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Compagnia.
Solo in pochi, anzi in rari casi la compagnia costituisce un profondo, durevole piacere, una gioia; quelli che è capace di donare solo la vera amicizia.
In genere costituisce una cura palliativa, che lenisce, appena per un po’ e ad un livello superficiale, il dolore della nostra solitudine fondamentale.
© Giovanni Lamagna
Le ragioni di un amore o di un’amicizia.
Non vedo altre ragioni che possano o debbano motivarci a intraprendere una relazione (parlo qui delle relazioni d’amore o di amicizia) se non queste: che la relazione sia piacevole, gratificante, ci faccia star bene, non lenisca soltanto la nostra solitudine, ma dia un qualche senso (fosse anche piccolo) alla nostra vita, l’accompagni, aiutandoci a crescere, ad evolvere.
Le altre eventuali motivazioni (ad esempio, l’interesse economico o l’imposizione da parte di altri o delle circostanze della vita, quelle che alcuni sintetizzano nella parola “destino”) non fondano una vera relazione; ma solo una pseudo-relazione, una relazione solo esteriore, apparente; certamente non fondano una relazione di amore o di amicizia, che, per sua natura, presuppone una scelta libera, autonoma e disinteressata quanto agli aspetti materiali del rapporto.
Sorge, quindi, spontanea la domanda: quando una relazione, nata come relazione di amore, non è più piacevole, non è più gratificante, non ci fa stare bene, non dà più un senso alla nostra vita, non ci fa più crescere ed evolvere, ma semmai ci impantana, ed è diventata una relazione di prevalente compagnia fisica, che evita solo lo squallore della solitudine più totale, può ancora essere definita come relazione di amore o anche di amicizia?
© Giovanni Lamagna
Amore ossessione,amore mania.
C’è chi per amore (parlo qui, ovviamente, dell’amore erotico) diventa ossessivo e maniacale.
Ma l’amore, specie nella fase dell’innamoramento, non è sempre (almeno un po’, in alcuni di più, in altri di meno) ossessivo e maniacale?
Non è l’amore, specie nella fase dell’innamoramento, una forma di ossessione e di mania?
Io penso di sì; altrimenti sarebbe pura amicizia, che è un sentimento molto più pacato e tranquillo dell’amore, specie dell’innamoramento.
© Giovanni Lamagna
Farsi compagnia.
La compagnia è un’ottima cosa.
Soprattutto quando – come consiglia Seneca – è alternata a momenti di solitudine.
Questa, infatti, oltre certi limiti, non è sopportabile, se non dai misantropi, e non fa bene allo spirito; è – possiamo dirlo – una brutta bestia.
“Il farsi compagnia” all’interno di una coppia, quando è tramontata la passione, con i doveri e gli impegni di solidarietà reciproca che questo comporta, è, in fondo, pur sempre una forma di amore reciproco.
Soprattutto quando la cosa è vissuta con consapevolezza e come decisione condivisa.
Ma non è certo l’amore erotico; non ha più niente a che fare con l’amore erotico, che aveva caratterizzato magari la prima fase della relazione di coppia.
E, forse, non è manco l’amicizia, una vera amicizia.
Perché anche l’amicizia, perlomeno la vera amicizia, non è fatta di routine, come lo è quasi sempre il semplice “farsi compagnia”, ma è uno scoprirsi e uno scoprire continui.
© Giovanni Lamagna
Amore e amicizia in questa fase della mia vita.
Non so a chi possa interessare, ma oggi avverto il bisogno di comunicare questo mio stato dell’anima.
Purtroppo, da quando sono entrato nella terza età, non vivo più l’amore e l’amicizia come esperienze stabili e continuative.
Li ho vissuti in passato, ma oggi non più.
Li vivo piuttosto come momenti, come sprazzi, a volte molto felici e gratificanti, ma sempre alquanto saltuari ed episodici.
Alternati a prolungati momenti di solitudine e dolorosa mancanza di comunicazione con gli altri.
Mi piacerebbe confrontarmi con quelli che, essendo più o meno miei coetanei, provano (o non provano) questa mio stato d’animo.
© Giovanni Lamagna
Amore e amicizia (2)
Ogni amore è (o, meglio, dovrebbe essere) anche (o, meglio, innanzitutto) un’amicizia.
Un amore, che non è anche (anzi prima di tutto) un’amicizia, non è vero amore.
E, però, sappiamo bene che per molti (anzi per la gran parte delle persone) l’amore è un sentimento del tutto diverso dall’amicizia, di una natura completamente altra.
Nel migliore dei casi si pone come un’amicizia particolare, situata al di sopra delle altre, perché ambisce ad avere l’esclusiva della sfera sessuale.
Da questo punto di vista non ho esitazione a dire che l’amore (o, meglio, il cosiddetto “amore”) è un sentimento tarato, impuro, perché fondato sul sentimento del possesso dell’altro, almeno sotto l’aspetto sessuale.
