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In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

………………………………………………….

*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

……………………………………………………….

In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Si può giurare amore eterno?

Ogni promessa d’amore – come dice giustamente Massimo Recalcati – è “per sempre”, cioè promessa di amore eterno.

Nessuno promette amore a termine; quando si dichiara il proprio amore, questo amore lo si pensa sempre destinato a durare “per sempre”.

Poi, però, la storia di parecchi rapporti, se non addirittura della loro maggioranza, ci dice che molte di queste promesse, col passare del tempo, vengono meno.

E non perché chi le ha fatte fosse in malafede, volesse quindi ingannare l’amato.

Ma perché chi ha promesso amore eterno nel frattempo cambia, è destinato a modificarsi; a distanza di tempo – si può dire – non è più la stessa persona che aveva fatto quella promessa.

Questo è un terribile paradosso dell’amore: che chi lo promette non può che prometterlo “per sempre”; ma la sua promessa poggia su un terreno friabile, che può franare da un momento all’altro.

Chi promette amore eterno in un dato momento non può garantire (non sarebbe onesto con sé stesso se lo facesse) di rimanere la stessa persona anche in futuro, addirittura “in eterno”.

Anzi, per molti aspetti, sarebbe addirittura un fatto negativo se questo avvenisse nella realtà.

Infatti, una persona che non cambia nel tempo è una persona non viva, una persona che può essere considerata spiritualmente morta.

Io sono portato a dire perfino che una persona che non evolve è in realtà una persona che involve, che regredisce. Inevitabilmente!

Chi, infatti, non cambia andando avanti, cambia andando indietro.

Nessuno nella vita resta fermo; è solo un’illusione ottica che si possa rimanere nel tempo sempre uguali a sé stessi.

In questo senso e da questo punto di vista nessuno può (o dovrebbe) giurare “amore eterno”.

Tutt’al più può promettere che si impegnerà a renderlo eterno; o, per dire ancora meglio, che si impegnerà a vivificarlo in continuazione.

Per quello che tocca a lui, per quello che a lui compete.

E noi sappiamo bene che l’amore è un vincolo la cui tenuta non dipende da una sola persona, ma quantomeno da entrambe le persone che stringono un legame d’amore.

Io preferisco chiamarlo “rapporto”, perché la parola “legame” sa di carcere, prigionia.

Per cui una relazione d’amore può anche durare “in eterno”, ma a condizione che ciascuna delle due persone coinvolte si impegni a curarla, coltivarla, farla crescere, mantenerla viva.

Facendo la propria parte per rinnovare ogni giorno sé stessa come singola persona e la coppia come relazione.

Da questo punto di vista è proprio il cambiamento, la capacità di rinnovarsi e cambiare assieme, facendo un cammino fianco a fianco, che garantisce la durata di un rapporto.

Se, invece, uno cambia e l’altro sta fermo, il rapporto è destinato a logorarsi e a finire, prima o poi, nelle secche.

Ma, infine, manco questo impegno è garanzia totale ed assoluta che la relazione duri in eterno; perché ci sono poi fattori oggettivi e di contesto che prescindono dalla volontà e dall’impegno dei singoli amanti.

Ci sono cambiamenti che essi alle volte non riescono a gestire e governare.

In questo caso è difficile e forse addirittura ingiusto chiedere loro di rimanere “fedeli” ad una promessa fatta quando tutto era diverso dal presente che qui e ora si trovano a vivere.

E allora forse è meglio a questo punto dirsi che l’amore è finito; o, quantomeno, che il rapporto è mutato, come (del resto) accade a molte cose, anzi a tutte le cose, nella vita.

Come cambiano le ore in un giorno, le stagioni in un anno, come cambiano le piante, come cambiano persino le montagne, che pure sembrano inscalfibili e perciò apparentemente (ma solo apparentemente) ci appaiono eterne.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

I concetti di “Dio” e di “anima” nel pensiero buddhista.

