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Ogni incontro è un’opportunità.

Ciascuno di noi è per l’altro (e viceversa) un’opportunità; a pensarci bene, unica, insostituibile, irripetibile.

Lasciarsela sfuggire (peggio: rifiutarla, negarla) è un’offesa, un oltraggio alla vita.

L’incontro, ogni incontro, non è mai casuale; attraverso di esso la vita ci parla, vuole dirci qualcosa.

Sta a noi cogliere questo qualcosa e utilizzarlo nella maniera giusta, farcene in qualche modo trasformare.

Se non lo facciamo, il rifiuto di questa opportunità prima o poi lo pagheremo; a volte duramente.

© Giovanni Lamagna

Due modi diversi, anzi opposti, di rapportarsi agli altri.

Ci sono due modi completamente diversi, anzi direi addirittura opposti, di approcciarsi ai rapporti e nei rapporti.

Il primo è quello (supponente, sostanzialmente presuntuoso e chiuso, direi perfino narcisista) di chi ritiene di non aver nulla da modificare di sé stesso.

È l’atteggiamento di chi – consapevolmente o inconsapevolmente – pensa: se l’altro/a mi trova interessante, ha voluto instaurare un rapporto con me, vuol dire che gli/le vado bene così come sono, che non devo cambiare niente di me.

Il secondo è quello (aperto, umile, disponibile, dialogante) di chi considera ogni nuovo incontro, ogni nuovo rapporto che viene ad instaurarsi come una opportunità, che gli/le viene offerta dalle circostanze della vita, per crescere, per migliorare, per evolvere.

E, quindi, è disposto a farsi in qualche modo plasmare dall’altro/a, a prendere dall’altro/a le “cose” che a lui/lei mancano, ad accettare non solo gli apprezzamenti e le lodi (che non possono mancare: effettivamente se l’altro/a è stato attirato/a da noi, vuol dire che ci sono delle cose di noi che gli/le piacciono), ma anche le critiche e i rimproveri.

In altre parole è disposto a modificarsi nel rapporto, consapevole del fatto che ogni nuovo rapporto rappresenta per noi una conferma e una rassicurazione, ma allo stesso tempo ci interpella, ci mette in discussione, ci chiede un cambiamento, in certi casi addirittura una vera e propria conversione a U.

© Giovanni Lamagna

Opportunità, limiti e rischi di facebook.

Facebook costituisce, come ben sanno coloro che lo frequentano da anni, una sorta di foro, agorà, di piazza o mercato moderni: offre pertanto occasioni e opportunità di incontro (e – perché no? –  di apprendimento) straordinarie.

Con la differenza (non piccola: è persino banale dirlo) che nei fori e nelle agorà di una volta l’incontro tra le persone era fisico, reale, oltre che emotivo, mentale, intellettuale; avveniva nel vis a vis.

Su facebook l’incontro è, invece, solo verbale, al massimo emotivo ed intellettuale; è, quindi, “virtuale”, per usare il linguaggio della Rete.

L’assenza del contatto fisico, vis a vis, non è ovviamente ininfluente; produce anzi effetti negativi importanti, significativi.

Il primo: in molti casi, ho l’impressione, che la Rete costituisca addirittura una sorta di difesa rispetto al coinvolgimento reale delle persone nel rapporto; è un contatto che resta emotivamente freddo, poco coinvolgente; che arriva alla soglia dell’intimità, ma sta bene attento a non attraversarla, a non superarla.

Tanto è vero che spesso le persone in contatto sulla rete, quando si incontrano fisicamente (nei rari casi in cui ciò avviene), molte volte fanno finta di non conoscersi; o, nel migliore dei casi, si riconoscono ma a stento si salutano.

Il secondo risultato è che gli scambi intellettuali sono molto meno trasformativi di quelli che una volta erano (e sono ancora oggi) i rapporti fisici, vis a vis: le parole scambiate, il più delle volte, scivolano sul cuore e sulla testa delle persone apparentemente entrate in contatto e non producono, quindi, veri e profondi cambiamenti.

Il terzo effetto negativo (il peggiore di tutti) è che non poche volte gli scambi comunicativi che avvengono in rete sono violenti, carichi di aggressività.

Come se la distanza consentisse sfoghi di violenza che la vicinanza fisica probabilmente limiterebbe.

A distanza, infatti, la violenza fa oggettivamente meno male e questo dà più facilmente la stura all’aggressività, che, quando si è a contatto fisicamente, si tende a controllare maggiormente, per i danni reali, persino fisici, che essa potrebbe generare.

Verrebbe da chiedersi, a questo punto: sono maggiori le opportunità o i limiti e i rischi di facebook?

La mia risposta a questa domanda è che molto dipende dalle persone che lo frequentano: ci sono persone per le quali facebook è una reale opportunità di crescita umana, altre per le quali è solo un rifugio, un’evasione dal mondo dei rapporti reali e, quindi, un fattore di regressione.