Per questo – almeno per me – il più perfetto degli amori è “l’amore di amicizia”, perché questo non ha nessuna pretesa di possedere l’altro in maniera esclusiva, neanche sotto l’aspetto sessuale.
© Giovanni Lamagna
Letterina di Pasqua 2023
Io non credo in nessun Dio che risorge.
Credo però nella possibilità che l’uomo possa rialzarsi dalle sue cadute,
che ogni giorno possa diventare una persona un poco migliore.
Credo nei piccoli passi, nei piccoli gesti,
quelli che appena si notano
o non si notano per nulla
ma che, a lungo andare, fanno la Storia.
Non credo nei miracoli: quelli soprannaturali.
Credo però che un sorriso, una carezza,
la parola giusta detta al momento giusto,
un gesto di aiuto, un atto di solidarietà,
la fraternità, l’amicizia, l’amore
possano fare miracoli: quelli naturali.
Simili al seme che prima muore e poi dà frutto,
all’arcobaleno che colora il cielo dopo la tempesta,
al sole che risorge ogni giorno,
al corpo stanco che va dormire la sera e
si risveglia fresco e riposato la mattina dopo,
al tempo che guarisce molte ferite, corporali e spirituali.
Queste sono le resurrezioni in cui credo!
© Giovanni Lamagna
Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?
Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?
No, non lo penso.
Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.
E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.
Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.
Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.
Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.
E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.
Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.
Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.
Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.
Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.
E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.
Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.
Non viceversa.
Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.
Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.
Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.
Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.
Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.
© Giovanni Lamagna
Omologazione e integrazione nei rapporti.
É mia ferma convinzione che una cosa sia la tendenza a cercare l’integrazione tra due persone in un rapporto, altra cosa sia la tendenza di una delle due ad omologare, assimilare, l’altra a sé.
L’integrazione per me dovrebbe essere l’obiettivo scontato di ogni rapporto, nei desiderata di tutti quelli che avviano una qualsiasi relazione.
Non credo, infatti, che quando due persone si incontrano e decidono di frequentarsi desiderino o siano destinate a restare ognuna di loro uguale a come era prima dell’incontro e della frequentazione.
O, meglio, possono pure restarlo, ma in questo caso non ci sarà stato nessun vero incontro tra di loro e non ne sarà nata una vera relazione.
L’incontro, infatti, c’è davvero e la relazione si instaura effettivamente solo quando si verificano due condizioni.
La prima è che le due persone siano attratte l’una verso l’altra perché ciascuno/a trova nell’altro/a ciò (o, almeno, una parte di ciò) che desiderava e che gli serviva per completare sé stesso/a.
La seconda è che ciascuna delle due si impegni a “prendere” dall’altro/a ciò che lo ha attratto verso di lui/lei e che (spesso inconsciamente) desiderava per integrare, cioè per completare, sé stessa.
Non (come molti sono portati a pensare) per diventare uguale a lui/lei, ma per accogliere (fin dove le riesce) le sue caratteristiche nel suo modo personale di essere, per avvicinarsi a lui/lei, pur restando pienamente sé stesso/a.
In questo consiste per me l’integrazione; che è cosa ben diversa dall’omologazione.
Questa integrazione, a mio avviso, è necessaria, anzi indispensabile, in ogni rapporto degno di questo nome, in ogni rapporto che non voglia sussistere solo in apparenza; la sua mancanza sancisce l’inesistenza sostanziale o l’esaurimento del rapporto.
L’omologazione è tutt’altra cosa: è la pretesa di arrivare ad essere “unum” da parte di uno dei due (o anche di entrambi) che stanno nel rapporto, di rendere uno dei due uguale, simile all’altro, e, quindi, plagiato, dipendente dall’altro.
Un rapporto in cui c’è omologazione potrà anche durare molto, perfino tutta la vita, ma non per questo sarà un rapporto funzionale, che farà stare bene le due persone impegnate nella relazione.
La sua durata, in questo caso, dipenderà da una forma di dipendenza reciproca, di natura morbosa, e non dall’autentico e sano desiderio, che cerca l’altro senza dipendere dall’altro.
Ma anche un rapporto, in cui manchi la voglia, il desiderio di integrarsi, “contaminarsi”, “meticciarsi”, reciprocamente, funzionerà male, non consentirà alle persone che lo vivono di stare bene insieme; sarà un rapporto solo apparente.
Un rapporto per essere funzionale, sano, deve dunque tendere necessariamente all’integrazione reciproca: un processo attraverso il quale ciascuno si arricchisce delle qualità dell’altro restando comunque diverso da lui, restando cioè sé stesso.
Un processo, questo dell’integrazione tra due persone, unite da un rapporto d’amore o anche di semplice amicizia, destinato a non finire mai, a proseguire fin quando durerà il rapporto; questo renderà il rapporto vero, sano, generativo.
© Giovanni Lamagna