Archivi Blog

Reale e simbolico.

Per noi umani – come ci ha insegnato Lacan e come continua a ricordarci Recalcati – il reale e il simbolico hanno lo stesso peso, la stessa importanza.

Ciò che ci caratterizza, infatti, rispetto agli altri animali, è il linguaggio.

E di cosa è fatto il linguaggio se non di simboli?

Per noi umani – da quando abbiamo imparato a comunicare con le parole – la realtà si è fatta in gran parte simbolica: ha perso la sua innocenza e il carattere primordiale di nuda cosa.

Rinunciare ai simboli per restare attaccati (velleitariamente) al puro “reale” equivale, quindi, a rinunciare allo specifico della nostra umanità.

© Giovanni Lamagna

Fondo depressivo.

Dice Recalcati: “… (c’è un) fondo depressivo che accompagna ogni fine analisi che, come tale, implica sempre l’incontro del soggetto con l’inesistenza dell’Altro.”.

Io aggiungo: c’è un fondo depressivo che accompagna ogni distacco, ogni separazione, ogni lontananza.

E, quindi, ogni trasloco, ogni fine estate, ogni fine vacanza o viaggio, perfino la fine della lettura di un libro che ci aveva particolarmente coinvolto, appassionato.

© Giovanni Lamagna

L’uomo è diviso; è un puzzle.

Il soggetto uomo – anche l’uomo sano, il cosiddetto “normale” – non è affatto una realtà unitaria, compatta, solida, come siamo portati a pensarlo.

Ma è “multiplo, decomposto, equivoco”, come dice Recalcati, nel suo “In cammino nella psicoanalisi” (Mimesis 2016; pag. 162).

Da questo punto di vista le nevrosi e, ancora di più, le psicosi mettono in rilievo, perché portano all’ennesima potenza, quella che è la costituzione fondamentale, strutturalmente divisa e niente affatto unitaria, del soggetto uomo, anche del soggetto sano, cosiddetto “normale”.

© Giovanni Lamagna

Il fantasma che orienta la nostra libido da adulti.

Ciascuno di noi – come dice Recalcati (“Un cammino nella psicoanalisi” Mimesis 2016; p. 104-105) – insegue un fantasma.

Quel fantasma che – secondo la lezione freudiana – si è formato dentro di noi dopo che il nostro desiderio primario – quello di congiungerci carnalmente col nostro genitore di sesso opposto – è stato castrato (tra i 3 e i 5 anni).

Da allora la nostra vita emotiva, affettiva, sessuale è fondamentalmente impegnata a riparare gli effetti della castrazione subita.

Sono nati, si sono formati, quindi, in noi emozioni, sentimenti, immagini, fantasie, sostituti del desiderio primario (il fantasma, appunto!), che richiedono di essere tradotti in atti.

Da questo momento in poi la nostra vita emotiva, affettiva e sessuale sarà guidata, orientata da questo fantasma.

Per alcuni – che hanno vissuto in maniera particolarmente traumatica la castrazione primaria – questo fantasma diventerà una vera e propria ossessione.

© Giovanni Lamagna

Desiderio e godimento per la vita e contro la vita.

Esiste un desiderio di vita, un desiderio per la vita.

Ed esiste un desiderio di morte, un desiderio per la morte.

Entrambi procurano un godimento, ben reale.

Solo che nel primo caso il godimento è in funzione della vita.

È , quindi, produttivo ed evolutivo, ed è in genere condiviso con un altro o con altri.

Nel secondo caso è un godimento distruttivo e autodistruttivo.

Come dice Recalcati, “autistico, autrofico”.

Narcisistico ed egocentrico, ripiegato su sé stesso, aggiungo io.

© Giovanni Lamagna

I limiti che ci vengono imposti dalla Realtà e quelli che ci imponiamo da soli coi sensi di colpa.

Non ci sono dubbi che la vita dell’uomo (come afferma Recalcati e come ha affermato, prima di lui, Lacan) sia segnata ineluttabilmente dall’atto della castrazione simbolica e che, quindi, il suo desiderio incontrerà sempre (e dovrà non solo riconoscere, ma accettare) il limite imposto dalla Legge.

Il perverso è colui che non solo non rispetta questo limite, ma non lo vede, non lo riconosce nemmeno; per il perverso il suo desiderio non ha limiti, non incontrerà mai il limite della Legge, semplicemente perché per lui la Legge non esiste, esiste solo il suo desiderio.

Quando andrà a sbattervi contro (perché prima o poi andrà a sbattervi contro) sarà troppo tardi; avrà fatto danni irreversibili non solo a coloro con i quali entrerà in una qualche relazione (ovviamente del tutto psicopatologica), ma anche e forse innanzitutto a sé stesso.

Fermo, quindi, restando questo concetto, che cioè il desiderio sano non si pone mai come un Assoluto, ma che deve confrontarsi sempre col Limite stabilito dalla Legge, è altrettanto indubitabile che in molti casi l’uomo impone a sé stesso limiti nevrotici, insani, quasi allo stesso livello della perversione di chi non riconosce alcun limite.

Ovverossia limiti che non sono fondati sul “principio di realtà” (l’equivalente della Legge lacaniana, di cui il perverso non riconosce l’esistenza, mentre la persona sana sì), ma sono stati creati e autoimposti dall’uomo stesso e dai suoi sensi di colpa, nei confronti di una libertà desiderata e però altrettanto temuta.

