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“Reale” e “realtà”, simbolizzazione e sublimazione.

Per Lacan esiste una differenza tra il “reale” e la “realtà”.

La “realtà” è il “reale” nel quale è sopravvenuto il simbolico, è il reale attraversato dal simbolico, rivestito dal simbolico.

La “realtà” sopravviene per il soggetto, quando questi ha attraversato il conflitto edipico, ha vissuto cioè “la legge della castrazione”.

Il simbolico sopravviene quando il soggetto è capace di non godere più immediatamente della “Cosa”, di rinviarne il godimento, quando, in altre parole, è capace di sublimare.

Sublimare, in fondo, è la stessa cosa che simbolizzare.

Sublimare e simbolizzare costituiscono la coscienza, che in fondo è la presa di distanza dal “reale” allo stato puro, è la costituzione della diade “Io-Altro”.

© Giovanni Lamagna

Violenza e linguaggio.

Il ricorso alla violenza fisica presuppone sempre un deficit della capacità di pensiero e di linguaggio, denuncia sempre comunque una sconfitta del pensiero e del linguaggio verbale.

Questi, infatti, per loro natura, si fondano sul ricorso all’astrazione e al simbolico, come sublimazione, trasfigurazione del reale.

Quanto più, dunque, una persona è incapace di sublimare, in altre parole di pensare, traducendo in parole, in linguaggio verbale, la sua aggressività, tanto più è incapace di dominare e arginare i suoi impulsi aggressivi.

Allora la violenza fisica, che – in alcuni casi estremi – diventa addirittura omicida, resta la sua unica forma di linguaggio e di (paradossale) comunicazione.

© Giovanni Lamagna

Maternità e femminilità.

Leggo da Massimo Recalcati (“Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 52-53):

Per ogni bambino è fondamentale far esperienza tanto della presenza della madre quanto della sua assenza.

Senza sperimentare l’alternanza dell’assenza e della presenza della madre, la presenza può acquisire tratti persecutori, diventando soffocante, mentre l’assenza può suscitare vissuti depressivi e abbandonici…

… è necessario che si possa fare il lutto della madre simbolizzando la sua assenza.

Per Melanie Klein è questa la condizione a fondamento della creatività e della sublimazione; solo se si apre il vuoto, solo se si sperimenta e si simbolizza la perdita dell’oggetto – l’assenza della madre – diventa possibile il gesto creativo.”

E mi chiedo: quante madri – dopo aver vissuto l’esperienza della maternità – sono capaci di recuperare pienamente il loro ruolo di donna, anzi la dico tutta, utilizzando un termine ancora più forte e ricco di significato in questo contesto: il loro ruolo di femmina?

In modo da alternare l’assenza e la presenza della loro figura nel rapporto coi figli.

Quante donne, in altre parole, hanno risolto il loro attaccamento alla figura materna, avendo superato l’angoscia legata al fantasma dell’abbandono da parte della loro madre?

E sanno (o, meglio, sono consapevoli) che, quindi, l’assenza momentanea non è sinonimo di abbandono di un figlio; e che, pertanto, non causerà nessuna angoscia particolarmente traumatica nel figlio, dal quale ci si separa per un qualche tempo.

Quante madri, in altre parole, non hanno mai superato l’angoscia dell’abbandono provato nella separazione – anche momentanea, dovuta alle inevitabili, molteplici incombenze della vita – dalle loro madri e la trasferiscono poi – pari, pari – nel rapporto coi loro figli, cercando il più possibile – in una sorta di delirio di onnipotenza – di evitargliela?

Ho il sospetto che, ancora oggi, ben poche donne riescano a risolvere questo legame originario, quasi ombelicale, anche se oramai solo simbolico, con le loro madri.

E ciò è causa di seri problemi nelle loro dinamiche familiari.

In quelle coi figli, innanzitutto, che – come dice molto lucidamente Massimo Recalcati – vivranno la presenza materna come indispensabile ma anche come soffocante; incapace quindi di promuovere in loro l’autonomia e la sublimazione del bisogno di attaccamento, che sono premessa di ogni gesto creativo.

