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A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India sta tramontando il Buddhismo e credo che prima o poi tramonterà anche l’Induismo; in Cina il Buddhismo (così come il Confucianesimo) sono morti già da alcuni decenni, sotto i colpi della rivoluzione comunista; in Occidente già da molto tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo nelle sue varie correnti; e la stessa cosa si può dire dell’Ebraismo.

Queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza gettare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione” culturale, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità antropologica e del proprio patrimonio storico.

Tra l’altro proprio nel momento in cui l’abbattimento di tante barriere – che per millenni avevano tenuto lontani, quasi incomunicabili tra loro, Oriente e Occidente – avrebbe potuto consentire un positivo incontro e un fecondo intreccio di culture tanto diverse.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, – mi sbaglierò, ma la mia impressione è questa – ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio non di epoca, ma di Era, come lo fu quello che segnò il passaggio dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

C’è selvaggio e selvaggio… (2)

C’è un “selvaggio” che è puro istinto: l’ES freudiano; o altrimenti l’animale allo stato puro.

Che non si concilia con l’umano; quando è presente nell’uomo, è – possiamo dire – l’umano bestiale.

Ma c’è anche un “selvaggio” educato, che la civiltà ha preservato (almeno in parte), senza troppo edulcorarlo, addomesticarlo o addirittura negarlo.

È il selvaggio che l’IO freudiano non sente la necessità di colonizzare, trasformare, perché ha superato il vaglio del “principio di realtà” e allo stesso tempo non si è conformato alle richieste/censure del Super-io freudiano.

È un selvaggio che potremmo definire nobile, pienamente compatibile con “l’umano”.

A volte come istanza psichica anche molto esteso e niente affatto residuale.

Fortunato chi è riuscito a conservare dentro di sé questo “selvaggio”, resistendo ai divieti e alle seduzioni omologanti e confortevoli del Super-io!

© Giovanni Lamagna

C’è selvaggio e selvaggio…

C’è un “selvaggio” in noi che è positivo e perciò va mantenuto vivo.

E’ il “selvaggio” che ci mantiene in contatto con la nostra natura primigenia, che è quella animale, ma nello stesso tempo è aperto alla civiltà, alla cultura; è un “selvaggio” che vuole evolvere, che non vuole rimanere solo selvaggio.

E c’è poi un “selvaggio” che, invece, è negativo, perché pretende di sottrarre le pulsioni (sia quelle puramente fisiche/organiche che quelle emotivo/affettive) ad ogni filtro e controllo razionale e sociale.

Un selvaggio che vuole rimanere solo selvaggio, che non vuole avere nulla a che fare con la civiltà.

Il primo “selvaggio” è buono e sano, perché è a favore della vita e della comunità; è biofilo, avrebbe detto Fromm.

Il secondo “selvaggio” è cattivo e insano, perché è contro la vita e la comunità; è necrofilo, avrebbe detto sempre Fromm.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

Negazione della differenza e omosessualità.

Nel libro “la Legge della parola” (2022 Einaudi; pag. 58-59) Massimo Recalcati così scrive:

Ripudiando la via lunga del pensiero, il soggetto della violenza appare trascinato verso l’illusione incestuosa di una totalizzazione compiuta con la Cosa.

E’ quello che secondo Freud possiamo vedere in atto nell’omicidio, nel cannibalismo e nell’incesto quali forme estreme di negazione dell’alterità dell’Altro.

Queste tre esperienze condividono infatti come unico denominatore la spinta della negazione della differenza: nell’omicidio attraverso l’eliminazione fisica dell’esistenza dell’Altro, nel cannibalismo mediante la sua incorporazione e, infine, nell’incesto attraverso un movimento di riunificazione senza scarti con la nostra origine.

In tutte e tre queste situazioni si verifica un movimento di assimilazione o di negazione dell’alterità dell’Altro.

Ecco perché secondo Freud il programma di ogni Civiltà si impernia sull’edificazione di tre fondamentali interdizioni simboliche che impediscano omicidio, cannibalismo e incesto.

La trasgressione di questi divieti trascinerebbe il soggetto fuori dalla Legge degli uomini, gettandolo in quel campo desertico che Lacan ha definito come “godimento mortale” dove la vita umana si dissolve in una regressione all’indifferenziato.

Condivido in buona sostanza questa riflessione.

Che però mi insinua un dubbio, che diventa, automaticamente, una domanda: all’elenco delle tre esperienze, che, secondo Freud, Lacan e lo stesso Recalcati, tendono a negare la differenza dell’Altro, non se ne dovrebbe – seguendo il filo logico del loro ragionamento – aggiungere una quarta: quella omosessuale?

Non c’è, infatti, a fondamento (anche) dell’esperienza dei rapporti omosessuali la negazione dell’Altro come differenza, un bisogno (a suo modo incestuoso) di riconoscersi nell’Altro uguale a sé e una difficoltà ad entrare in relazione con il diverso da sé?

