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L’uomo è diviso; è un puzzle.

Il soggetto uomo – anche l’uomo sano, il cosiddetto “normale” – non è affatto una realtà unitaria, compatta, solida, come siamo portati a pensarlo.

Ma è “multiplo, decomposto, equivoco”, come dice Recalcati, nel suo “In cammino nella psicoanalisi” (Mimesis 2016; pag. 162).

Da questo punto di vista le nevrosi e, ancora di più, le psicosi mettono in rilievo, perché portano all’ennesima potenza, quella che è la costituzione fondamentale, strutturalmente divisa e niente affatto unitaria, del soggetto uomo, anche del soggetto sano, cosiddetto “normale”.

© Giovanni Lamagna

L’omosessualità e il concetto di “normalità”.

Esistono, a mio avviso, tre modi di considerare il concetto di “normalità”, quando parliamo di essere umano: il primo assume a criterio di riferimento la cosiddetta “statistica”, il secondo la “funzionalità oggettiva” e il terzo “la felicità soggettiva”.

Cercherò di spiegare qui di seguito quale significato hanno per me questi tre approcci al concetto di “normalità”, prendendo a pretesto una situazione, una condizione umana, che, ancora oggi, è molto al centro del dibattito relativamente a ciò che è (o sarebbe) normale e ciò che non lo è (o non lo sarebbe): l’omosessualità.

1.Se valutiamo l’omosessualità dal punto di vista statistico essa è oggettivamente fuori della norma: la maggioranza degli esseri umani, infatti, nasce e si comporta da eterosessuale; solo una minoranza è omosessuale.

Qui non si tratta affatto di concordare con le “analisi” e i giudizi, espressi addirittura in un libro, da un generale dell’esercito italiano che è assurto di recente agli onori della cronaca: si tratta di prendere semplicemente atto di un dato di realtà.

Credo che questo dato anche gli omosessuali lo possano e lo debbano riconoscere: è un puro dato numerico, che in sé non contiene (o non dovrebbe per me contenere) alcun giudizio di valore.

Che importanza ha, infatti, sul piano sociale, delle relazioni umane questo dato? Nessuna, assolutamente nessuna!

Soprattutto per chi ritiene che un principio basico e sacro delle democrazie debba essere il rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze.

Ovviamente chi non ritiene che le maggioranze debbano rispetto alle minoranze si sente in diritto di disprezzarle e, al limite, anche vessarle; e quindi disprezzerà e, al limite, vesserà anche le minoranze LGBT.

Ma in questo modo si metterà, senza alcun dubbio, fuori dall’ambito democratico: anche questo è un dato oggettivo.

È grave, quindi, molto grave, che un generale, il quale ha dovuto giurare sulla Costituzione per svolgere il suo ruolo, tragga da un semplice dato statistico, anche se oggettivo, pretesto per esprimere giudizi che offendono gravemente la dignità di alcune minoranze del nostro Paese, anzi del genere umano, da sempre esistite e che sempre esisteranno.

D’altra parte a voler essere conseguenti col principio statistico dovremmo dire che anche i geni sono anormali, perché neanche i geni rientrano nel livello normale, cioè medio, del Q. I. (Quoziente Intellettuale): si situano, infatti, ad un livello superiore.

Ma non per questo la maggioranza disprezza i geni e meno che mai li vessa o persegue. Anzi!

2. Esiste poi un secondo approccio al concetto di “normalità”, che si misura rispetto alla “funzione”, che ha (o dovrebbe avere) un determinato organo e perfino un individuo.

Da questo punto di vista, nel momento in cui si riconosce che una funzione (ma non l’unica) della sessualità è quella procreativa, ne consegue che all’atto omosessuale è negata per natura – e non solo per scelta – questa funzione.

Per natura, nel senso che due omosessuali, anche se lo volessero, non possono procreare nel momento in cui si congiungono sessualmente.

Al contrario di due eterosessuali che possono congiungersi sessualmente e fare in modo – per scelta (con opportuni metodi e strumenti) – che il loro atto non abbia (almeno in quel caso) un esito procreativo.

Anche questa è una realtà oggettiva, che non può essere negata da nessuno; manco (a meno che non vogliano negare l’evidenza) dagli omosessuali.

E, però, anche questo dato di realtà oggettiva cosa toglie alla dignità umana, esistenziale di un omosessuale? Cosa lo renderebbe meno degno (o, addirittura, non degno) di rispetto?

A me sembra, nulla, assolutamente nulla!