E poi (cosa non meno grave) – aggiungo io – per il legame coniugale che lega queste donne al loro compagno di vita.

Legame che, non a caso, va spesso in crisi, perché relegato ad un ruolo secondario e subordinato, quasi fosse scontato e si mantenesse in vita da solo, senza bisogno di “alimento” (fisico e spirituale) dopo la nascita di un figlio; a maggior ragione dopo la nascita di più figli.

© Giovanni Lamagna

Desiderio sessuale, altri desideri, sublimazione, cultura, nevrosi.

Il desiderio è innanzitutto sessuale.

Poi vengono tutti gli altri desideri, relativi a tre “valori” fondamentali: il vero (ἀληθής), il bello (καλὸς) e il buono (ἀγαθός).

Che di quello sessuale sono la sublimazione.

La sublimazione, entro certi limiti, è non solo inevitabile, ma persino benefica: ci rende umani, produce tutto ciò che ha a che fare con la cultura.

Oltre certi limiti è non solo inutile, ma persino dannosa: ci allontana troppo dalla nostra natura animale e produce in noi nevrosi.

© Giovanni Lamagna

Volare o affondare?

Alle volte ho desiderio di librarmi nel cielo (metaforico) e volare come un’aquila o, addirittura, come un angelo: in questi momenti sono tutto sublimazione.

Altre volte ho voglia di scendere nei bassifondi dell’anima, affondare nella carne, negli abissi dei piaceri sensuali e sessuali, di sperimentare fino in fondo le radici animali da cui provengo.

In quali di questi momenti sono più vero, sono più me stesso?

© Giovanni Lamagna

Tre alternative al “selvaggio/civilizzato”.

Ci sono tre alternative al “selvaggio/civilizzato” ovverossia all’uomo che si è civilizzato, evoluto, senza perdere però il contatto con la sua natura primigenia, con le sue radici animali.

La prima è, naturalmente, il “selvaggio/bestiale”, ovverossia l’uomo che rimane bestia, che non si è evoluto, che si comporta in un modo più vicino a quello degli animali che a quello degli umani.

La seconda è la negazione stessa del “selvaggio”, ovverossia l’uomo pienamente addomesticato, integralmente conforme ai modelli sociali prevalenti; quindi, in qualche modo, artefatto, artificiale, inautentico, non genuino.

La terza è la sublimazione totale del “selvaggio” in nome di uno spiritualismo sovraumano o, meglio, extraumano, angelicato e, quindi, negatore della realtà materiale della vita, del valore della corporeità.

Queste tre alternative non si presentano mai (tranne che in rari casi) in maniera secca, integrale, nella stessa persona, ma piuttosto in forme e gradi diversi, perfino a seconda dei momenti e delle situazioni.

È difficile incontrare un uomo rimasto “selvaggio” al livello giusto e “civilizzato” nel modo giusto.

Perfino Freud ritiene che l’uomo debba inevitabilmente pagare un dazio pesante alla natura (e quindi al suo essere “selvaggio”), per diventare pienamente “civilizzato”.

In ciò consiste, appunto, il “Disagio della civiltà”, oggetto di un suo saggio famoso del 1930.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini e il sesso.

Krishnamurti (ne “La quiete della mente”; Ubaldini Editore; pag. 152) si chiede: “… perché la società ha attribuito al sesso questa straordinaria importanza?”.

E subito dopo si interroga sulle “sanzioni religiose che ne derivano”, che tendono a porre degli argini all’esperienza di “piacere” e di “bellezza” che gli uomini collegano al sesso.

Voglio pormi queste stesse domande e provare a dare le mie risposte.

Quanto alla prima domanda la mia risposta è molto semplice, anche se duplice: 1) nel sesso gli uomini sperimentano forse il massimo del piacere fisico, emotivo e mentale, in certi casi anche spirituale, che è dato loro provare nella vita; 2) al sesso è collegata la sopravvivenza della specie, quindi la continuazione della vita stessa.

Ci può essere, dunque, un interesse superiore a quello che gli uomini provano normalmente per il sesso? Ci può essere, quindi, nella vita una realtà superiore al sesso, che sia più importante del sesso?