Dopo aver affermato e, quindi, riconosciuto che il Buddhismo nega sia il concetto di Dio che quello di anima, Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020), tra la pag. 194 e la pag. 203, cerca di recuperare entrambi i concetti, come dimensioni di pensiero sostanzialmente, anche se non esplicitamente, presenti nel Buddhismo,

Ma in questo modo, almeno a mio avviso, egli non rende un buon servigio (come, invece, molto probabilmente, era nelle sue intenzioni) al Buddhismo stesso, almeno come pensiero in qualche modo compatibile con l’evoluzione (prevalente) del pensiero filosofico (occidentale) degli ultimi 4/5 secoli.

Cosa dice Mancuso rispetto al concetto di Dio? Egli parte dall’assunto che, quando si parla di Dio, “si intende rimandare a un livello dell’essere diverso rispetto a quello della vita ordinaria, ritenuto più vero, più giusto, più stabile, permanente e non impermanente, pace infinita e non lotta continua.”

E poi aggiunge: “… parlando di Dio si intende anche affermare che questo livello più vero dell’essere, pur essendo totalmente altro, è altresì fortemente intrecciato con il nostro livello dell’essere, così che è possibile accedervi qui e ora, entrarvi in comunione, sperimentarlo, viverne. E’ quanto il Buddha sperimentò con l’esperienza del nirvana…”

Per, infine, concludere, in buona sostanza, che quindi il concetto di “divino” non è affatto estraneo, ma pienamente presente, per quanto solo sottinteso, nel pensiero buddhista.

Qui, almeno in questo passaggio, Mancuso si dimostra un cattivo filosofo, perché identifica, fa coincidere termini ed esperienze diverse, confondendo i concetti, invece di chiarirli.

Innanzitutto fa coincidere il concetto di “divino” con il concetto di “Dio”; mentre i due concetti non coincidono affatto; il “divino” non è “Dio”; perlomeno non è il Dio trascendente, separato da questo mondo, creatore e non creato, eterno, infinito e onnisciente, come lo intende la gran parte delle tradizioni religiose del mondo.

In secondo luogo l’esperienza del “nirvana”, come la descrive il Buddha, è appunto un’esperienza etica, meditativa, ascetica, contemplativa, mistica, ma pur sempre un’esperienza umana, quindi un’esperienza che può essere analizzata con gli strumenti e descritta coi termini della psicologia.

Un’esperienza che potremmo anche definire, in senso lato e metaforico, esperienza del “divino”, ma di un divino che “è qui, ora, in questo mondo; è questo mondo diversamente sperimentato”; non è certo l’esperienza di un mondo altro, diverso, separato, da quello nel quale ora viviamo.

Ora cosa ha a che fare questa esperienza con il concetto di “Dio” classicamente inteso, come ce lo hanno trasmesso le maggiori tradizioni religiose del mondo e perfino la maggioranza delle filosofie dei primi due millenni di storia di questa disciplina di pensiero? A mio avviso, nulla; anzi le è del tutto incompatibile.

Più complesso si fa il discorso relativamente all’anima, sia relativamente a quello che fa Buddha che a quello che fa Mancuso.

Perché, mentre nei confronti dell’esistenza o meno di Dio, – dice Mancuso – “Buddha sospese il giudizio con il suo silenzio, sul concetto di anima egli prese esplicitamente posizione parlando di non-anima, anatman, negò cioè la realtà dell’anima (in sanscrito atman) per affermare piuttosto l’assenza di un sé individuale e permanente. Per il Buddha infatti l’individuo è soltanto un insieme di aggregati impermanenti e il più delle volte ricolmi di sofferenza…”.

Qui manifesto subito il mio accordo con Buddha e, allo stesso tempo, il mio dissenso da lui.

Sono sostanzialmente d’accordo con lui sul fatto che l’individuo, come del resto ogni altra realtà singolare, anche quelle esclusivamente materiali (come, ad esempio, una pietra) siano realtà “impermanenti”, destinate cioè ad avere un inizio e una fine, quindi a non durare in eterno.

Non sono d’accordo, invece, con lui sul fatto che le varie realtà, specie quelle non esclusivamente materiali (come, ad esempio, una psiche umana) non abbiano “un sé individuale”, che non si confonda con altre realtà individuali (ad esempio, una pietra), almeno per la fase in cui l’insieme di aggregati che la costituisce si mantiene unito, compatto, potremmo anche dire in vita.

