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Norme esterne e norme interne.
Pubblicato da giovannilamagna
Tutti quanti noi siamo obbligati da certe norme e non siamo obbligati (almeno in senso stretto) da altre, che pure possiamo definire norme.
Le prime sono norme che si impongono a noi dall’esterno, le seconde ci vengono dall’interno.
Siamo sicuramente obbligati ad obbedire (anche se alcuni manco a queste si sentono vincolati) alle norme giuridiche, alle leggi che regolano la vita della società di cui siamo parte.
Siamo obbligati ad obbedire alle norme non giuridiche, ma non per questo meno stringenti (si chiamano “convenzioni sociali”), che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte, a cominciare da quelle della famiglia.
A meno che non vogliamo correre il rischio di esserne prima o poi cacciati via, espulsi; moralmente, psicologicamente, se non proprio fisicamente e materialmente.
Non siamo, invece, obbligati, in senso stretto, ad obbedire alle norme morali, che rappresentano qualcosa in più delle norme del diritto positivo che regolano le società/Stato e delle norme, più o meno formali ma non giuridiche, le convenzioni. che regolano la vita delle comunità di cui facciamo parte.
Voglio dire: non siamo obbligati in senso stretto, cioè nel senso letterale del termine; l’obbligo in senso stretto prevede, infatti, un vincolo, diciamo pure una minaccia esterni e delle sanzioni nel caso di sua trasgressione.
Ma siamo allo stesso tempo obbligati, anche se solo in senso metaforico.
Nel senso che la coscienza, il foro interiore (che è cosa ovviamente diversa dal foro esteriore dei tribunali civili e penali), ci pone davanti a delle norme (che definiamo morali), al cui rispetto non ci obbliga con la minaccia di sanzioni fisiche, materiali, ma facendoci sentire in colpa quando le trasgrediamo.
I sensi di colpa che proviamo quanto contravveniamo a una legge morale che ci detta la coscienza sono dunque sanzioni del tutto interiori, puramente intrapsichiche, diverse da quelle esteriori ed anche fisiche, che impongono talvolta le leggi sociali e comunitarie.
Ma sono pur sempre sanzioni, tanto che alle volte fanno stare male il soggetto che le subisce ancora più di quelle fisiche del diritto positivo o delle regole comunitarie.
A loro volta questi sensi di colpa (e le sanzioni morali che essi infliggono) sono di due tipi.
Ci sono sensi di colpa che proviamo verso gli altri: quando, ad esempio, mostriamo disattenzione o mancanza di rispetto verso la loro persona, quando non diamo loro l’amore che essi meriterebbero o si attenderebbero da noi, quando non manteniamo la parola loro data.
E questi sono i sensi di colpa che è più facile avvertire, perché se non li avvertiamo da soli (perché la nostra coscienza morale è debole, fragile, poco salda e sviluppata), sono gli altri che ce li rimandano e ce li fanno pesare.
Ma ci sono anche i sensi di colpa che a volte proviamo da soli verso noi stessi; quando, ad esempio, ci facciamo prendere dalla pigrizia, dall’indolenza, quando siamo sopraffatti dalla paura delle novità e del cambiamento.
Quando per vigliaccheria, per i sensi di colpa che proviamo verso delle regole sociali (convenzioni) che ce li vietano, non riconosciamo i nostri desideri legittimi.
O quando, per conformismo e quieto vivere con chi ci fa sentire non meritevoli di goderne, rinunciamo a realizzare aspirazioni del tutto alla nostra portata.
“Non c’è peccato più grande che cedere sul proprio desiderio”: diceva Lacan; ed è profondamente vero: lo sa bene chi lo ha sperimentato sulla propria pelle.
Proviamo, in altre parole, sensi di colpa verso noi stessi quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione fondamentale, al compito che il destino ha assegnato alla nostra vita.