Sì, ci può essere; ma in qualche modo essa sarà sempre e comunque gemmazione della pulsione sessuale, una forma di filiazione da quella primaria, primordiale, che è il sesso; ne sarà, come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, una sua sublimazione.

In molti casi positiva, utile, necessaria, senza alternative: non si può certo passare tutto il proprio tempo a fare sesso; come minimo, oltre a fare sesso, bisognerà lavorare per procurarsi quanto è necessario a sopravvivere.

In altri casi negativa, inutile, addirittura dannosa, produttiva di malattie fisiche e mentali, nevrosi e in alcuni casi persino psicosi: quando si fa poco sesso o addirittura vi si rinuncia, perché si è incapaci – per timori inconsci, ma ben reali – di goderne.

Anche alla seconda domanda di Krishnamurti la mia risposta è semplice: gli uomini hanno sentito il bisogno (soprattutto attraverso le religioni) di imporsi delle sanzioni che limitassero la loro naturale e tendenzialmente sconfinata propensione verso il sesso, per il timore, la paura (che, ricordiamolo, non sono mai del tutto separabili dal piacere e dal desiderio) di esserne travolti, di non riuscire più ad occuparsi anche di altre cose nella vita, pur esse necessarie, anzi senz’altro più necessarie del sesso.

Pensiamo, ad esempio, alle necessità – anche solo quelle primarie, cui ho già fatto riferimento in precedenza – di procurarsi del cibo, una casa, degli abiti e, inoltre, di occuparsi dell’allevamento della prole, incapace da sola, nei primi anni di vita, di badare alla propria sopravvivenza.

C’era il rischio, dunque, per l’uomo che il sesso con la sua fortissima carica attrattiva, potesse essere vissuto come una sorta di canto delle sirene, di droga, che avrebbe potuto distrarlo da altre incombenze, indubbiamente meno o, in certi casi, per nulla seducenti, legate alla fatica del vivere; o, meglio, innanzitutto del sopravvivere.

Di qui la necessità di crearsi degli argini, persino degli ostacoli, di imporre dei limiti alla fortissima pulsione del sesso, di non farlo diventare una sorta di ossessione, come invece rischiava di diventare, se gli uomini non si fossero dati delle norme e non avessero previsto delle sanzioni collegate alla mancata osservanza di queste norme.

Come possiamo verificare in alcuni casi patologici, anche oggi, perfino nelle nostre odierne società, ipermoderne ed evolute, molto razionali e culturalmente avanzate, addestrate ormai a controllare (forse addirittura fin troppo!) gli istinti primari e persino le emozioni e i sentimenti.

Accade anche oggi, infatti, che il sesso in alcuni individui (nevrotici o, addirittura psicotici) diventi una pulsione maniacale, che norme e sanzioni sociali, tuttora vigenti, non riescono ad arginare, generando quindi disagi, più o meno acuti; nel soggetto malato innanzitutto, ma anche nel contesto ambientale in cui egli vive ed opera.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Sigmund Freud e la pulsione del genere umano a cercare la perfezione.

Nel suo libro del 1920 “Al di là del principio di piacere” (Biblioteca Boringhieri, 1975) Sigmund Freud, ad un certo punto, così scrive: “Prescindendo dalle pulsioni sessuali, è sicuro che non esistano altre pulsioni all’infuori di quelle che vogliono ripristinare uno stato precedente? Non ce ne sono altre che si sforzano di creare una situazione che non era mai stata raggiunta prima? Non conosco, nel mondo organico, alcun esempio sicuro che potrebbe contraddire alla caratterizzazione da noi proposta.

Non è possibile constatare con certezza l’esistenza di una pulsione universale che spinge gli esseri viventi verso un più alto sviluppo; tuttavia è innegabile che il mondo animale e vegetale presentano di fatto un’evoluzione in questo senso.

Ma da un lato spesso le nostre valutazioni per cui consideriamo certe fasi evolutive superiori ad altre sono puramente soggettive e d’altro lato la biologia ci insegna che la più alta evoluzione sotto un certo aspetto è assai spesso compensata o bilanciata da un’involuzione da un altro punto di vista… (pag. 68)

… può essere difficile, per molti di noi, rinunciare a credere che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino all’attuale livello di capacità intellettuale e di sublimazione etica e dalla quale ci si può attendere l’evoluzione dell’uomo a superuomo.