I rischi, beninteso, ci sono anche per le prime; il maggiore è quello di diventarne in qualche modo dipendenti e di scivolare, quindi, quasi senza rendersene conto, verso una forma di socializzazione che privilegia il contatto virtuale, in rete, a quello reale, fisico, vis a vis.

Ma anche le opportunità sono ben reali: innanzitutto perché su facebook ci è data possibilità di incrociare persone che non avremmo modo di conoscere nella vita reale, se non altro perché abitano e vivono a distanza (a volte notevole distanza) dal nostro luogo di residenza.

E in secondo luogo perché vi si incontrano sì persone di basso livello, che nel quasi anonimato dello spazio virtuale si sentono libere di sparare (come già faceva notare Umberto Eco) le più grandi imbecillità, ma vi si incontrano anche persone di notevole spessore umano e intellettuale, dalle quali si può imparare molto.

In altre parole facebook è un libro sempre aperto, che possiamo sfogliare quotidianamente, quando vogliamo, le cui pagine affrontano gli argomenti più diversi.

Sicuramente in maniera disordinata e persino caotica; ma dalle quali, altrettanto sicuramente, si possono apprendere molte cose, come se si sfogliasse un’enciclopedia autogestita dagli utenti, se queste pagine le si sa selezionare e sottoporre a vaglio critico.

© Giovanni Lamagna

Amen!

Nella mia (oramai abbastanza lunga) vita ho fatto tutto quello che ho potuto.

Certo, avrei voluto, desiderato, fare molto di più.

Ma (con tutta evidenza!) non ci sono riuscito.

Credo me ne siano mancate le capacità e le opportunità.

Ritengo la stessa cosa possa (e debba) dire ogni uomo al termine del suo percorso, più o meno lungo.

Con chi me la posso prendere?

Con nessuno!

Né con Dio, né – tantomeno – con gli altri uomini; manco con me stesso.

E quindi?

Amen!

© Giovanni Lamagna

Perché alcuni uomini sono fortemente interessati alla vita spirituale, mentre altri non ne provano alcun bisogno?

Nel suo interessantissimo libro “I quattro maestri” (2020; Garzanti), Vito Mancuso a pag. 173 si pone le seguenti domande, che a me sembrano di estremo interesse: “… che cosa portò il giovane Siddhartha a lasciare il ricco palazzo del padre per recarsi nella foresta a cercare la liberazione? Che cosa fa sì che anche oggi alcuni esseri umani vogliano vivere in modo più autentico e, per realizzare questo loro desiderio, si rivolgono alla spiritualità, mentre altri non avvertono nessun bisogno di salire sulla ruota del Dharma e stanno benissimo sulla ruota dell’esistenza?

In altre parole che cosa spinge la maggior parte degli uomini a vivere “nel mondo di Nietzsche”, che “è un mondo senza evoluzione e senza trascendenza… un mondo senza orientamento morale… dove tutto è al di là del bene e del male, un mondo dove non ha senso operare per la propria liberazione perché non vi è nessuna possibilità di liberazione ma solo l’eterno ritorno della medesima condizione di prigionia (o di beatitudine)” e altri uomini (pochi) ad uscire (o almeno provare ad uscire) dalla ruota dell’eterno ritorno dello stesso per cercare la propria crescita interiore, spirituale?

A queste domande Mancuso dà la seguente risposta: “A meno di non ammettere influssi soprannaturali (come fa il cristianesimo che parla di Spirito santo e di grazia divina), tale energia può venire solo dalla medesima fonte che fa girare la ruota dell’esistenza.

E si pone subito dopo un’altra domanda: “… che cosa fa girare la ruota dell’esistenza?

A cui dà questa risposta: “La voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi, direbbe Spinoza.

Che a me non soddisfa, in quanto la voglia di vivere, il desiderio di esistere, il conatus essendi spinoziano, a me sembra muovono sia coloro che si adattano rassegnati all’eterno ritorno, alla ripetizione coattiva dello Stesso, che coloro i quali provano a spezzare questa catena, ad uscire dall’eterna ripetizione, a rinnovare, ricreare se stessi, anche se a partire da una condizione data, che è stata data loro in consegna e di cui essi non sono né padroni né autori, sebbene dunque – potremmo dire – in una condizione di non assoluta ma limitata e relativa libertà.

La risposta di Mancuso, quindi, non risolve per me il problema da lui posto del perché alcuni uomini (la grande maggioranza) prendono una certa strada, quella della eterna ripetizione dello Stesso, mentre altri (pochi) prendono la strada della evoluzione e della crescita spirituale.

Sento perciò il bisogno di cercarne un’altra.

Intendiamoci, per rispondere a questa domanda, manco per me valgono le categorie cristiane dello Spirito santo e della grazia divina, nel senso che manco io credo a chiamate di natura soprannaturale che spingerebbero alcuni sulla “buona via”, mentre altri (magari pure “chiamati”, ma non “eletti”, a voler riprendere due termini evangelici) sarebbero destinati alla “perdizione”, ad una vita senza salvezza.

