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Motivazioni all’impegno in politica.

Sarebbe bene che chi è impegnato in politica si interrogasse continuamente sulle reali motivazioni (quelle inconsce e non solo quelle consce) che lo hanno spinto e continuano a spingerlo verso un tale impegno.

Sicuramente in questo modo farebbe meglio di quanto non fanno normalmente quelli che sono impegnati in politica; quantomeno farebbe meno danni.

© Giovanni Lamagna

I limiti che ci vengono imposti dalla Realtà e quelli che ci imponiamo da soli coi sensi di colpa.

Non ci sono dubbi che la vita dell’uomo (come afferma Recalcati e come ha affermato, prima di lui, Lacan) sia segnata ineluttabilmente dall’atto della castrazione simbolica e che, quindi, il suo desiderio incontrerà sempre (e dovrà non solo riconoscere, ma accettare) il limite imposto dalla Legge.

Il perverso è colui che non solo non rispetta questo limite, ma non lo vede, non lo riconosce nemmeno; per il perverso il suo desiderio non ha limiti, non incontrerà mai il limite della Legge, semplicemente perché per lui la Legge non esiste, esiste solo il suo desiderio.

Quando andrà a sbattervi contro (perché prima o poi andrà a sbattervi contro) sarà troppo tardi; avrà fatto danni irreversibili non solo a coloro con i quali entrerà in una qualche relazione (ovviamente del tutto psicopatologica), ma anche e forse innanzitutto a sé stesso.

Fermo, quindi, restando questo concetto, che cioè il desiderio sano non si pone mai come un Assoluto, ma che deve confrontarsi sempre col Limite stabilito dalla Legge, è altrettanto indubitabile che in molti casi l’uomo impone a sé stesso limiti nevrotici, insani, quasi allo stesso livello della perversione di chi non riconosce alcun limite.

Ovverossia limiti che non sono fondati sul “principio di realtà” (l’equivalente della Legge lacaniana, di cui il perverso non riconosce l’esistenza, mentre la persona sana sì), ma sono stati creati e autoimposti dall’uomo stesso e dai suoi sensi di colpa, nei confronti di una libertà desiderata e però altrettanto temuta.

L’uomo sano deve dunque saper distinguere il limite strutturale, oggettivo della condizione umana (quello che è appunto all’origine dell’atto della castrazione simbolica) dal limite nevrotico, quello che ciascuno di noi (chi più e chi meno) tende a imporsi da solo, senza che ce ne sia un’oggettiva necessità.

La liberazione da questo limite, la liberazione in altre parole da quella istanza psichica che Freud ha chiamato Super-ego, è, a mio avviso, atto egualmente necessario e sano dell’accettazione del limite imposto dall’Io all’Es in nome del “principio di realtà”.

Pertanto, l’affermazione “Laddove c’era il Super-ego ci sarà l’Ego” potrebbe a buon diritto, opportunamente, secondo me, completare e integrare concettualmente la famosa affermazione freudiana “Laddove c’è l’Es ci sarà l’Ego”.

© Giovanni Lamagna

Vita di coppia e figli.

Molti, non sapendo come far funzionare bene o migliorare la loro vita di coppia, si rifugiano nel rapporto con i figli.

In questo modo si avvitano: non solo apportano ulteriori danni alla loro vita di coppia, ma fanno anche molti danni ai loro figli.

© Giovanni Lamagna

Le uniche regole a cui dovrebbe obbedire la nostra coscienza.

Le uniche regole che dovremmo assumere a guida delle nostre scelte e delle nostre azioni dovrebbero essere quelle che Sigmund Freud definì – in modo estremamente chiaro e preciso – con le espressioni “principio del piacere” e “principio di realtà”.

E che Lacan ribattezzò con i termini, a mio avviso abbastanza equivalenti, di “desiderio” e “Legge”, anche se forse, soprattutto il secondo, meno precisi e più equivoci di quelli usati da Freud.

In altre parole, prima di agire e di compiere qualsiasi scelta, dovremmo chiederci: “Cosa desidero davvero? Qual è il mio desiderio profondo?”.

