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Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?

Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.

Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.

Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.

Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.

Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.

Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.

Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.

Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.

In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.

Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!

Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.

Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.

© Giovanni Lamagna

Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

Auguri di Natale 2023.

Confesso che quest’anno faccio molta fatica a fare gli auguri di Natale.

Con quale coraggio possiamo in questi giorni scambiarci gli auguri, quando sappiamo che a pochi passi qui da noi, addirittura nel luogo che vide la Nascita per antonomasia, quella che ogni anno festeggiamo il 25 dicembre, muoiono, stanno morendo proprio in questo momento, migliaia e migliaia di uomini come noi?

Altro che scambiarci gli auguri, dovremmo piuttosto provare vergogna!

Vergogna per il piccolo (o grande) pezzo di responsabilità che ognuno di noi, nessuno escluso, porta in quanto sta succedendo.

Pertanto l’unico augurio che oggi riesco a fare, a voi ed a me, è quello di convertirci, di convertirci ad una cultura di pace.

Ma – attenzione! – non ad una cultura di pace generica, che vorrebbe la pace, ma questa deve (dovrebbe) sempre dipendere dagli altri.

Una cultura di pace che cominci da sé stessi; in modo unilaterale e senza condizioni; quindi dalla cultura della nonviolenza.

Che la pace sia sinonimo – per ciascuno di noi – di nonviolenza, che bandisca dalla faccia della terra tutte le guerre, anche quelle che finora sono state considerate “giuste”.

In nome dell’Amore fraterno e universale, di quell’amore di cui l’Uomo, del quale oggi ricordiamo la nascita, si fece supremo profeta.

Giovanni

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Le tre istanze fondamentali della psiche secondo la mia visione.

Una delle affermazioni più famose (se non la più famosa) di Sigmund Freud è senz’altro questa: “Wo Es war, soll Ich werden”; contenuta nel suo “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)”; 1980 Bollati Boringhieri, pag. 190; tradotta da Cesare Musatti con le parole “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Cosa voleva dire il grande viennese con una tale affermazione?

A mio avviso, alcune cose molto semplici.

Innanzitutto questa: all’inizio, quando nasce e nei suoi primi mesi ed anni di vita, l’uomo è essenzialmente un fascio di impulsi o, come le chiama Freud, pulsioni, che in questa fase però assomigliano molto agli istinti animali.

In altre parole nei suoi primi anni di vita l’uomo è poco più di un animale, molto simile agli altri animali: è quindi Es (quasi) allo stato puro.

Poi, un poco alla volta, lentamente, in misura più o meno grande, a seconda delle sue caratteristiche innate (che potremmo anche considerare genetiche) e, soprattutto, delle condizioni ambientali (il contesto nel quale l’individuo nasce e cresce), sopravviene e si afferma in lui una seconda istanza psichica, che Freud definisce l’Io o l’Ego.

Che cos’è l’Io/Ego?

È la dimensione razionale della vita psichica, quella che fa prendere consapevolezza all’individuo, che non tutti i suoi impulsi istintuali, non tutte le sue pulsioni sono realizzabili, praticabili; o perlomeno non lo sono sempre e immediatamente.

Perché esiste una Realtà che spesso o alcune volte si oppone loro, con la quale il soggetto pulsionale deve fare i conti, che ne limita, frena i desideri, rimandando o negando del tutto (alcune volte) la loro realizzazione.

Per usare espressioni freudiane, sopravviene “il principio di realtà”, che si contrappone talvolta (potremmo anche dire: spesso) al puro “principio di piacere”.

In questo modo all’Es (le pulsioni iniziali, la libido allo stato puro, quasi del tutto animalesca) subentra l’Ego (la parte razionale, consapevole quindi dei limiti imposti alle pulsioni dall’impatto con la realtà).

Così il bambino cresce – passando per la fase turbinosa dell’adolescenza – e diventa uomo maturo.

Do per scontato (credo che anche Freud lo desse per scontato) che in alcuni individui questo processo di crescita e maturazione riesca di più, in altri di meno; alcuni individui rimangono sostanzialmente bambini, altri (pochi) diventano addirittura animali selvaggi, preda dei loro istinti più primitivi.

Io condivido sostanzialmente questa lettura che Freud fa della psiche umana, che egli integra poi, come è noto, con una terza dimensione, quella del Super-Ego (o Super-Io).

Che sarebbe – a suo avviso – una variante della coscienza, che impone all’uomo di limitare i suoi desideri, le sue pulsioni istintuali, ma diversa dal “principio di realtà”, che ha una sua consistenza intrinseca, oggettiva.