La sua scelta, infatti, è in tutto simile da questo punto di vista a quella di un eterosessuale, che rinuncia ad avere dei figli.

Semmai gli si potrebbe obiettare: non sai cosa ti perdi! È questa l’unica obiezione che gli si può fare.

Ma la stessa obiezione può essere fatta – appunto! – anche ad un eterosessuale che rinuncia, per sua libera scelta e non per impedimento fisiologico, ad avere dei figli.

3. Esiste, infine, un concetto di “normalità” che si misura in base al livello di felicità o di benessere soggettivi di una determinata persona.

Da questo punto di vista è del tutto evidente, è sotto gli occhi di tutti, che abbiamo omosessuali felici e omosessuali infelici, esattamente come abbiamo eterosessuali felici e eterosessuali infelici.

Abbiamo, anzi, omosessuali che sono molto più felici ed hanno raggiunto livelli di benessere psico-fisico e, perfino, spirituale di gran lunga superiori a quelli di tanti eterosessuali.

In questo caso allora è lecita, anzi viene spontanea la domanda: chi è più “normale”? l’eterosessuale infelice, depresso, ripiegato su sé stesso o nel migliore dei casi, triste e malinconico? oppure l’omosessuale felice o, quantomeno, gaio, allegro, aperto e socievole cogli altri?

Come si vede, il concetto di “normalità” può essere visto ed esaminato da svariati punti di vista; io ne ho colti tre, ma forse ce ne sono anche altri che potrebbero essere considerati e analizzati.

E da nessuno di essi riceve giustificazione e legittimità l’atteggiamento ostile, spregiativo, in una parola “omofobo”, che ancora oggi caratterizza il comportamento di molti individui nei confronti degli omosessuali e delle minoranze LGBT in generale.

© Giovanni Lamagna

Ideali, vizi, virtù, realismo, pessimismo, ottimismo in politica.

Norberto Bobbio, in un sapido e piacevole libretto del 2001, intitolato “Dialogo intorno alla repubblica”, frutto di una serie di colloqui avuti con lo storico del pensiero politico Maurizio Viroli (tra pag. 8 e pag. 9) così scrive:

“… In politica sono un realista… La politica, sia quella monarchica, sia quella repubblicana, è lotta per il potere.

Parlare di ideali, così come ne parli tu, per me significa fare un discorso retorico. Anche quando i tuoi scrittori celeberrimi parlavano di repubblica, in realtà quello che di fatto succedeva nel mondo, era la politica com’è sempre stata dai Greci in poi.

La politica come lotta per il potere la capisco, se parli invece della politica che ha per fine la repubblica basata sulla virtù dei cittadini, io mi domando cos’è questa virtù dei cittadini.

Spiegami dov’è uno Stato che si regga sulla virtù dei cittadini, uno Stato che non ricorra alla forza!

La definizione dello Stato che ricorre continuamente è quella secondo cui lo Stato è il detentore del monopolio della forza legittima, forza necessaria perché la maggior parte dei cittadini non è virtuosa, ma viziosa.

Ecco perché lo Stato ha bisogno della forza, questa è la mia concezione della politica.

E’ una categoria della politica diversa da quella che ritiene di poter parlare di Stati fondati sulla virtù dei cittadini.

Ti ho detto, la virtù era l’ideale giacobino.

La ragione per cui ci sono gli Stati, repubbliche comprese, è quella di tenere a freno i cittadini viziosi, che sono la maggio r parte.

Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

E’ una delle poche volte, forse addirittura la prima, in cui mi trovo in forte, anzi in radicale dissenso col grande filosofo (del diritto e della politica) torinese.

Il dissenso comincia subito, già rispetto alla prima affermazione di Bobbio, quando egli dice “in politica sono un realista”.

Perché a me non pare affatto che Bobbio sia un pensatore “realista”: è, piuttosto, un pensatore “pessimista”, che cerca di far passare per realismo il suo pessimismo; come fecero già, prima di lui, fior di pensatori, quali Machiavelli, Hobbes e, tutto sommato, anche Weber (per fare solo tre nomi).

Definirsi “realisti”, infatti, per me significa vedere le cose come sono, per quello che sono, senza edulcorarle, cioè senza addolcirle secondo i nostri gusti, secondo quello che ci piacerebbe che fosse e, invece, non è.

Ma significa anche non vederle più nere, più negative di quelle che sono, come fa, ad esempio, l’ipocondriaco, il quale si dà già per morto, appena avverte il minimo sintomo o solo perché ha qualche problema di salute

Ora Bobbio è veramente “realista” nel senso che ho detto sopra?