Gli antichi Greci, non a caso, utilizzavano la parola composta “eudaimonia” (eu: buono + daimon: demone = fedeltà al proprio demone interiore) per indicare lo stato d’animo della felicità.
Per converso, possiamo, dunque, dire che noi ci condanniamo all’infelicità, ovverossia ad una vita piena di rimpianti e di sensi di colpa, quando non obbediamo al nostro demone interiore, alla nostra vocazione.
Questi sensi di colpa sono più difficili da avvertire, perché non insorgono in noi attraverso censori esterni.
Anzi, in genere, per non avvertirli, noi cerchiamo conforto proprio nell’approvazione degli altri, che in questo caso spesso ce la danno facilmente e ben volentieri, in nome di una solidarietà malsana, che mal cela a sua volta la propria cattiva coscienza, quella che Sartre chiamava “malafede”.
Questi sensi di colpa si manifestano però in molti casi attraverso svariati sintomi, di gravità più o meno accentuata: un’ansia e un nervosismo permanenti, una tristezza ricorrente, una malinconia diffusa, nei casi estremi una vera e propria depressione acclarata.
Sintomi che appesantiscono e, a volte addirittura, opprimono il nostro animo e non poche volte vengono anche somatizzati (mal di testa, mal di stomaco, nausea, spossatezza cronica, sonnolenza, labirintite…).
Sintomi che possono degenerare fino alla follia; ad esempio, nelle forme della paranoia e della schizofrenia; o, specie quando si invecchia, nella demenza senile.
© Giovanni Lamagna
Pubblicato su antropologia, costume, cultura, diritto, educazione, etica, Filosofia, morale, personalità storiche, Psicologia, società, Spiritualità, testi medio-lunghi
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Dialogo intorno a sesso, pudore, discrezione e liberazione.
Pubblicato da giovannilamagna
Qualche tempo fa, su facebook, avevo pubblicato il seguente post:
“Il sesso è ancora oggi per molti un argomento tabù.
Segno inequivocabile che va a toccare dimensioni profonde della psiche umana.
Come, del resto, ci ha insegnato già da tempo la psicoanalisi.
Chi considera il sesso argomento tabù si mantiene dunque ad un livello superficiale di sé.
Anche se si dà arie da grande intellettuale e, perfino, se aspira a fare esperienze mistiche.
Ha in realtà paura, ha delle difese, a scendere in profondità dentro di sé.”
Un amico molto caro, Fausto Maggiori, così lo ha commentato:
“Sarà anche vero, ma io credo che il sesso coinvolga per sua natura un certo pudore.
Se il sesso è pulsione istintiva, anche il pudore è pulsione istintiva e non vedo per quale motivo debba essere demonizzato o messo in ridicolo.
Gűnter Anders scrisse: “Metteremo la sessualità al primo posto degli interessi umani. Come tranquillante sociale non c’è niente di meglio”
Sarà per questo che oggi si parla tanto di sesso?”
Io così ho replicato al suo commento:
“Caro Fausto, una cosa è il pudore (anche se io, al suo posto, adopererei il termine “discrezione”), altra cosa è il tabù del sesso.
Il mio post evidenziava l’esistenza – ancora oggi – di tabù che riguardano il sesso, non esaltava di certo l’esibizionismo o (se preferisci) la spudoratezza.”
Di nuovo Fausto Maggiori ha commentato:
“Giovanni, io non lo vedo in giro questo tabù.
Io preferisco il termine “pudore”, è più preciso e specifico, mentre “discrezione” è molto molto vago.”
Al che ho ancora replicato:
“Caro Fausto, il termine “pudore” è sinonimo di “ritegno, vergogna, castigatezza, morigeratezza, pudicizia, verecondia”, cioè l’esatto contrario di quello che io ritengo debba essere, in linea teorica e ideale, l’atteggiamento che un po’ tutti dovremmo avere nei confronti del sesso.
Il quale per me è sempre sano, in tutte le sue manifestazioni, una volta fatti salvi – ovviamente – la libertà dell’altro/a e il rispetto per la sensibilità dei terzi.