Il Super-Ego, invece, insorge – come fattore del tutto relativo e contingente – dal contesto ambientale, sociale, culturale, nel quale ciascun individuo nasce, cresce e sviluppa i suoi codici morali.

E’ diverso dall’Ego, perché questo si fonda su una norma intrinseca, il principio di realtà, che ha una sua valenza oggettiva, potremmo dire addirittura universale, uguale per tutti gli esseri umani, a prescindere dal contesto sociale e culturale nel quale nascono, crescono e vengono educati.

Il Super-Ego, invece, pone leggi, norme e regole estrinseche, imposte dal contesto sociale e culturale particolare nel quale l’individuo nasce e cresce, ha quindi una valenza per sua natura variabile e perciò relativa, niente affatto universale.

Ripeto, io in buona sostanza condivido questa topica, fondata sui tre pilastri dell’Es, dell’Io e del Super-Io, con la quale Freud dipinge, direi addirittura fotografa, la psiche umana.

E non ritengo che gli altri studiosi che sono venuti dopo di lui e si sono dedicati a ricerche analoghe siano stati in grado di contestarla sostanzialmente o efficacemente.

Ne hanno magari dato riletture un po’ diverse, modificate in parte, ma nella sostanza quella descritta da Freud è oramai universalmente riconosciuta, anche laddove vengono usati termini diversi o accentuata l’importanza ora dell’una ora dell’altra delle tre dimensioni della psiche umana individuate da Freud.

Per quanto mi riguarda, gli unici appunti che mi sento di muovere (si parva licet) alla teoria freudiana sono che 1) è forse un po’ troppo rigida e schematica, 2) non è del tutto chiara la distinzione tra Ego e Super-Ego; essa forse andrebbe precisata meglio.

1.Per quanto riguarda il primo punto, l’affermazione “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”, almeno per come è stata posta da Freud, lascia supporre una netta preferenza del fondatore della psicoanalisi per il secondo rispetto al primo.

Quasi che il primo (l’Es) fosse per lui solo o tutto negatività e il secondo (l’Io) solo o tutto positività.

In altre parole si coglie in Freud una netta simpatia per il concetto di necessità e quello di realtà rispetto a quelli di piacere e di desiderio.

Laddove io ritengo che tra i primi due concetti e i secondi due debba sussistere non una opposizione netta, come pare intenderla Freud, ma piuttosto una dialettica, una interrelazione feconda, positiva, fruttuosa, che a volte fa prevalere i primi a volte (perché no?) i secondi.

In altre parole, ancora: non ci sono dubbi che in molti casi la realtà oggettiva si opponga ai nostri impulsi istintivi e, quindi, ai nostri desideri; e, in questi casi, maturità vuole che l’Es si pieghi alla realtà diventando Io.

E’ immaturo, infantile, quindi insano, nevrotico, l’uomo che vuole forzare ostinatamente, direi capricciosamente, questa realtà.

Ma ci sono casi in cui può essere l’Es a modificare la (presunta) realtà, laddove questa non si mostri del tutto dura e insuperabile, ma plasmabile e riformabile.

In questo caso Es ed Io possono tranquillamente convivere, anzi coincidono, non sono necessariamente due realtà in antitesi, in conflitto, come a volte infondatamente siamo portati a ritenere.

In altre parole ancora: per me si tratta di essere senz’altro realisti (e in questo sono del tutto d’accordo col maestro viennese), ma non occorre essere più realisti del re (come talvolta a me pare Freud tendeva ad essere).

Sopravvalutando cioè l’ineluttabilità del “principio di realtà” (Ego) e svalutando (a mio avviso in modo esagerato) la forza creativa e generativa (e non sempre e solo dissipativa, dissolutiva e, quindi, distruttiva) delle pulsioni (Es).

In altre parole ancora: l’essere umano per mantenersi vivo deve indubbiamente prendere atto della Realtà, ma senza mai perdere contatto col suo mondo pulsionale, che talvolta lo spinge ad osare, a forzare la presunta realtà.

Laddove un eccesso di “realismo” castrerebbe inutilmente (mi verrebbe di dire sadicamente) i suoi desideri, mortificandone non solo il diritto al piacere, ma anche risorse e potenzialità.

2. Per quanto riguarda il secondo punto occorre a mio avviso fare una netta distinzione tra il “principio di realtà” (che fonda l’Io) e quello che io definirei il “pensiero comune” (oggi potremmo chiamarlo anche “mainstream”), che fonda il Super-Io.

Una corretta coscienza deve a mio avviso tener conto della realtà, non può prescinderne; in alcuni casi quindi deve sacrificare, in tutto o in parte, le proprie spinte e aspettative pulsionali.