E poi: “E’ realizzabile questo desiderio o è un irrazionale capriccio della mia fantasia, fuori e contro la realtà? Fa danni a qualcuno o è del tutto compatibile con il desiderio di altri?”

E, infine: “Anche se fa oggettivamente e indirettamente dei danni a qualcuno, sono io davvero il responsabile di questi danni?”

Una volta ottenuto il via libera dalla nostra coscienza che si è posta queste domande, dovremmo poter agire di conseguenza; liberamente, abbastanza serenamente e senza paralizzanti sensi colpa.

Spesso, invece, molti di noi assumono a regola di comportamento quanto impone loro il Super-ego; a voler usare un altro termine famoso inventato da Freud.

Cioè l’insieme delle norme che tutti abbiamo introiettato – soprattutto durante la nostra infanzia, fanciullezza e adolescenza – dall’ambiente che ci circondava, in primo luogo dalla nostra famiglia; in altre parole una coscienza eterodiretta.

In questo modo molti di noi dimostrano di non essersi mai emancipati da quelle epoche della vita (infanzia, fanciullezza e adolescenza), di non essere mai diventati veramente adulti.

In uno dei suoi scritti più famosi (la trentunesima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”) Freud fece ricorso ad una frase divenuta celebre: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Io oggi, se mi posso permettere e col massimo rispetto per il padre della psicoanalisi, aggiornerei e completerei tale sua frase con quest’altra: “Dove era il Super-io, deve subentrare l’Io”.

© Giovanni Lamagna

Donna, femmina e madre.

Ogni donna, dopo essere diventata madre, ad un certo punto deve decidere se tornare ad essere femmina o se continuare a fare la madre a vita.

Cioè se dedicarsi prevalentemente al suo uomo, riprendendo una vita sessuale soddisfacente.

O se dedicarsi prevalentemente ai suoi figli, facendo dell’accudimento alla prole l’interesse principale della sua vita.

Molte donne optano per questa seconda scelta e fanno danni, molti danni.

Innanzitutto a sé stesse, come è abbastanza ovvio.

Ma anche – e questo è meno ovvio – ai loro figli.

p. s. Do per scontato – ad evitare equivoci e malintesi tra le mie lettrici – che la donna, dopo la maternità, riprenda e coltivi appieno gli interessi relazionali, sociali, professionali e culturali che aveva prima di diventare madre.

E, però, faccio notare che quasi sempre questa ripresa avviene in contemporanea, se avviene, con quella di una felice vita sessuale.

Altrimenti manco questa avviene e la donna, in questo caso, si riduce al ruolo prevalente, se non del tutto esclusivo, di madre.

Questo mi è stato dato di osservare in ormai abbastanza lunghi anni di vita.

© Giovanni Lamagna

Opportunità, limiti e rischi di facebook.

Facebook costituisce, come ben sanno coloro che lo frequentano da anni, una sorta di foro, agorà, di piazza o mercato moderni: offre pertanto occasioni e opportunità di incontro (e – perché no? –  di apprendimento) straordinarie.

Con la differenza (non piccola: è persino banale dirlo) che nei fori e nelle agorà di una volta l’incontro tra le persone era fisico, reale, oltre che emotivo, mentale, intellettuale; avveniva nel vis a vis.

Su facebook l’incontro è, invece, solo verbale, al massimo emotivo ed intellettuale; è, quindi, “virtuale”, per usare il linguaggio della Rete.

L’assenza del contatto fisico, vis a vis, non è ovviamente ininfluente; produce anzi effetti negativi importanti, significativi.

Il primo: in molti casi, ho l’impressione, che la Rete costituisca addirittura una sorta di difesa rispetto al coinvolgimento reale delle persone nel rapporto; è un contatto che resta emotivamente freddo, poco coinvolgente; che arriva alla soglia dell’intimità, ma sta bene attento a non attraversarla, a non superarla.

Tanto è vero che spesso le persone in contatto sulla rete, quando si incontrano fisicamente (nei rari casi in cui ciò avviene), molte volte fanno finta di non conoscersi; o, nel migliore dei casi, si riconoscono ma a stento si salutano.

