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Madre, moglie e amante.

Nessuna donna potrà essere una buona madre se non sarà prima di tutto una buona moglie o compagna del suo uomo.

E, se dopo essere diventata madre e ad aver assolto per una certa fase al compito primario e impegnativo della cura e dell’allevamento dei figli, non tornerà ad essere prima o poi innanzitutto una moglie o una compagna.

O, meglio e per dirla tutta, l’amante del proprio uomo: nel senso propriamente erotico e sessuale del termine; recuperando appieno non solo la propria vita sessuale ma anche la propria femminilità e il proprio erotismo.

Cosa che, invece, non sempre accade; o, perlomeno, non è scontato che accada.

Anzi – se proprio vogliamo dirla tutta – molto spesso non accade.

Perché la donna molto spesso, una volta diventata madre, rimane prigioniera a vita, di questo suo ruolo di madre.

E, invece, – è questo che ci tengo a sottolineare qui – solo se tornerà ad essere prima di tutto l’amante del suo uomo, la donna riuscirà a trovare l’energia per separarsi dal figlio.

Così da favorirne il giusto distacco e allontanamento; e, quindi, una crescita sana, una positiva evoluzione.

Dimostrandosi in questo modo (e solo in questo modo) una buona e brava madre.

La madre, invece, che vuole tenere legato a sé il figlio (o la figlia), che fa del figlio (o della figlia) un sostituto (asessuato e sublimato) del marito, tutto è tranne che una buona e brava madre.

Anche se tenderà a spendersi questa immagine all’esterno e nell’immaginario collettivo sarà pure ritenuta, riconosciuta, confermata, come tale.

Mentre l’altra, la madre che tornerà a fare l’amante, sarà magari ritenuta una cattiva madre, solo perché non si riduce ad essere tutta “serva” e “tappetino” dei propri figli.

Perché avrà rotto il cordone ombelicale (anche quello simbolico) che correva il rischio di tenerla legata a vita in maniera simbiotica al figlio o ai figli.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India sta tramontando il Buddhismo e credo che prima o poi tramonterà anche l’Induismo; in Cina il Buddhismo (così come il Confucianesimo) sono morti già da alcuni decenni, sotto i colpi della rivoluzione comunista; in Occidente già da molto tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo nelle sue varie correnti; e la stessa cosa si può dire dell’Ebraismo.

Queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza gettare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione” culturale, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità antropologica e del proprio patrimonio storico.

Tra l’altro proprio nel momento in cui l’abbattimento di tante barriere – che per millenni avevano tenuto lontani, quasi incomunicabili tra loro, Oriente e Occidente – avrebbe potuto consentire un positivo incontro e un fecondo intreccio di culture tanto diverse.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, – mi sbaglierò, ma la mia impressione è questa – ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio non di epoca, ma di Era, come lo fu quello che segnò il passaggio dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

Viene prima il corpo o viene prima l’anima?

Giovanni evangelista afferma: “In principio era il Verbo… Ed il Verbo si fece carne.” (1, 1-14).

Io penso esattamente il contrario.

Penso che in principio c’era la carne (cioè il corpo, la materia) e che la carne successivamente, un poco alla volta, si sia fatta verbo, cioè parola.

E, quindi, coscienza, consapevolezza di sé.

Il principio primo è per me la materia; solo successivamente viene, subentra l’anima.

Come evoluzione, superfetazione della materia

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e ribellione.

Giustamente Maurizio Bettini nel suo recente saggio “A sinistra da capo” (Paper FIRST 2022) fa notare che “chiedere in questi momenti la “buona educazione” appare quantomeno “peloso”. La calma e la ragionevolezza sono il privilegio di chi sta in alto; che ha il tempo di pensare e poi deliberare” (pag. 15).

Sta parlando (come era facile intuire) dei momenti, che segnano la Storia, in cui gli oppressi si ribellano agli oppressori, in genere in maniera violenta e spesso cruenta, talvolta ricorrendo persino al terrore.

Concordo pienamente, prendendo atto di quella che pure a me sembra una realtà che ci viene consegnata dalla Storia.

E però mi chiedo: sono davvero rivoluzionari momenti come questi? O non sono destinati fatalmente a riproporre molte volte, anche se in forme diverse, gli stessi soprusi ai quali essi avevano provato a ribellarsi?

Qui mi sovviene la distinzione che già altre volte ho fatto tra il concetto di “ribellione” e quello di “rivoluzione”.

Nella “ribellione” prevale nettamente, se non esclusivamente, la pars destruens; l’abbattimento del sistema considerato ingiusto; senza andare troppo per il sottile quanto ai mezzi e ai modi.