L’alternativa è il godimento mortifero, di cui parlava Lacan, mortifero perché ha come esito fatale la dissipazione, se non la vera e propria dissoluzione, della psiche.

Una corretta coscienza individuale altresì non può non confrontarsi con il “pensiero comune”, quello prevalente in un determinato contesto antropologico, sociale, culturale e storico; l’alternativa sarebbe il delirio, la farneticazione e, in ultima istanza, l’ostracismo, se non il totale isolamento sociale.

Ma non ne può neanche essere acriticamente dipendente, con l’esito di diventare inautentica, nel senso heideggeriano del termine (“così si dice! così si pensa!); rinunciando alla propria autonomia e indipendenza di pensiero e di agire, in nome del confortevole conformismo del gregge.

Ci sono casi, situazioni, in cui la coscienza deve avere il coraggio di affermare il proprio desiderio (le proprie istanze pulsionali, quelle che affondano nell’Es) e non reprimerli: quando cioè essi non sono in (vero) contrasto col “principio di realtà” (Io); e anche a costo di andare contro il “pensiero comune”, prevalente (Super-Io).

In questi casi, forse, l’Io patirà un certo grado di sofferenza dovuta all’ostracismo e all’emarginazione sociali, ma ne guadagneranno la sua creatività e vitalità, il suo spirito di indipendenza e di autonomia, che sono e saranno sempre segni inequivocabili di una buona salute psichica, allo stesso livello del senso (necessario) di realtà.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.

Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.

Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.

Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.

In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?

O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.

Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.

Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.

Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.

In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale secondo Sartre.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant e come (sembra) per Sartre, la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre.

© Giovanni Lamagna

Nirvana: estinzione o risveglio?

Il Buddhismo parla del nirvana “sia come estinzione sia come risveglio supremo”.

Giustamente allora Vito Mancuso (nel suo “I quattro maestri”, a pag. 188) si chiede: “Ma come tenere insieme queste due descrizioni? Come si può risvegliare chi si estingue? E, viceversa, come si può estinguere chi si risveglia?”

Le domande che si pone Mancuso sono per me molto giuste e opportune; non lo sono altrettanto – a mio avviso – le risposte che Mancuso si dà nel libro, alla cui utile e sapida lettura rinvio. Provo, quindi, a dare le mie.

Per me il “nirvana” è innanzitutto e senza dubbio uno stato di estinzione dell’uomo vecchio, l’uomo caratterizzato da una volontà egocentrica, autocentrata, quindi, inevitabilmente narcisista ed egoista.

Ma, allo stesso tempo, è anche uno stato di apertura (risveglio, appunto!) ad una condizione di vita nuova, nella quale i desideri non saranno affatto annullati, ma non saranno più quelli egocentrici, autocentrati e, quindi, narcisisti ed egoisti dell’uomo vecchio.

Saranno, bensì, desideri non in conflitto ma del tutto compatibili con quelli degli altri nostri simili e, quindi, fratelli; compatibili perfino, con le esigenze dell’Universo mondo di cui noi siamo parte.

Chi entra nel “nirvana”, infatti, muore al proprio Sé (si estingue pertanto come individualità separata), rompe il guscio nel quale è racchiuso, quasi prigioniero, il proprio Ego.

E nello stesso tempo (o appena subito dopo) si apre, risveglia, ad una nuova vita, dalle dimensioni potenzialmente infinite, in grado di arrivare a comprendere non solo la vita di tutti gli altri uomini, ma anche quella di tutte le altre creature (animali, vegetali, minerali) che formano l’Universo, di cui egli è infinitesima particella.

Quello nirvanico è insomma uno stato di estinzione del proprio particulare e di risveglio (apertura) all’universale, in altre parole di identificazione/fusione con il Tutto.

Ecco perché il concetto di estinzione e quello di risveglio, lungi dall’essere oppositivi e contraddittori, esprimono la stessa realtà, anche se da versanti diversi; per cui – in fondo, in fondo – coincidono.

Non sono convinto (anzi penso proprio il contrario) di aver espresso con questa mia interpretazione l’ortodossia (ammesso che ce ne sia una) del pensiero buddhista relativamente al concetto di “nirvana”.

Sono convinto però che la mia lettura del concetto sia quella migliore (se non l’unica) per risolvere l’aporia evidenziata da Vito Mancuso e dalla quale sono partito per questa mia breve e sintetica riflessione.

E, oltretutto, quella che rende il concetto di “nirvana” accettabile, anzi del tutto condivisibile, anche per noi uomini dell’Occidente, la cui cultura profonda è molto diversa da quella dell’Oriente, di cui si alimentò, com’era ovvio, il pensiero buddhista.