Non sono inoltre d’accordo con Buddha sul fatto che ciò che caratterizza le varie realtà individuali, singolari, sia soprattutto, se non esclusivamente, la sofferenza; perché ciò contrasta – a quanto mi consta – con il sentimento diffuso e prevalente della gran parte di esse o, almeno, di quelle umane.

Non sono, infatti, in grado di dire se una roccia o un fiore o un cane siano felici o almeno contenti di stare al mondo.

Ma sono bene in grado di affermare che la maggior parte degli uomini sono contenti di essere venuti al mondo e ci vogliono restare il più a lungo possibile, anche se questo loro stare al mondo non è esente da dolori fisici e sofferenze psichiche; altrimenti avrebbero la possibilità e troverebbero il modo di dargli volontariamente un termine.

Vengo, dunque, al discorso (molto singolare, a mio avviso!) che fa Mancuso sul tema dell’anima.

Egli da un lato concorda sul fatto che quella che Buddha chiama “mente” (citta) e che lui (Mancuso) definisce come “centro di volizione personale” o “coscienza” o “io psichico” sia destinata a perire, allo stesso modo del corpo, dall’altro afferma che non “finisce tutto” con la morte. Anzi attribuisce anche a Buddha questo suo pensiero.

Il suo ragionamento francamente mi pare che si arrampichi sugli specchi; proverò a dimostrare perché.

In primis si chiede: che cosa intendiamo concretamente con il concetto di “anima spirituale”? E si dà la seguente risposta, che articola su tre punti fondamentali:

“1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e di volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione;

2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte;

3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro spirituale svolto e dell’energia morale accumulata.”

Secondo Mancuso “il Buddha, pur negando l’esistenza dell’anima a livello concettuale, riconobbe pienamente le (tre) esperienze fondamentali che ne sono alla base.”

Proverò, allora, ad entrare nel merito dei tre ragionamenti fondamentali di Mancuso e a distinguere gli argomenti sui quali concordo da quelli sui quali dissento, perché mi appaiono incongrui.

1.Buddha “nega l’esistenza di un sé separato ma sottolinea con molta forza la volizione autonoma in prima persona singolare, la prima delle tre esperienze veicolate dal concetto di anima, ovvero la capacità di volere coscientemente e responsabilmente…”.

Buddha, infatti, “insistette sempre sul fatto che il lavoro di liberazione dalla ruota dell’esistenza tramite la ruota del Dharma debba essere compiuto dal singolo individuo e che nessun altro lo possa compiere al suo posto, non essendoci spazio per gli interventi soprannaturali…

Le ultime parole attribuitegli richiamano esattamente lo sforzo personale “Continuate a esercitarvi, instancabilmente”, a rimarcare nel modo più netto la centralità della volontà personale.”. E fin qui concordo con Mancuso.

2. Non concordo affatto, invece, con la seconda affermazione che fa – tra l’altro molto sbrigativamente, dandola quasi per scontata sul piano logico-teoretico – Mancuso relativamente al concetto di “anima”: la possibilità per questa “di connessione con l’essere eterno fino alla possibilità di esserne parte”.

In questo caso Mancuso opera quello che a me sembra un vero e proprio salto logico: perché, infatti, il riconoscimento della realtà che egli chiama “anima” dovrebbe implicare automaticamente la possibilità di entrare a far parte dell’essere eterno?

E, inoltre, su quali basi si dimostra l’esistenza di un “essere eterno”, almeno nel senso in cui lo intende Mancuso, nel senso cioè in cui comunemente qui in Occidente si intende “Dio”? Su questo argomento mi sono già soffermato in precedenza e quindi non ci ritorno sopra.

3. Anch’io concordo sulla tesi dell’anima come “continuità personale” dell’individuo. In precedenza l’ho già sostenuta e avvalorata. Concordo anche sul fatto che il buddhismo implicitamente, anche se non esplicitamente, la riconosca. Questo però cosa significa: che l’anima individuale è destinata a sopravvivere al corpo che l’ha ospitata fin quando questo è rimasto in vita?

