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Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.
James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.
Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.
Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.
Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.
1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.
Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.
L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.
2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.
In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.
Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.
L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.
3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…
Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.
4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.
Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.
Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.
Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.
Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.
La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.
Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.
5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.
“Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.
“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.
“Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.
Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.
Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.
© Giovanni Lamagna
Le uniche regole a cui dovrebbe obbedire la nostra coscienza.
Le uniche regole che dovremmo assumere a guida delle nostre scelte e delle nostre azioni dovrebbero essere quelle che Sigmund Freud definì – in modo estremamente chiaro e preciso – con le espressioni “principio del piacere” e “principio di realtà”.
E che Lacan ribattezzò con i termini, a mio avviso abbastanza equivalenti, di “desiderio” e “Legge”, anche se forse, soprattutto il secondo, meno precisi e più equivoci di quelli usati da Freud.
In altre parole, prima di agire e di compiere qualsiasi scelta, dovremmo chiederci: “Cosa desidero davvero? Qual è il mio desiderio profondo?”.
E poi: “E’ realizzabile questo desiderio o è un irrazionale capriccio della mia fantasia, fuori e contro la realtà? Fa danni a qualcuno o è del tutto compatibile con il desiderio di altri?”
E, infine: “Anche se fa oggettivamente e indirettamente dei danni a qualcuno, sono io davvero il responsabile di questi danni?”
Una volta ottenuto il via libera dalla nostra coscienza che si è posta queste domande, dovremmo poter agire di conseguenza; liberamente, abbastanza serenamente e senza paralizzanti sensi colpa.
Spesso, invece, molti di noi assumono a regola di comportamento quanto impone loro il Super-ego; a voler usare un altro termine famoso inventato da Freud.
Cioè l’insieme delle norme che tutti abbiamo introiettato – soprattutto durante la nostra infanzia, fanciullezza e adolescenza – dall’ambiente che ci circondava, in primo luogo dalla nostra famiglia; in altre parole una coscienza eterodiretta.
In questo modo molti di noi dimostrano di non essersi mai emancipati da quelle epoche della vita (infanzia, fanciullezza e adolescenza), di non essere mai diventati veramente adulti.
In uno dei suoi scritti più famosi (la trentunesima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”) Freud fece ricorso ad una frase divenuta celebre: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.
Io oggi, se mi posso permettere e col massimo rispetto per il padre della psicoanalisi, aggiornerei e completerei tale sua frase con quest’altra: “Dove era il Super-io, deve subentrare l’Io”.
© Giovanni Lamagna
Dimensione ontologica e dimensione esistenziale della libertà.
Io – al contrario di Sartre – credo che nessun uomo sia ontologicamente libero e, quindi, realmente responsabile delle sue azioni.
Credo, infatti, che ogni uomo – detto in maniera molto banale – faccia quello che può, date le circostanze e le condizioni (storiche, ambientali, familiari, di costituzione fisica e psicologica…) nelle quali gli è dato di agire.
Le azioni umane sono ciascuna anelli di una catena infinita, legati indissolubilmente l’uno agli altri.
Le azioni di ogni singolo uomo sono dunque l’effetto di cause e fattori che lo hanno preceduto e, a loro volta, saranno cause e fattori di altre azioni di altri uomini che lo seguiranno.
Nessun uomo, dunque, può dirsi, né tantomeno è, autore di sé stesso, come riteneva invece Sartre; almeno il primo Sartre.
Ma ogni uomo è ciò che altri (soprattutto i suoi genitori e l’ambiente in cui è nato e cresciuto) hanno fatto di lui; come ad un certo punto ha riconosciuto lo stesso Sartre, il secondo Sartre.
E, tuttavia, all’uomo tocca agire (ed in questo sono d’accordo con Sartre) come se egli fosse del tutto libero e, quindi pienamente responsabile sul piano etico delle sue azioni.
E’ questo uno dei grandi paradossi della vita umana!
Al filosofo tocca dire, dunque, che l’uomo ontologicamente, oggettivamente, non è libero, ma esistenzialmente (potremmo anche dire fenomenicamente, soggettivamente) lo è.
Infatti, come una volta ebbe a dire Stephen Hawking, se devo attraversare la strada, mi tocca guardare a destra e a sinistra, per garantirmi di non essere investito da qualche autoveicolo in arrivo.
Non posso certo cavarmela affermando che tanto, sul piano ontologico è già tutto deciso e che il fatto di essere investito o meno non dipende da un mio comportamento o da mie scelte, ma dal destino che incombe su di me.