Qui ricordo, ad avvalorare questo mio dubbio e questa mia domanda, che una certa lettura psicoanalitica dell’omosessualità già in passato avevo fatto risalire questo orientamento sessuale ad un rapporto incestuoso più o meno latente col genitore del latente,genitore,sesso opposto.

Cosa che avrebbe comportato la sacralizzazione di questa figura, con la conseguenza di inibire successivamente il rapporto sessuale con persone di questo stesso sesso e orientare lo spostamento dell’interesse libidico verso persone del proprio sesso.

Ricordo benissimo che Cesare Musatti, padre della psicoanalisi italiana, dava una tale lettura e interpretazione della omosessualità di un suo contemporaneo, personalità molto conosciuta della cultura italiana; sto parlando di Pier Paolo Pasolini.

Di Pasolini era, infatti, ultra-noto il rapporto di grande amore e intimità che lo legava alla madre, alla quale sono dedicate pagine indimenticabili e molto poetiche dello scrittore friulano; rapporto che sembrerebbe avvalorare la tesi di Musatti.

Ovviamente manco lontanamente mi passa per la mente di accostare – dal punto di vista della psicopatologia e meno che mai dal punto di vista della criminologia – l’omosessualità ad esperienze quali l’omicidio, il cannibalismo o l’incesto.

In questi tre casi ci troviamo senza ombra di dubbi in presenza di fenomeni non solo deprecabili, ma da giudicare e condannare anche sotto l’aspetto giuridico e penale; ci troviamo in altre parole di fronte a veri e propri crimini, più o meno gravi.

Sicuramente, invece, nel caso dell’omosessualità ci troviamo di fronte a un’esperienza che non ha nulla di deplorevole né sul piano etico né, tantomeno, sul piano giuridico penale.

E, però, sulla base del ragionamento che fa Recalcati, mi chiedo se non siano da riscontrare nell’esperienza dell’omosessualità elementi, fattori psicologici che sanno di chiusura, di blocco, di mancato sviluppo della libido.

Come, d’altra parte, sono, con tutta evidenza, da riscontrare, a mio avviso, (e qui l’accostamento può risultare utile) nell’esperienza della masturbazione; la quale certamente non ha nulla di riprovevole sul piano etico e meno che mai ovviamente (dovrebbe essere persino superfluo rimarcarlo) su quello giuridico.

E, però, altrettanto certamente, l’atto masturbatorio rappresenta una “sconfitta” o, quantomeno, una deviazione surrogatoria, sul piano psicologico del naturale istinto dell’uomo ad accoppiarsi sessualmente con un suo simile.

Tanto è vero che esso non può fare a meno (solitamente) di accompagnarsi a fantasie e a desideri di accoppiamento, seppure solo virtuale.

La solitudine in cui si svolge l’atto sessuale masturbatorio è la negazione del fine stesso a cui tende naturalmente l’istinto sessuale, che è quello dell’accoppiamento, della “coniunctio”, e non del soddisfacimento solitario.

L’atto masturbatorio è in fondo – come ben sa chi ha vissuto e vive tale esperienza – solo un triste e malinconico soddisfacimento surrogatorio dell’istinto e del desiderio sessuale, che tendono per loro natura all’accoppiamento, al congiungimento e all’unione di due corpi.

Tanto è vero che viene seguito in genere da un senso (più o meno profondo) di frustrazione e non di appagamento.

Per cui il fatto che sia sciocco, ancora oggi, emettere un giudizio etico sul fenomeno della masturbazione (come pure, invece, si è fatto per secoli, anzi millenni, e ancora oggi si fa presso alcune tradizioni culturali, soprattutto religiose), non vieta né impedisce una sua valutazione sul piano psicologico, come fenomeno tipicamente adolescenziale, quindi regressivo (o tutt’al più surrogatorio), se vissuto in età adulta.

Mi rendo conto che qui avanzo – almeno come ipotesi interpretativa di un’esperienza come l’omosessualità – un ragionamento di questi tempi molto poco politically correct.

Ma la mia onestà intellettuale me lo impone e perciò lo faccio anche a costo di attirarmi – come prevedo – una montagna di critiche.

Pronto altresì a sciogliere i miei dubbi e a rivedere queste mie analisi di fronte ad argomenti contrari e inoppugnabili, che dovessero risultare da un eventuale confronto con tesi opposte.

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che ancora una volta mi sono tornate sotto gli occhi in questi giorni, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da quasi nove mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina.

La Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parlava Freud.

E tuttavia questo istinto, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che potrebbe sfociare, prima o poi, in un conflitto mondiale e nucleare, il cui esito non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile, anzi impossibile, per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi ultimi nove mesi) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.

Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.

Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.

A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.

Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)

Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.

Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.

E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.

La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.

E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?

Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.

Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.

In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.

In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.

Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.

Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.

Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

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La misura del nostro grado di umanità.

Dal modo in cui ci rapportiamo ai bambini, alle donne, agli ammalati, ai portatori di handicap, agli omosessuali, agli stranieri, agli anziani, ai vecchi (e non c’è in me nessuna intenzione o volontà, neanche inconsce, di assimilare tali categorie di persone) si misura il nostro grado di civiltà.

Anzi il nostro grado di umanità.

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