Anche qui mi trovo davanti a un salto logico, che non sono disposto a fare.

Per me è legittimo affermare l’esistenza di una realtà psichica individuale e sono anche disposto a chiamarla, per convenzione terminologica, “anima”. Non sono disposto, però, a parlare di immortalità dell’anima. Il fatto che lo faccia il Dalai Lama attualmente vivente non è per me argomento sufficiente a favore di tale tesi.

Certo, il buddhismo afferma la teoria delle “rinascite successive”! Ma, come riconosce lo stesso Mancuso, secondo questa teoria ciò che trasmigra in altre vite non è l’individuo, non è la sua “anima immortale, quanto piuttosto l’operato dell’individuo, l’influenza e il carico morale delle sue azioni”.

Di cui io colgo l’inconfutabile nucleo di verità: ognuno di noi lascia, soprattutto alle persone che più gli sono state vicine e alle generazioni successive, l’eredità di un insegnamento e di una testimonianza personali, nella loro eventuale valenza positiva come in quella eventualmente negativa.

Ma questo cosa ha a che fare con la teoria dell’immortalità dell’anima? Nulla!

Almeno sotto questo punto di vista a me pare, dunque, che il Buddhismo si dimostri come sistema di pensiero molto più “laico” e, soprattutto, più teoreticamente rigoroso di Vito Mancuso; le cui riflessioni sono comunque per me molto stimolanti e quindi degne di tutta la mia stima e il mio apprezzamento, anche quando non le condivido o le condivido solo in parte.

© Giovanni Lamagna

Due concetti buddhisti – il dharma e il karma – spiegati in maniera semplice.

Che cosa ho capito io di due concetti fondamentali nel Buddhismo: quello di “dharma” e quello di “karma”?

Per rispondere a questa domanda utilizzerò termini ed espressioni forse lontani dal linguaggio tipicamente buddhista e più vicini alla cultura e alla tradizione occidentali, ma cercherò di dare comunque una lettura il più possibile corretta e obiettiva dei due termini nella loro sostanziale accezione buddhista.

Il “dharma” è per me il punto fermo, da cui tutto si diparte, tutto si dipana e, per conseguenza, tutto si ordina e si spiega o può spiegarsi.

In questo senso il termine “dharma” potrebbe essere definito anche, con una metafora, come il “centro geometrico del Tutto”, col quale bisogna entrare in contatto, nel quale bisogna “prendere rifugio” (a voler usare un’espressione – questa sì – tipicamente buddhista), se si vuole entrare in connessione con il Tutto.

E, per conseguenza, se si vuole mettere ordine, armonia, nella propria vita interiore.

Nessuno di noi nasce già costituzionalmente connesso con questo Centro: per questo siamo tutti normalmente e il più spesso scentrati; e, quindi, nevrotici.

Si entra in connessione col “dharma”, col “centro del Tutto”, non per nascita, ma solo per scelta, per una decisione assunta, in seguito ad un certo tipo di presa di coscienza, di consapevolezza raggiunta.

Che, tra l’altro, deve poi essere mantenuta e quindi curata, nel corso della propria vita; non si mantiene viva in modo scontato e automatico una volta ottenuta.

A questo fine serve, appunto, la pratica principale del Buddhismo, che, come tutti sappiamo, è la meditazione; nel linguaggio di noi occidentali molto più simile alla contemplazione che al nostro modo di intendere e praticare la meditazione.

Il “karma”, invece, è la legge che presiede alla vita di ogni cosa, in base alla quale ogni cosa (come ogni azione) è figlia/frutto/effetto di altre cose e di altre azioni; e, a sua volta, sarà causa/madre/pianta generatrice di altre cose e di altre azioni, in un ciclo continuo e inarrestabile, potremmo anche dire eterno.

Da questo punto di vista possiamo anche dire, dunque, che ogni cosa (compresi noi stessi) è eterna; nel senso che sicuramente ha un termine la vita singola, individuale delle cose, compresa la nostra; ma non ha termine la Vita (il Karma, appunto!), di cui la nostra vita singola è semplice particella, piccolo e transitorio frammento.