© Giovanni Lamagna

Innamoramento, amore e amicizia erotica

Per molti, forse per la maggior parte degli esseri umani, non c’è uno stato, una condizione di vita, di maggiore benessere, anzi di vera e propria felicità, che quello che siamo soliti definire di “innamoramento”.

Vorrei sostenere qui – con molta forza e chiarezza – che è del tutto sbagliata l’idea che nello stato dell’innamoramento gli esseri umani possano trovare il massimo della felicità loro possibile.

Questa idea è una pura illusione e quindi del tutto infondata.

Quando ci innamoriamo, infatti, noi non vediamo l’altro/a per quello/a che egli/ella realmente è, ma per quello che ci piacerebbe che fosse.

L’innamoramento, in altre parole, è una forma di deformazione ottica, di vera e propria allucinazione.

In secondo luogo, quando siamo innamorati, in un certo senso vediamo solo o quasi solo la persona di cui ci siamo innamorati; siamo concentrati, focalizzati solo su di essa, come se le altre persone non esistessero più; o esistessero, ma del tutto sullo sfondo della nostra vita.

Lo stato dell’innamoramento, quindi, non solo allenta la nostra normale percezione della realtà, nel senso che ci fa vedere cose che non esistono nella realtà e non ce ne fa vedere invece altre; è, quindi, una condizione psicologica al limite del patologico.

Ma il più delle volte ci allontana dagli altri, da una normale vita sociale, che non può limitarsi alla relazione con una sola persona, per quanto questa sia dotata di grandi, persino eccezionali, doti e qualità; almeno per come appare ai nostri occhi di innamorati.

L’unico rapporto che può darci davvero la felicità o quantomeno momenti di felicità, di felicità vera e non illusoria, è, invece, quello che siamo soliti definire “di amore”.

A patto, però, di non considerare l’amore un sentimento monogamo, che si riferisce ad una sola persona, ma un sentimento poligamo, anzi, almeno potenzialmente, universale.

Perché l’amore, l’amore vero, che proviamo per una persona, non solo non è incompatibile con l’amore che proviamo verso altre persone, ma è da questo sottoposto alla più inequivocabile e insindacabile delle prove qualità.

Infatti, solo quando è poligamo l’amore si dimostra vero amore, in quanto dimostra di aver superato la prova più difficile: quella della gelosia, cioè del sentimento del possesso.

L’amore monogamo è amore inevitabilmente possessivo, più o meno consapevolmente fondato sul sentimento di proprietà.

L’amore poligamo è, invece, l’amore che ha vinto questo sentimento negativo, distruttivo di altri legami; è dunque amore puro.

Da questo punto di vista l’amore (almeno per come lo intendo io) è molto più simile all’amicizia che a quel tipo di sentimento e di rapporto, tanto esaltati dalla letteratura universale un po’ in tutte le epoche storiche, ma in modo particolare durante il Romanticismo ottocentesco.

Nell’amicizia, infatti, si manifesta la forma più pura dell’amore di condivisione: due amici sono tali perché (e nella misura in cui) condividono una stessa visione del (e sul) mondo.

Senza alcuna pretesa monogamica, cioè di esclusività e di possesso.

E cosa è, in fondo, o, meglio, cosa dovrebbe essere un rapporto di cosiddetto “amore” se non un rapporto in cui si condivide la stessa visione del (e sul) mondo, con in più anche un’attrazione erotica, un’intesa anche di carattere sessuale?

Si può definire “amore” un rapporto in cui c’è l’attrazione e magari anche l’intesa erotico/sessuale e però non c’è anche una comune visione del (e sul) mondo?

Un tale tipo di rapporto non sarebbe superato in qualità e profondità dalla cosiddetta amicizia?

E può essere definito amore, vero amore, un amore che si fonda sull’esclusività monogamica, che non ammette per definizione altri amori analoghi e contemporanei?

Non è un tale tipo di “amore” viziato dal sentimento del possesso e dall’istinto di proprietà?

Allora, per trarre tutte le conseguenze di questa riflessione, propongo di chiamare “amicizia” anche il sentimento e il rapporto che siamo soliti chiamare “amore”.

In una ottica come quella da me descritta finora cosa distinguerebbe, infatti, quello che comunemente chiamiamo “amore” da quella che comunemente chiamiamo “amicizia”?

E, se proprio vogliamo fare una distinzione tra l’amicizia nella quale c’è anche attrazione erotica ed intesa sessuale e quella nella quale non c’è né attrazione né pratica sessuale, allora chiamiamo la prima “amicizia erotica” e la seconda comune e semplice “amicizia”.

© Giovanni Lamagna