Potremmo semmai dire che da qualche parte il nostro destino è già scritto, ma che, finché non lo vedremo del tutto scritto, ci toccherà impegnarci a scriverlo come se ne fossimo davvero noi gli autori.
© Giovanni Lamagna
Sul concetto di “normalità”
Volendo affrontare questo argomento, credo che per prima cosa bisogna chiedersi: ma esiste la normalità? Esiste un criterio per definire ciò che è normale e ciò che non lo è?
A me sembra di poter dire che fino a non moltissimi decenni fa queste domande sarebbero apparse del tutto stravaganti; anzi nessuno se le sarebbe neanche poste.
Da qualche tempo, invece, esse sono entrate a pieno titolo nel dibattito filosofico e perfino in quello pubblico, della gente comune, anche quella per niente abituata a riflessioni e discussioni di carattere speculativo.
Tanto è vero che il pensiero moderno tra le sue varie caratteristiche potrebbe comprendere proprio quella del relativismo.
Ovviamente anche sul concetto di “relativismo” bisogna intendersi, perché potremmo parlare di un relativismo soft, morbido, e di un relativismo hard, estremo.
Il relativismo estremo è quello che nega la possibilità stessa di accedere a una qualche nozione che possa essere definita non dico oggettivamente, ma almeno soggettivamente, come vera; sfiora il nichilismo o, addirittura, si identifica con esso.
Per questo tipo di relativismo anche il concetto di “norma” e conseguentemente quello di “normale” finiscono per non avere alcun solido fondamento teorico-razionale.
Per esso ogni norma e, quindi, ogni riferimento al concetto di “normale” hanno un valore estremamente labile: possono perciò essere messi in discussione da chiunque e in qualsiasi momento; dalla stessa persona che in altri momenti li aveva ritenuti validi.
Il relativismo soft, morbido, non è invece così drastico; infatti, non nega che ciascuno di noi possa raggiungere delle nozioni/convinzioni che per lui, almeno per lui, hanno il valore di “verità”; solo che questa verità nessuno (manco chi la professa) la potrà mai definire come la Verità assoluta.
Ogni “verità” (non a caso scritta con la iniziale minuscola) sarà sempre e solo la mia verità, nella quale magari io crederò con ferma convinzione, ma sempre accompagnandola con un qualche margine di dubbio, disposto dunque a metterla sempre in discussione e a rivederla di fronte ad altre e superiori evidenze.
Io personalmente non condivido il relativismo hard, estremo, mentre mi riconosco in quello soft, morbido.
In questo credo di trovare man forte nel pensiero scientifico, per il quale vale il metodo sperimentale, in base al quale io formulo delle ipotesi e le assoggetto a delle verifiche; se esse vengono validate da prove non contraddette dalla comunità scientifica, queste ipotesi divengono “verità”, nel senso di tesi condivise, quantomeno da un certo numero di persone o di gruppi, più o meno grandi.
Ma anche queste “verità” non hanno nulla del dogma, nel senso che non sono verità indiscutibili ed assolute, valide cioè una volta e per sempre, magari contro ogni evidenza e smentita della realtà.
Rimangono “verità” (e, quindi, risultano utili come forme di orientamento sia teorico che pratico) fino a che non vengono invalidate da qualche nuova scoperta e da qualche nuova teoria.
Questo discorso, anzi questo metodo, si può (anzi, a mio avviso, si deve) applicare anche quando parliamo di ciò che è normale e di ciò che non lo è.
Per me si può applicare il concetto di “normale” a qualsiasi ambito della vita, a patto di non considerarlo un assoluto (ciò che è normale per me o per un gruppo di cui faccio parte lo deve essere per tutti) e a patto di riuscire a metterlo in discussione laddove cadano i presupposti teorici e pratici che in un dato momento storico, in una data fase della mia vita, me lo hanno fatto considerare tale.
Dopo questa premessa teorica, allora che cosa è “normale” per me e che cosa non lo è?
Io credo che si possano distinguere tre criteri per definire il concetto di “normalità”: un “criterio statistico”, un “criterio funzionale” e un “criterio ideale/valoriale”.
In base al primo criterio è normale tutto ciò che rientra nel numero maggioritario di casi all’interno di un universo di casi presi in esame e da noi (più o meno approfonditamente o più o meno superficialmente) conosciuti.
Ad esempio, è “normale” che le donne siano meno alte della maggioranza degli uomini. E per converso è “anormale” che una donna sia più alta della maggior parte degli uomini.