Ogni cosa nasce, cresce, si riproduce, nella sua forma soggettiva, potremmo pure dire “apparente”, fenomenica, ma in realtà non muore mai, nel senso che non si distrugge, non si estingue, ma semplicemente si trasforma.

Anche il concetto di “karma”, come quello di “dharma”, non ha – come è del tutto evidente da questa semplice e sintetica esposizione – una semplice valenza teorica.

Ma ne ha una anche pratica, cioè morale, in quanto la trasformazione della nostra soggettività particolare molto dipende dalle nostre scelte, dai nostri comportamenti, dalle nostre azioni di singoli individui.

E, quindi, carica ogni uomo di una grande responsabilità etica.

© Giovanni Lamagna

L’uomo è destinato ad essere irrimediabilmente infelice?

Il secondo mito filosofico che a mio avviso va sfatato è quello della radicale infelicità umana. Il filosofo in qualche modo emblema di questo mito è Schopenhauer.

Il quale, pur avendo raccolto parecchi appunti per dar vita, prima o poi (era questa la sua intenzione), a un piccolo manuale di eudemonologia – ovverossia l’arte della felicità – (progetto rimasto poi solo a livello di abbozzo), aveva della vita una visione radicalmente pessimistica, essendo per lui “la felicità e i piaceri… soltanto chimere che un’illusione ci mostra in lontananza, mentre la sofferenza e il dolore sono reali e si annunciano immediatamente da sé, senza bisogno dell’illusione e dell’attesa”.

Per cui “vivere felici può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente”.

Anche qui, come per la prima dicotomia (quella buono/cattivo), io tendo a rifiutare la rigida contrapposizione tra due polarità inconciliabili, tra il concetto di felicità e quello di infelicità, in base alla quale per alcuni (pochi in verità) l’uomo sarebbe un animale fondamentalmente felice, per altri (i più, almeno tra i filosofi) condannato ad una fondamentale infelicità.

La mia esperienza mi porta a dire che l’uomo è felice ed infelice allo stesso tempo. E’ felice (almeno nella maggior parte dei casi, a meno di non essere nato in condizioni particolarmente sfortunate) per il solo e semplice fatto di essere venuto al mondo e di vivere.

Tanto è vero che in lui è fortissimo un istinto, padre di tutti gli altri istinti, che lo porta a voler vivere e non certo a morire. I casi in cui prevale il desiderio di morire e di togliersi la vita sono eccezioni a questa regola, non certo la norma.

L’uomo è felice, nel senso che ha quantomeno esperito momenti di felicità nella sua vita. Altrimenti non saprebbe neanche cosa sono l’infelicità e il dolore, che per me altro non sono che assenza di felicità (appunto) e assenza di piacere, di gioia.

Questo cosa vuol dire allora? Che l’uomo è un animale essenzialmente felice? Niente affatto! Non lo penso per niente!

La condizione umana, quella che vivono tutti gli uomini, chi più e chi meno, chi prima o chi dopo, incontra inevitabilmente il dolore sul suo tragitto.

E soprattutto è destinata a finire con la morte, che è la fine di tutto, quindi anche di quel poco o molto di felicità, di cui siamo riusciti a godere durante la vita.

E questo pensiero incombe minaccioso su tutta l’esistenza di noi umani, generando un’ombra che rabbuia anche i momenti e le vite più felici.

In conclusione, anche rispetto alla dicotomia felicità/infelicità, io sarei portato a dire che la condizione umana è un impasto singolare di felicità e infelicità.

L’uomo non è né radicalmente felice (cosa, invero, un po’ difficile da sostenere) né radicalmente infelice.

E’ a volte felice, a volte infelice. In nessun caso è felice sempre o infelice sempre.

Anche Leopardi, che non può certo essere definito un uomo felice, che nei suoi accenti rispetto alla vita ricorda molto quelli di Schopenhauer, in certi momenti ha assaporato la gioia, se non proprio la felicità.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere versi come questi:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare

Cos’è questo naufragare del pensiero nel mare dell’infinito, dell’immenso, se non una profonda, intima esperienza, quand’anche solo momentanea e breve, di felicità?

(3, continua)

Giovanni Lamagna