Nella “rivoluzione” (in una vera rivoluzione) c’è indubbiamente una “pars destruens”, ma allo stesso tempo è già ben presente anche una “pars construens”, che presuppone (o, meglio, presupporrebbe) “calma” e “ragionevolezza” anche da parte di chi sta sotto e si ribella a chi sta in alto.

Proprio la “calma” e la “ragionevolezza” definiscono per me la rivoluzione.

Di cui, invece, fa sempre a meno la ribellione, che le considera un lusso, che non ci si può permettere, se si vogliono raggiungere determinati obiettivi di cambiamento.

Per questo io non credo alle cosiddette rivoluzioni violente; alle “rivoluzioni” intese come evento; anche quando nascono e sono animate in partenza dalle migliori intenzioni.

Per me la vera rivoluzione è quella che si realizza un poco alla volta, attraverso riforme progressive dell’esistente, facendo ricorso appunto alla “calma” e alla “ragionevolezza”, avendo “il tempo di pensare e poi deliberare”.

Per me la rivoluzione è un processo, non un evento; è tutt’al più una catena di eventi legati tra di loro che, in maniera graduale e mai improvvisa, realizzano il cambiamento.

E’ una categoria concettuale (oltre che una concreta realtà psicologica o sociale) più affine a quella di “evoluzione” che a quella di “ribellione”.

Aggiungo, per chiudere questa riflessione, che ciò che vale in ambito politico-sociale per me vale – pari, pari – anche in ambito psicologico- individuale.

I veri e profondi cambiamenti dentro di noi non avvengono mai all’improvviso e in base ad un singolo fattore.

Sono sempre il frutto dell’accumularsi, intrecciarsi, sedimentarsi di una molteplicità complessa di elementi.

Che possono anche esplodere in forma vistosa ed eclatante in un singolo momento, ma non si riducono mai semplicisticamente a questo.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Sigmund Freud e la pulsione del genere umano a cercare la perfezione.

Nel suo libro del 1920 “Al di là del principio di piacere” (Biblioteca Boringhieri, 1975) Sigmund Freud, ad un certo punto, così scrive: “Prescindendo dalle pulsioni sessuali, è sicuro che non esistano altre pulsioni all’infuori di quelle che vogliono ripristinare uno stato precedente? Non ce ne sono altre che si sforzano di creare una situazione che non era mai stata raggiunta prima? Non conosco, nel mondo organico, alcun esempio sicuro che potrebbe contraddire alla caratterizzazione da noi proposta.

Non è possibile constatare con certezza l’esistenza di una pulsione universale che spinge gli esseri viventi verso un più alto sviluppo; tuttavia è innegabile che il mondo animale e vegetale presentano di fatto un’evoluzione in questo senso.

Ma da un lato spesso le nostre valutazioni per cui consideriamo certe fasi evolutive superiori ad altre sono puramente soggettive e d’altro lato la biologia ci insegna che la più alta evoluzione sotto un certo aspetto è assai spesso compensata o bilanciata da un’involuzione da un altro punto di vista… (pag. 68)

… può essere difficile, per molti di noi, rinunciare a credere che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino all’attuale livello di capacità intellettuale e di sublimazione etica e dalla quale ci si può attendere l’evoluzione dell’uomo a superuomo.

Solo che io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.

Mi pare che l’evoluzione del genere umano fino a questo momento non abbia affatto bisogno di una spiegazione diversa da quella che vale per gli animali; quell’infaticabile impulso verso un ulteriore perfezionamento che si può osservare in una minoranza di individui umani può essere facilmente spiegato come una conseguenza della rimozione pulsionale su cui si basa la civiltà umana in tutto ciò che ha di più valido e prezioso.

La pulsione rimossa non rinuncia mai a cercare il suo pieno soddisfacimento…; tutte le formazioni sostitutive e reattive, tutte le sublimazioni non potranno mai riuscire a sopprimere la sua persistente tensione…” (pag. 69)

Qui Freud fa una vera e propria affermazione apodittica, quasi fideistica, anche se di una fede all’incontrario: “… io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore”.

Freud, insomma, afferma molto perentoriamente di non credere “… che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione…”.

Però, poi, non fornisce alcuna spiegazione, né di tipo sperimentale, né basata sull’osservazione empirica, né motivata da argomentazioni logiche di un dato di cui pure riconosce, ammette l’esistenza, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”.

Fa, come ho poc’anzi detto, un’affermazione del tutto apodittica, quasi dommatica; come definire, infatti, le seguenti parole, già da me citate: “io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.”?