Solo che io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.

Mi pare che l’evoluzione del genere umano fino a questo momento non abbia affatto bisogno di una spiegazione diversa da quella che vale per gli animali; quell’infaticabile impulso verso un ulteriore perfezionamento che si può osservare in una minoranza di individui umani può essere facilmente spiegato come una conseguenza della rimozione pulsionale su cui si basa la civiltà umana in tutto ciò che ha di più valido e prezioso.

La pulsione rimossa non rinuncia mai a cercare il suo pieno soddisfacimento…; tutte le formazioni sostitutive e reattive, tutte le sublimazioni non potranno mai riuscire a sopprimere la sua persistente tensione…” (pag. 69)

Qui Freud fa una vera e propria affermazione apodittica, quasi fideistica, anche se di una fede all’incontrario: “… io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore”.

Freud, insomma, afferma molto perentoriamente di non credere “… che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione…”.

Però, poi, non fornisce alcuna spiegazione, né di tipo sperimentale, né basata sull’osservazione empirica, né motivata da argomentazioni logiche di un dato di cui pure riconosce, ammette l’esistenza, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”.

Fa, come ho poc’anzi detto, un’affermazione del tutto apodittica, quasi dommatica; come definire, infatti, le seguenti parole, già da me citate: “io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.”?

Per lui questa pulsione a cercare la perfezione può essere spiegata solo come conseguenza della rimozione dal suo primo e originario obiettivo: quello sessuale; il perché, però, questa pulsione si allontani dal suo primo e originario obiettivo non lo dice, non lo argomenta.

Ora ammettiamo pure che la sua prima e unica spiegazione sia giustificata, fondata; Freud, però, non spiega perché essa (rimozione) si verifichi di fatto, realmente e innegabilmente, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”; corrisponda cioè a comportamenti, a decisioni e scelte di vita ben reali e non a pure fantasticherie o sogni o astrazioni o illusioni.

Restano, in altre parole, le seguenti domande: perché in alcuni individui la pulsione libidica viene rimossa e sublimata e si traduce in una spinta al perfezionamento intellettuale ed etico? quale fattore tipicamente umano (non presente nelle altre specie animali, come evidenzia lo stesso Freud) determina questa rimozione/sublimazione?

E qui – mi dispiace dover contraddire Freud – la risposta non può che essere questa, se non per evidenza scientifica, quantomeno per deduzione logica: evidentemente nell’uomo esiste un’ulteriore pulsione, oltre alla libidica e alla coazione a ripetere (le uniche pulsioni che Freud riconosce): la pulsione ad elevarsi, a migliorarsi, a trascendersi, se non proprio a cercare la perfezione.

D’altra parte, se non fosse così, non si spiegherebbe l’esistenza storica di persone (tra le quali lo stesso Freud), che hanno dedicato in passato e dedicano anche oggi la loro vita alla scienza, cioè al progresso dell’Umanità, a volte sacrificando altri tipi di pulsioni, pur del tutto legittime.

E quella di altri uomini che hanno dedicata e dedicano la loro vita all’arte, alla filosofia, alla filantropia.

L’esistenza di questi fenotipi umani (gli scienziati, gli artisti, i filosofi, i filantropi) sono dati di fatto, di realtà, che, per quanto si voglia avere una visione realistica (io preferisco dire cinica) della vita, non si possono negare o ignorare.

E, se esistono, devono avere una loro motivazione e spinta, che non possono essere date (come, invece, tende a ritenere Freud) dalla semplice sublimazione di un istinto primario, comune agli altri animali.

Se esistono, hanno origine, scaturigine, a mio avviso, in una vera e propria pulsione, autonoma e distinta dalle altre, unicamente e tipicamente umana: la pulsione, se non proprio a cercare la perfezione, quantomeno ad elevarsi, a trascendersi, a superare la pura e originaria condizione animale.

© Giovanni Lamagna