Io propendo per una risposta di natura del tutto laica: la direzione che ciascuno di noi prende nella vita (mi riferisco qui ovviamente alla direzione spirituale) dipende dal contesto nel quale nasce e cresce, soprattutto dal grado e dal tipo di amore che riceve, dall’educazione e dalla formazione che gli viene impartita, dalle opportunità (fisiche, economiche, sociali, culturali…) che la vita gli offre, soprattutto dalle persone che incontrato nel corso del suo cammino, oltre che (perché anche questa probabilmente entra in gioco) da una qualche predisposizione congenita.

Da questo punto di vista (ma solo da questo punto di vista) ritengo che possa essere allora recuperato persino il concetto di “grazia”, anche se la grazia come la intendo io è lontanissima dalla grazia che intende il Cristianesimo.

La grazia cristiana, infatti, dipende totalmente da un intervento divino, quindi extra-terreno, del tutto imperscrutabile a noi mortali, con caratteristiche e tratti del tutto discrezionali, che potremmo definire addirittura capricciosi, se ciò non offendesse la sensibilità religiosa dei (cosiddetti) “credenti”.

La grazia come la intendo io è, invece, tutta legata a fattori terreni, di natura biologica, psicologica, relazionale, sociologica, che scienze quali appunto la biologia, la psicologia, la sociologia potrebbero ricostruire perfettamente o almeno per grandi linee, se potessero analizzare l’organismo e la storia del soggetto raggiunto o meno dal fenomeno “grazia”.

Da questo punto di vista il concetto di “grazia”, come la intendo io, è assimilabile al (se non proprio identificabile col) concetto di “caso”.

Che cosa, infatti, può spiegare perché alcuni individui nascono in luoghi dove regnano benessere e pace e altri in luoghi dove predominano povertà e guerra, alcuni nascono in famiglie sane e amorevoli e altri in famiglie sbandate e disamorate, alcuni nascono perfettamente sani ed altri molto malati; a voler indicare indicare solo tre dei molteplici fattori che influenzano profondamente la nostra storia personale?

Che cosa lo può spiegare se non la pura (e capricciosa) casualità?

© Giovanni Lamagna

Futuro e presente

L’animo umano è istintivamente proiettato nel futuro, a fare progetti e coltivare speranze, e spesso trascura di vivere il momento presente.

Il saggio è, invece, colui che vive soprattutto nell’attimo presente, di cui cerca di cogliere al massimo tutte le occasioni e le opportunità.

© Giovanni Lamagna

Opportunità e stagioni della vita

Ha ragione Schopenhauer (massima n. 42; da “L’arte di essere felici”; Adelphi 2017)!

Quando siamo giovani, la vita ci appare molto lunga, per cui tendiamo a sprecare il tempo e a lasciarci sfuggire molte occasioni e opportunità, nell’illusione che tanto, prima o poi, esse si ripresenteranno e allora non ce le lasceremo più sfuggire e le sfrutteremo fino in fondo.

Quando poi diventiamo vecchi, ci rendiamo conto che il tempo rimastoci è breve, che più passa il tempo e più esso sembra precipitare veloce e che le occasioni che si sono presentate in gioventù e in età matura non si ripresenteranno più e che le abbiamo perse definitivamente.

Che abbiamo, dunque, sprecato una buona parte della nostra vita.

© Giovanni Lamagna

Un nuovo amore mette in crisi la coppia

Molte coppie entrano in crisi perché uno dei due suoi componenti si innamora di un’altra persona. Tale crisi è inevitabile, perché il sistema-coppia viene scosso, modificato, diciamo pure sconvolto dall’irruzione del nuovo amore. E’ altrettanto inevitabile che questa crisi si concluda con una rottura?

A questa domanda rispondo: se il nuovo amore nasce dal fatto che non si ama più la persona con cui si è in coppia e viene a riempire un vuoto che si era già creato in precedenza, perché il rapporto di coppia risultava insoddisfacente, allora è giusto e naturale che la crisi si risolva con la rottura e lo scioglimento della coppia.

Ma, se il nuovo amore nasce semplicemente da un bisogno/desiderio (che io considero persino naturale ad un certo punto della vita di una coppia) di nuove relazioni, che arricchiscano di nuovi stimoli e di nuove opportunità la propria vita, perché il nuovo amore dovrebbe cancellare e annullare il “vecchio”?

In questo secondo caso non è più giusto che la crisi insorta venga risolta con l’apertura (e non con la rottura) della coppia? con l’inclusione del nuovo e insorgente amore e non con l’esclusione del “vecchio” e precedente amore?

La formazione di un nuovo sistema relazionale, non più duale ma pluriamoroso, può essere l’alternativa alla troppo spesso scontata e precipitosa (oltre che – il più delle volte – dolorosissima e lacerante) rottura della coppia tradizionale monogamica.

© Giovanni Lamagna