Per lui questa pulsione a cercare la perfezione può essere spiegata solo come conseguenza della rimozione dal suo primo e originario obiettivo: quello sessuale; il perché, però, questa pulsione si allontani dal suo primo e originario obiettivo non lo dice, non lo argomenta.

Ora ammettiamo pure che la sua prima e unica spiegazione sia giustificata, fondata; Freud, però, non spiega perché essa (rimozione) si verifichi di fatto, realmente e innegabilmente, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”; corrisponda cioè a comportamenti, a decisioni e scelte di vita ben reali e non a pure fantasticherie o sogni o astrazioni o illusioni.

Restano, in altre parole, le seguenti domande: perché in alcuni individui la pulsione libidica viene rimossa e sublimata e si traduce in una spinta al perfezionamento intellettuale ed etico? quale fattore tipicamente umano (non presente nelle altre specie animali, come evidenzia lo stesso Freud) determina questa rimozione/sublimazione?

E qui – mi dispiace dover contraddire Freud – la risposta non può che essere questa, se non per evidenza scientifica, quantomeno per deduzione logica: evidentemente nell’uomo esiste un’ulteriore pulsione, oltre alla libidica e alla coazione a ripetere (le uniche pulsioni che Freud riconosce): la pulsione ad elevarsi, a migliorarsi, a trascendersi, se non proprio a cercare la perfezione.

D’altra parte, se non fosse così, non si spiegherebbe l’esistenza storica di persone (tra le quali lo stesso Freud), che hanno dedicato in passato e dedicano anche oggi la loro vita alla scienza, cioè al progresso dell’Umanità, a volte sacrificando altri tipi di pulsioni, pur del tutto legittime.

E quella di altri uomini che hanno dedicata e dedicano la loro vita all’arte, alla filosofia, alla filantropia.

L’esistenza di questi fenotipi umani (gli scienziati, gli artisti, i filosofi, i filantropi) sono dati di fatto, di realtà, che, per quanto si voglia avere una visione realistica (io preferisco dire cinica) della vita, non si possono negare o ignorare.

E, se esistono, devono avere una loro motivazione e spinta, che non possono essere date (come, invece, tende a ritenere Freud) dalla semplice sublimazione di un istinto primario, comune agli altri animali.

Se esistono, hanno origine, scaturigine, a mio avviso, in una vera e propria pulsione, autonoma e distinta dalle altre, unicamente e tipicamente umana: la pulsione, se non proprio a cercare la perfezione, quantomeno ad elevarsi, a trascendersi, a superare la pura e originaria condizione animale.

© Giovanni Lamagna

Tendenza alla cooperazione e tendenza alla competizione.

Che nell’uomo prevalga la tendenza alla cooperazione costruttiva, che è in lui, anziché quella alla competizione distruttiva, che pure è in lui (e che forse filogeneticamente viene prima dell’altra), conviene alla crescita e alla evoluzione positiva dell’’Umanità.

E, quindi, anche ad ogni singolo membro della compagine umana.

Anche se questo comporterà, come ci insegna Freud ne “Il disagio della civiltà”, il pagamento di costi (a volte anche molto elevati) in termini di sacrificio della propria vita pulsionale individuale.

Ogni uomo, quindi, fa/farebbe bene a coltivare la prima (la tendenza alla cooperazione) e a tenere a bada – limitandola, controllandola – la seconda (la tendenza alla competizione).

© Giovanni Lamagna

Ci sono diversità e diversità.

C’è la diversità della rosa, del garofano, del giglio, del girasole…

E c’è la diversità della rosa in fiore e della rosa appassita.

C’è la diversità che esprime la varietà e la bellezza della natura.

E c’è la diversità del progresso e del regresso, dell’evoluzione e dell’involuzione, della salute e della malattia, della vita e della morte.

Non tutte le diversità sono… eguali.

Non tutte le diversità sono positive.

© Giovanni Lamagna

Perché alcuni uomini sono fortemente interessati alla vita spirituale, mentre altri non ne provano alcun bisogno?

Nel suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (2020; Garzanti), Vito Mancuso a pag. 173 si pone le seguenti domande, che a me sembrano di estremo interesse: “… che cosa portò il giovane Siddhartha a lasciare il ricco palazzo del padre per recarsi nella foresta a cercare la liberazione? Che cosa fa sì che anche oggi alcuni esseri umani vogliano vivere in modo più autentico e, per realizzare questo loro desiderio, si rivolgono alla spiritualità, mentre altri non avvertono nessun bisogno di salire sulla ruota del Dharma e stanno benissimo sulla ruota dell’esistenza?