Certo, lui è convinto di esserlo. E’ convinto, cioè, che la natura umana sia fatta in un certo modo e che, per conseguenza, la politica (attività e dimensione umana per eccellenza), sia fatta in un certo modo.

Ma come intende Bobbio la natura umana e come intende, per conseguenza, la politica? E soprattutto la natura umana e la politica sono davvero come le intende Bobbio, per cui egli avrebbe descritto la realtà effettiva degli uomini e della politica?

Perché è su questo che potremo verificare se il “realismo” di Bobbio sia vero realismo o altro. Provo, allora, ad articolare il ragionamento.

Innanzitutto per Bobbio “parlare di ideali… significa fare un discorso retorico”. Il che significa che per Bobbio gli ideali hanno ben poco peso, se non addirittura un peso nullo. Prima affermazione quantomeno opinabile e non certo insindacabile.

La politica, poi, per Bobbio è essenzialmente “lotta per il potere”, “dai Greci in poi”.

Lo Stato si regge sulla forza, sulla forza legittima, di cui detiene il monopolio, ma pur sempre forza.

La “virtù dei cittadini” Bobbio dice di non sapere manco cosa sia. Anzi per lui la maggior parte dei cittadini sono addirittura viziosi e niente affatto virtuosi.

“Nessuno Stato reale si regge sulla virtù dei cittadini, ma è regolato da una costituzione scritta o non scritta, che stabilisce regole per la loro condotta, proprio col presupposto che i cittadini non siano generalmente virtuosi.”

A questo punto abbiamo abbastanza elementi per chiederci: è veramente “realista” la visione che ha Bobbio della politica e quella della natura umana che la sottende?

La mia risposta è: niente affatto! La visione della politica e della natura umana che ha Bobbio non è affatto realista, ma è una visione che possiamo definire nettamente e decisamente “pessimista”.

Bobbio, infatti, non descrive affatto la natura umana quale essa realmente è, ma quale egli ritiene che sia. Come d’altra parte è del tutto naturale, legittimo e, persino, ovvio che sia.

Il punto è che non può pretendere che tutti condividano il suo pensiero, che esso assurga cioè a pensiero assolutamente obiettivo e, quindi, universale.

So bene che per molti pensatori profondamente pessimisti sulla natura umana (come lo furono Machiavelli, Hobbes e, in parte, Weber; Bobbio intende inserirsi evidentemente in questo filone di pensiero) il loro pessimismo altro non era che realismo.

Ma io non condivido affatto questa equivalenza, come del resto non la condivisero molto illustri pensatori (Platone, Rousseau e, in fondo, lo stesso Marx, per citarne i maggiori).

Personalmente ritengo che nell’uomo convivano vizi e virtù. Che parlare di virtù non sia affatto retorico, ma che le virtù abbiano nella definizione complessiva della storia e dell’animo umano almeno lo stesso peso che hanno i vizi.

Anzi io, francamente, sono portato a pensare che le virtù abbiano addirittura un peso maggiore dei vizi, nonostante le apparenze contrarie, perché ritengo che, se a prevalere nella natura umana fossero i vizi, l’Umanità si sarebbe estinta già da tempo.

Ora, per carità, può anche darsi che ad un certo punto della storia e della evoluzione (a quel punto sarebbe meglio chiamarla “involuzione”) umana saranno i vizi a prevalere sulle virtù. Questo io non mi sento di escluderlo. Per tale motivo non mi iscrivo alla categoria dei pensatori ottimisti.

Ma al momento, valutate le zone oscure, quelle grigie e quelle luminose dell’animo e della storia dell’uomo, non mi sento di dire né che prevalgano i vizi, né che prevalgano le virtù. Questo per me è il vero “realismo”.

Per questo io mi definisco e penso di essere (nel mio piccolissimo e con tutto il rispetto per i grandissimi pensatori che ho fin qui citato, compreso Bobbio) un uomo di pensiero “realista”.

Mentre, a mio avviso, Bobbio non lo è, perché in lui prevale una visione della natura e della storia dell’uomo nettamente pessimista.

Per niente confortata dai dati della realtà (perlomeno non in maniera univoca e incontrovertibile), come vuole dare a intendere e come volevano dare a intendere gli “scrittori celeberrimi” da me citati più volte e ai quali Bobbio evidentemente si collega e si è ispirato nell’elaborare il suo pensiero.

Giovanni Lamagna