Del sesso, quindi, a mio parere, non bisogna avere alcuna vergogna, in qualsivoglia sua manifestazione.
La vergogna nei confronti del sesso, anzi, a mio avviso, è una manifestazione di nevrosi, più o meno grave, a seconda della sua entità, dovuta alle inibizioni che spesso ci sono state trasmesse da un’educazione sbagliata.
Gli unici limiti che ammetto e riconosco come legittimi alla mia libertà sessuale sono, dunque, 1) il consenso dell’altro/a (la mancanza di consenso equivale ad una violenza) e 2) la discrezione nei confronti della sensibilità di terzi, che potrebbero essere turbati (ed anche questa sarebbe una forma di violenza) dal mio modo di esprimere e manifestare la mia sessualità.
Non ne riconosco altri, se mi consenti.
P. S. Non credo, poi, che il pudore possa essere considerato una pulsione istintiva allo stesso modo di quella sessuale, come sostieni tu.
Basti considerare come è cambiato nel corso dei secoli, anzi dei millenni, il cosiddetto “comune senso del pudore”.
Segno che esso non è affatto “comune”, cioè universale, uguale per tutti.
Infatti, non ha una base nella natura, cioè nella costituzione bio-fisiologica della persona (come è, invece, nel caso della pulsione sessuale), ma è un derivato della cultura, anzi delle culture, che variano non solo a seconda dei tempi storici ma anche degli spazi geografici.
Infine, quanto alla frase da te citata (“Metteremo la sessualità al primo posto degli interessi umani. Come tranquillante sociale non c’è niente di meglio.”) essa è stata in modo farlocco attribuita a Gunter Anders.
In realtà – come ho potuto appurare da una breve ricerca – fu scritta da un filosofo spiritualista francese, tale Serge Carfantan, e si trova in un testo sì ispirato al filosofo tedesco di origini ebree, ma che non è di Gunter Anders.
In ogni caso, anche se fosse stata di Gunter Anders (filosofo di certo molto più autorevole del quasi sconosciuto Serge Carfantan), non penso sia corretto riferirla al fenomeno della “liberazione sessuale”, che ha riguardato il XX secolo e che ha raggiunto il suo apice nel fatidico anno 1968.
La “liberazione sessuale” che io prendo a riferimento delle mie analisi sulla storia della sessualità in generale e di quella contemporanea in particolare.
Questa liberazione, per me, è stata sacrosanta ed io personalmente la rivendico in pieno; anzi credo che vada ulteriormente portata avanti.
Ancora oggi, infatti, come sostenevo nel post che stiamo commentando, nonostante le apparenze, permangono tabù e paure, legate al sesso, che non sono state ancora superate.
La critica che fai tu credo, dunque, non vada riferita alla liberazione sessuale, che ha abbattuto molte barriere dell’antico senso del pudore.
Ma, semmai, all’utilizzo deformante e consumistico (vedi pornografia, ma non solo) che di quel fenomeno (autenticamente liberatorio e, quindi, sacrosanto) ha fatto il sistema capitalistico.
Che è capace di guastare, ammalare, intossicare tutto ciò che tocca, anche le cose che sono nate con le migliori intenzioni.
Ai nostri giorni (guarda caso!) mi pare si stia verificando analogo fenomeno con l’ecologia.
Cosa è, infatti, la green-economy se non il tentativo da parte dello stesso sistema di impadronirsi, ma per soli fini di profitto (becero e opportunistico), di una giusta esigenza maturata in ambito extra-capitalistico negli ultimi decenni: quella di un diverso rapporto tra sviluppo e ambiente?
Possiamo noi dire che questa esigenza è diventata esagerata, onnipervasiva e, dunque, fuorviante, solo perché il sistema capitalistico tende ad utilizzarla a suo uso e profitto?
© Giovanni Lamagna
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