In altre parole che cosa spinge la maggior parte degli uomini a vivere “nel mondo di Nietzsche”, che “è un mondo senza evoluzione e senza trascendenza… un mondo senza orientamento morale… dove tutto è al di là del bene e del male, un mondo dove non ha senso operare per la propria liberazione perché non vi è nessuna possibilità di liberazione ma solo l’eterno ritorno della medesima condizione di prigionia (o di beatitudine)” e altri uomini (pochi) ad uscire (o almeno provare ad uscire) dalla ruota dell’eterno ritorno dello stesso per cercare la propria crescita interiore, spirituale?

A queste domande Mancuso dà la seguente risposta: “A meno di non ammettere influssi soprannaturali (come fa il cristianesimo che parla di Spirito santo e di grazia divina), tale energia può venire solo dalla medesima fonte che fa girare la ruota dell’esistenza.

E si pone subito dopo un’altra domanda: “… che cosa fa girare la ruota dell’esistenza?

A cui dà questa risposta: “La voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi, direbbe Spinoza.

Che a me non soddisfa, in quanto la voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi spinoziano, a me sembra muovono sia coloro che si adattano rassegnati all’eterno ritorno, alla ripetizione coattiva dello Stesso, che coloro i quali provano a spezzare questa catena, ad uscire dall’eterna ripetizione, a rinnovare, ricreare se stessi, anche se a partire da una condizione data, che è stata data loro in consegna e di cui essi non sono né padroni né autori, sebbene dunque – potremmo dire – in una condizione di non assoluta ma limitata e relativa libertà.

La risposta di Mancuso, quindi, non risolve per me il problema da lui posto del perché alcuni uomini (la grande maggioranza) prendono una certa strada, quella della eterna ripetizione dello Stesso, mentre altri (pochi) prendono la strada della evoluzione e della crescita spirituale.

Sento perciò il bisogno di cercarne un’altra.

Intendiamoci, per rispondere a questa domanda, manco per me valgono le categorie cristiane dello Spirito santo e della grazia divina, nel senso che manco io credo a chiamate di natura soprannaturale che spingerebbero alcuni sulla “buona via”, mentre altri (magari pure “chiamati”, ma non “eletti”, a voler riprendere due termini evangelici) sarebbero destinati alla “perdizione”, ad una vita senza salvezza.

Io propendo per una risposta di natura del tutto laica: la direzione che ciascuno di noi prende nella vita (mi riferisco qui ovviamente alla direzione spirituale) dipende dal contesto nel quale nasce e cresce, soprattutto dal grado e dal tipo di amore che riceve, dall’educazione e dalla formazione che gli viene impartita, dalle opportunità (fisiche, economiche, sociali, culturali…) che la vita gli offre, soprattutto dalle persone che incontrato nel corso del suo cammino, oltre che (perché anche questa probabilmente entra in gioco) da una qualche predisposizione congenita.

Da questo punto di vista (ma solo da questo punto di vista) ritengo che possa essere allora recuperato persino il concetto di “grazia”, anche se la grazia come la intendo io è lontanissima dalla grazia che intende il Cristianesimo.

La grazia cristiana, infatti, dipende totalmente da un intervento divino, quindi extra-terreno, del tutto imperscrutabile a noi mortali, con caratteristiche e tratti del tutto discrezionali, che potremmo definire addirittura capricciosi, se ciò non offendesse la sensibilità religiosa dei (cosiddetti) “credenti”.

La grazia come la intendo io è, invece, tutta legata a fattori terreni, di natura biologica, psicologica, relazionale, sociologica, che scienze quali appunto la biologia, la psicologia, la sociologia potrebbero ricostruire perfettamente o almeno per grandi linee, se potessero analizzare l’organismo e la storia del soggetto raggiunto o meno dal fenomeno “grazia”.

Da questo punto di vista il concetto di “grazia”, come la intendo io, è assimilabile al (se non proprio identificabile col) concetto di “caso”.

Che cosa, infatti, può spiegare perché alcuni individui nascono in luoghi dove regnano benessere e pace e altri in luoghi dove predominano povertà e guerra, alcuni nascono in famiglie sane e amorevoli e altri in famiglie sbandate e disamorate, alcuni nascono perfettamente sani ed altri molto malati; a voler indicare indicare solo tre dei molteplici fattori che influenzano profondamente la nostra storia personale?

Che cosa lo può spiegare se non la pura (e capricciosa) casualità?

© Giovanni Lamagna