Il secondo risultato è che gli scambi intellettuali sono molto meno trasformativi di quelli che una volta erano (e sono ancora oggi) i rapporti fisici, vis a vis: le parole scambiate, il più delle volte, scivolano sul cuore e sulla testa delle persone apparentemente entrate in contatto e non producono, quindi, veri e profondi cambiamenti.

Il terzo effetto negativo (il peggiore di tutti) è che non poche volte gli scambi comunicativi che avvengono in rete sono violenti, carichi di aggressività.

Come se la distanza consentisse sfoghi di violenza che la vicinanza fisica probabilmente limiterebbe.

A distanza, infatti, la violenza fa oggettivamente meno male e questo dà più facilmente la stura all’aggressività, che, quando si è a contatto fisicamente, si tende a controllare maggiormente, per i danni reali, persino fisici, che essa potrebbe generare.

Verrebbe da chiedersi, a questo punto: sono maggiori le opportunità o i limiti e i rischi di facebook?

La mia risposta a questa domanda è che molto dipende dalle persone che lo frequentano: ci sono persone per le quali facebook è una reale opportunità di crescita umana, altre per le quali è solo un rifugio, un’evasione dal mondo dei rapporti reali e, quindi, un fattore di regressione.

I rischi, beninteso, ci sono anche per le prime; il maggiore è quello di diventarne in qualche modo dipendenti e di scivolare, quindi, quasi senza rendersene conto, verso una forma di socializzazione che privilegia il contatto virtuale, in rete, a quello reale, fisico, vis a vis.

Ma anche le opportunità sono ben reali: innanzitutto perché su facebook ci è data possibilità di incrociare persone che non avremmo modo di conoscere nella vita reale, se non altro perché abitano e vivono a distanza (a volte notevole distanza) dal nostro luogo di residenza.

E in secondo luogo perché vi si incontrano sì persone di basso livello, che nel quasi anonimato dello spazio virtuale si sentono libere di sparare (come già faceva notare Umberto Eco) le più grandi imbecillità, ma vi si incontrano anche persone di notevole spessore umano e intellettuale, dalle quali si può imparare molto.

In altre parole facebook è un libro sempre aperto, che possiamo sfogliare quotidianamente, quando vogliamo, le cui pagine affrontano gli argomenti più diversi.

Sicuramente in maniera disordinata e persino caotica; ma dalle quali, altrettanto sicuramente, si possono apprendere molte cose, come se si sfogliasse un’enciclopedia autogestita dagli utenti, se queste pagine le si sa selezionare e sottoporre a vaglio critico.

© Giovanni Lamagna

Bene e Male, pulsione di vita e pulsione di morte.

Ho la sensazione forte che i pensatori che nel corso della Storia hanno evidenziato soprattutto il lato negativo, quello cattivo, quello distruttivo, violento, dell’animo umano (penso in primo luogo a Machiavelli, ad Hobbes, a Nietzsche e, infine, a Freud, per fare solo alcuni nomi del pensiero moderno e contemporaneo; ma ce ne furono anche nell’antichità), anteponendolo a quello positivo, basato sui sentimenti della bontà, della compassione della solidarietà umana e dell’amore fraterno, lo abbiano fatto per una sorta di narcisistico e snobistico crogiolarsi, di realismo più realista del Re, più che di effettivo  e spietato realismo (come essi hanno voluto dare a intendere), se non addirittura mossi (mi viene il sospetto) da un’inconscia e consolatoria volontà di autogiustificare, in qualche modo, le proprie debolezze umane.

Come a dire: siamo tutti cattivi, ma lo siamo perché così è fatta strutturalmente, geneticamente, la natura umana; quindi nessuno è soggettivamente cattivo, per una qualche sua scelta e, quindi, responsabilità personale.

Per carità, con questo non voglio sostenere la tesi opposta a quella di tanto cotanto senno e, cioè, che nel mondo siano assenti il male e la cattiveria, la perfidia e l’odio, la competizione violenta, che porta a guerre e distruzioni, persino a carneficine.

Sono ben consapevole che il mondo e l’Umanità sono malati, che hanno vizi gravissimi e profondi, che ne minano la salute spirituale e producono danni incalcolabili alla civile convivenza.