L’uomo sano deve dunque saper distinguere il limite strutturale, oggettivo della condizione umana (quello che è appunto all’origine dell’atto della castrazione simbolica) dal limite nevrotico, quello che ciascuno di noi (chi più e chi meno) tende a imporsi da solo, senza che ce ne sia un’oggettiva necessità.

La liberazione da questo limite, la liberazione in altre parole da quella istanza psichica che Freud ha chiamato Super-ego, è, a mio avviso, atto egualmente necessario e sano dell’accettazione del limite imposto dall’Io all’Es in nome del “principio di realtà”.

Pertanto, l’affermazione “Laddove c’era il Super-ego ci sarà l’Ego” potrebbe a buon diritto, opportunamente, secondo me, completare e integrare concettualmente la famosa affermazione freudiana “Laddove c’è l’Es ci sarà l’Ego”.

© Giovanni Lamagna

La madre “buona” e la madre “cattiva”.

La madre “buona” è quella che – dopo un periodo limitato dedicato allo svezzamento del figlio – recupera pienamente la sua femminilità (cioè il suo essere “innanzitutto” una femmina) e si separa gradualmente – ma ogni giorno di più – dalla creatura che ha generato.

La madre che non realizza questa separazione (o lo fa in maniera oscillante, incerta, ambigua) è – bisogna dirlo! – una “cattiva” madre.

Può arrivare ad essere una madre vampira; quella che Recalcati chiama “madre coccodrillo”.

© Giovanni Lamagna

Il nuovo, lo stesso, il diverso.

Sono pienamente d’accordo con Recalcati quando afferma che “il nuovo” e “lo stesso” non sono per forza di cose due concetti opposti, che debbano stare in antitesi.

Come, d’altra parte, “il nuovo” e “il diverso” non sono necessariamente sinonimi, non è scontato che vadano naturalmente e automaticamente sempre d’accordo.

Si può, infatti, trovare del “nuovo” nello “stesso”.

Mentre non è detto che si trovi sempre e davvero del “nuovo” nel “diverso”.

Fatta questa premessa, possiamo dire che è del tutto legittimo cercare le novità nella propria vita: questo fa parte del naturale, fisiologico bisogno di cambiare periodicamente pelle e dell’altrettanto naturale desiderio di arricchirsi umanamente, di crescere, di evolvere, di non restare fermi allo stesso palo per tutta la vita.

Cosa particolarmente vera, giusta, legittima, nelle relazioni, specie in quelle di coppia.

Non bisogna, però, cadere nell’illusione ingannevole che la novità la si trovi semplicemente cercando il nuovo; ad esempio, un nuovo partner.

Perché ci potremmo molto facilmente ritrovare con un partner nuovo molto simile, nelle sue caratteristiche psicologiche e, persino, in quelle fisiche, al partner vecchio, dal quale ci siamo separati per andare a vivere col nuovo.

Molto meno ingannevole e illusorio potrebbe essere il ricercare la novità, anzi le novità, all’interno dello stesso rapporto, anche se questo magari dura da anni.

La cosa è indubbiamente più faticosa e impegnativa per entrambi i partner di una relazione, ma molto meno a rischio di andare incontro a un (nuovo) fallimento.

Anche se, ovviamente, richiede una disponibilità continua, permanente, costante, alla ricerca, al rinnovamento e al cambiamento.

Richiede in altre parole che entrambi i partner siano persone evolutive, in cammino, disposte a rischiare, a mettersi in continua discussione; e non statiche, ferme, poltronare (oggi si direbbe “divaniste”), piccolo-borghesi, benpensanti, in cerca (solo) di rassicurazioni e conferme l’uno dall’altro.

© Giovanni Lamagna

Amore e mancanza.

“Amare significa dare all’altro quello che non si ha”?

Così dice Lacan con una frase paradossale, perciò suggestiva, che forse anche per questo – se non proprio per questo – è divenuta celebre.

Ma io francamente non condivido questo pensiero.

Infatti è vero che “non esiste amore che non si nutre di mancanza”, come afferma Recalcati (“Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 118).

Ma, in questo caso, è la mancanza mia che viene in qualche modo riempita da ciò che l’Altro rappresenta per me.

Ora come potrebbe essere riempita questa mia mancanza (per quanto in forma del tutto parziale), se l’Altro non possedesse (per quanto in forma del tutto parziale) ciò che a me manca?

O, all’incontrario, come potrei io riempire la sua mancanza, se non avessi almeno un po’ di ciò che a lui/lei manca?

Inoltre, è vero che gli amanti sono l’uno per l’altro “una tregua dal dolore del mondo”, come ha scritto John Berger.

Ma (appunto!) sono una tregua dalla “ferita” del mondo, non l’aggiunta di un’ulteriore ferita.

Come sarebbero nel caso potessero darsi solo quello che non hanno; e non, invece, quello che hanno.

Io sono per l’ovvio, anche se meno suggestivo del paradosso lacaniano: non si dà, se non si ha qualcosa da dare.

Se non si ha, si può solo prendere; come fanno i parassiti, che si succhiano il sangue reciprocamente.

E non gli amanti, i veri amanti, che sono disposti persino – in casi estremi – a donare il loro sangue l’uno per l’altro.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna