma di un Io e di un Tu; dunque di un Sé e di un Altro da sé.

E tuttavia – sia chiaro – l’Altro da sé non è l’altro, non sono gli altri.

Ma è l’Altro dentro di sé, con il quale l’Io si relaziona, prima di instaurare qualsiasi altra relazione fuori di sé.

Ricercare, dunque, gli altri fuori di sé senza aver prima ricercato e trovato l’Altro dentro di sé, è fuorviante, rappresenta una scorciatoia.

In questo caso gli altri sono, finiscono per essere, un surrogato inadeguato dell’Altro.

Se non troveremo prima l’Altro (dentro di noi), non saremo manco capaci di instaurare veri, sani, positivi rapporti con gli altri (fuori di noi).

Tutt’al più ci aggrapperemo agli altri, ne diventeremo dipendenti, se non succubi.

O ne diventeremo padroni, proprietari, tiranni, che è poi un altro modo (anche se paradossale) di essere dipendenti dagli altri.

L’Altro non è l’altro, ma è la pienezza dell’Io, che è (o, meglio, dovrebbe essere) già una relazione in sé: l’Io che si rapporta al Tu.

Senza l’Altro l’Io è monco, mancante, lobotomizzato.

Occorre, dunque, prima trovare l’Altro (dentro di sé), stabilire con l’Altro un colloquio interiore stabile, costante, profondo, e poi si possono cercare e trovare davvero gli altri (fuori di sé).

In questo caso non ci si aggrapperà agli altri, non si dipenderà da loro, ma ci si relazionerà a loro, in un rapporto, in un incontro, di interdipendenza (che è altra cosa dalla dipendenza) reciproca.

Un incontro che avverrà grazie a un movimento dell’uno verso l’altro, sullo stesso piano, cioè su un piano di parità, sincronicità, senza asimmetrie.

Ovverossia non dall’alto verso il basso o, viceversa, dal basso verso l’alto, come invece, purtroppo, accade spesso, se non nella maggior parte dei rapporti umani.

© Giovanni Lamagna

Possiamo fare a meno di una nostra visione del mondo?

Krishnamurti, nel suo libro “La quiete della mente” (Ubaldini, Editore; 2021), a pag. 100, così scrive: “… i sistemi non purificano la mente e non liberano il cuore dalle cose della mente.”

Per “sistema” egli intende “un metodo”, “un ideale”, “un credo”, una “fede”, “un particolare modello di attività”.

Cosa penso di una tale tesi?

Penso che – in linea teorica e di principio – Krishnamurti abbia ragione: i sistemi in qualche modo ci limitano, ci ingabbiano, ci condizionano.

Allo stesso tempo, però, ritengo che non possiamo fare a meno dei “sistemi”, cioè di una certa visione del mondo; non possiamo prescinderne.

D’altra parte, in fondo, lo stesso Krishnamurti porta avanti, propugna una sua particolare visione del mondo, quindi un suo sistema di vita.

E allora?

Credo che la parte di verità di quello che dice Krishnamurti stia in questo: ciascuno di noi non può fare a meno di avere un suo sistema di vita, una sua visione del mondo.

Non deve però chiudersi in questo sistema e diventarne prigioniero.

Il suo sistema deve rimanere aperto ai cambiamenti, sempre.

Deve essere disponibile ad evolvere, financo, se è il caso, a negare sé stesso.

La vita è, infatti, movimento.

Pertanto tutto ciò che contribuisce a fermarla, bloccarla (anche le cose che per un certo tempo e fino ad un certo momento ci hanno reso felici) è negativo, perché interrompe o, quantomeno, ostruisce il nostro flusso vitale.

Bisogna avere (è impossibile non averla) una propria visione del mondo; senza di essa deraglieremmo come un treno uscito fuori dai binari, oscilleremmo come una canna al vento.

Ma la nostra visione del mondo deve essere e restare sempre aperta, disponibile ad essere messa in discussione in qualsiasi momento.

© Giovanni Lamagna

Il confronto alimenta sempre l’insoddisfazione?

Nel capitolo intitolato “Il confronto alimenta l’insoddisfazione” (del libro “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; 2021; pag. 44-45) Jiddu Krishnamurti sostiene la tesi che gran parte del malcontento che affligge noi umani dipenderebbe dal fatto che tendiamo a fare continui paragoni, a confrontarci con gli altri “per stabilire chi ha di più o chi ha la cosa migliore”.

A paragonarci “senza soste con il nostro superiore, con il santo, con il ricco o con l’uomo al potere. O addirittura con un ideale o un’immagine che noi stessi ci siamo costruiti.”

Secondo Krishnamurti, questo costante mettersi a confronto genererebbe il nostro malcontento.

Io non condivido quasi per nulla o condivido solo molto parzialmente una simile idea.

Sono senz’altro d’accordo con Krishnamurti quando sostiene che sia sbagliato misurarsi nel confronto con gli altri; soprattutto quando questo confronto genera invidie e gelosie, che sono stati d’animo oltremodo malsani, che intossicano la nostra psiche e le nostre relazioni con gli altri.

Sono molto meno d’accordo con Krishnamurti, quando il confronto con gli altri genera una sana e positiva emulazione; sana e positiva perché attiva la parte migliore di noi, mette in moto le nostre energie, ci rende persone attive e in movimento e non statiche e passive.

Sono ancora meno d’accordo con Krishnamurti, anzi non lo sono per niente, quando il confronto avviene con un nostro Ideale dell’Io, quella che potrei definire anche la nostra vocazione interiore.

Perché sono profondamente convinto che l’uomo, per sua natura, sia portato a trascendersi, a diventare altro da sé, o meglio a diventare ciò che in sé è potenziale e non ancora in atto; a diventare in altre parole sé stesso.

Proprio ciò che Krishnamurti contesta, ravvisandolo come causa fondamentale del nostro malcontento.

Io, invece, penso che l’uomo senza questa spinta fondamentale a trascendersi sia destinato a ripiegare su stesso e a immalinconirsi; che stia proprio qui anzi una delle ragioni del suo malcontento, in certi casi persino della sua infelicità.

Questa è almeno la mia esperienza.

© Giovanni Lamagna

Gioia e timore della ricerca.

Ci sono persone dotate di spirito di ricerca e altre che vi sono refrattarie, che si chiudono a riccio, in difesa, timorose di fronte a tutto ciò che sa di ignoto e misterioso.

Preferiscono per questo la routine al movimento, la noia della ripetizione all’entusiasmo del mettersi continuamente in gioco.

Perché – come in parte è anche naturale – prediligono il noto all’ignoto, la sicurezza comoda del già conosciuto all’insicurezza rischiosa del non ancora conosciuto.

© Giovanni Lamagna