Pensiamo solo a quello di cui è stato capace il regime nazista, con la complicità più o meno consapevole di buona parte del popolo tedesco, in pieno XX secolo, inventando le camere a gas e provocando la morte di milioni di esseri umani, che avevano avuto la sorte di nascere Ebrei o zingari od omosessuali.

E pur tuttavia sono convinto che, assieme a tanto male e a tanta crudeltà, nell’Umanità siano presenti anche tanto bene e tanta generosità, che vizi enormi, in alcuni casi persino mostruosi, si mescolino ad altrettanto enormi virtù, persino eroiche.

Bene, generosità, virtù, che si manifestarono addirittura in molteplici momenti e situazioni nel corso della stessa vicenda orrenda dell’Olocausto.

Sono convinto in altre parole che non sia possibile affermare con assoluta risolutezza, come fa, ad esempio, l’ultimo Freud, che la pulsione di morte addirittura preceda filogeneticamente la pulsione di vita e che, sia nella vita individuale di ciascuno di noi che sui lunghi tempi della Storia, sarà la prima a prevalere fatalmente sulla seconda.

Penso, invece, che nel mondo, come del resto nel cuore di ogni singolo uomo, si combatta una battaglia continua ed infinita tra queste due pulsioni, tra Eros e Thanatos, il cui esito è sempre incerto, altalenante: in alcuni momenti e in alcuni individui vince la prima, in altri prevale la seconda.

Affermare come hanno fatto gli illustri pensatori di cui sopra che, invece, a prevalere è sempre e senza alcun dubbio il male contro il bene, la morte contro la vita, non fa che contribuire all’avveramento di quella che si presenta come una profezia, più che come una ricostruzione storico/antropologica.

Chi dice che il male è prevalente, anzi domina, nel cuore dell’uomo, a mio avviso, non fa che avallare (e, in un certo senso, persino fomentare) questo male, dando argomenti a chi con il male è schierato, infondendo scoramento, producendo rassegnazione, distruggendo la speranza, incoraggiando quindi, al di là delle sue (a volte pur nobili) intenzioni, il male e contribuendo così, indirettamente ma di fatto, al suo perdurare, se non al suo prevalere, nella storia del mondo.

© Giovanni Lamagna

Riconoscere la rabbia.

Bisogna avere un buon contatto con il proprio sé profondo per vedere e riconoscere la rabbia che alberga in noi.

E’ più facile non vedere o disconoscere questa rabbia, come qualcosa che non ci appartiene, rimuoverne la consapevolezza, per una sorta di buonismo e di malintesa responsabilità sociale.

Quando si rimuove la rabbia, essa esce magari dalla nostra porta principale, ma rientra da una finestra laterale.

E, quindi, comunque fa danni; anche quando non ha il nostro consapevole consenso.

© Giovanni Lamagna

La mia verità e LA VERITA’

Quando dico “la mia verità” io sto relativizzando e allo stesso tempo non sto relativizzando.

La mia verità è per me una verità autentica, non “una verità tanto per dire”.

Tanto è vero che io in base ad essa oriento la mia vita.

E non la baratto facilmente con altre verità.

A meno che non mi si dimostri che esse sono più vere della mia.

Allo stesso tempo non sono un fanatico della “mia verità”.

Conservo sempre un margine di dubbio, che mi consente di dialogare con altre possibili verità e di mettermi in discussione.

Diffido, ho imparato a diffidare, di coloro che non solo affermano di possedere una loro verità, ma che la loro è LA VERITA’, la sola verità.

Costoro sono dei fanatici, che fanno solo danni.

A se stessi (perché si accontentano di una visione parziale del mondo) prima che agli altri.

© Giovanni Lamagna

Corpo e anima

I mali del corpo possono, talvolta, provocare dei danni allo spirito e, quindi, far nascere malattie dello spirito.

Ma anche i mali dello spirito possono fare danni al corpo e, quindi, far nascere vere e proprie malattie del corpo.

Corpo ed anima sono un’unità inscindibile: il psicosoma.

© Giovanni Lamagna