Altro esempio: una volta definita l’altezza media di una determinata popolazione (in questo caso potremmo anche considerare quella dell’intera popolazione mondiale), allora tutti gli individui che si discostano di molto da questa altezza media potranno essere definiti “anormali”; cioè nani, nel caso se ne discostino in basso, o giganti, nel caso se ne discostino in alto.
In base al secondo criterio – quello “funzionale” – è “normale” tutto ciò che “obbedisce” alla funzione per cui è nato o è stato pensato.
Non è “normale”, quindi, un occhio che non vede o un orecchio che non sente, un polmone che non respira o un rene che non depura il corpo di cui fa parte.
Non è “normale” l’utero della donna che non è in grado di farla procreare, come non sono “normali” i testicoli dell’uomo che non producono spermatozoi capaci di assicurare la riproduzione nel caso dell’accoppiamento con una donna fertile.
Non è “normale” un tavolo che non sta in piedi o una lampada che non si accende.
Non è certamente “normale” la persona che non si nutre per restare in vita e così si lascia morire.
Infine non è “normale” la persona che logora e prima o poi rompe i rapporti con tutte le persone con le quali entra in relazione, a causa del suo “brutto carattere”.
Ma anche qui siamo andati, un poco alla volta, verso un concetto di “normalità” che non è facile da definire, perché diventa sempre più difficile fissare il concetto stesso di “funzione”: che cosa è, infatti, un “brutto carattere” e cosa è invece un “bel carattere”? in base a quali criteri si può definire bello o brutto un carattere?
C’è, infine, un terzo criterio per definire la “normalità”, quello che io ho chiamato “ideale/valoriale”.
Qui il concetto di normalità si lega strettamente a quello di etica e a quello di morale: è “normale” ciò che si attiene, è conforme all’etica e alla morale; non è normale ciò che è difforme dall’etica e dalla morale.
Ed è proprio in questo ambito che il concetto di “normalità” in molti casi diventa alquanto vago e ambiguo, in alcuni casi estremamente soggettivo e, quindi, relativo.
Può succedere, infatti, che ciò che è morale per la società nella quale io vivo non sia etico per la mia coscienza individuale, che ha interiormente elaborato e riconosciuto “valori” difformi da quelli nei quali si riconosce, più o meno convintamente, più o meno ipocritamente, la maggioranza delle persone che compongono la “societas” nella quale sono nato, cresciuto o nella quale, in un certo momento storico, vivo.
In questo caso, cosa è “normale” per me? Il “valore” esterno che mi viene additato da coloro o dalla maggioranza di coloro che vivono attorno a me? O il “valore” interno, che io sento come “vero” nel mio foro interiore?
A mio avviso, nel caso in cui si ponesse questo conflitto, dovrebbe valere il “valore interno”.
Ma sono ben consapevole che per i più non è così, che per i più il valore – e quindi anche il concetto di “normalità” – è dato, stabilito, da ciò che pensa e ritiene la maggioranza del “popolo” di cui essi fanno parte.
Fu così, ad esempio, per la grande maggioranza del popolo tedesco durante il periodo della dittatura nazista, quando questo popolo si rese complice di atrocità incredibili, addirittura di un genocidio, perché riteneva che l’obbedienza alle leggi “esterne” imposte dal regime fosse un dovere (molti così dichiararono ex post) rispetto all’obbedienza a ciò che magari leggi “interne”, quelle della coscienza, loro suggerivano.
C’è, infine e per concludere, anche una dimensione teorico-filosofica, che non garantisce facili scelte, quando il discorso va su questo terreno.
Cosa è, infatti, “bene” e che cosa è “male”? A queste domande la filosofia non è mai stata in grado di dare risposte univoche e meno che mai definitive.
Per alcuni filosofi, infatti, perseguire il proprio bene individuale, diciamo pure egoistico, in parziale o perfino totale e radicale conflitto con il bene degli altri, del mio prossimo, non parliamo poi di quello dell’intera Umanità, è del tutto legittimo, anzi doveroso.
Per altri filosofi, meno radicali dei primi, esiste una doppia morale: quella “individuale” e quella “politica”; la prima deve (o dovrebbe) obbedire a determinati valori, la seconda può (e, in alcuni casi, deve) contraddire i valori della prima, in nome del superiore interesse e bene della polis.
Per altri filosofi, infine, il valore dell’amore scambievole e fraterno e della solidarietà tra gli uomini è quello supremo e deve dettare le “norme” del nostro comportamento, sia individuale che collettivo.
Per questi filosofi non solo è inconcepibile una doppia morale, ma una morale fondata sull’egoismo estremo (per intenderci, sulla realtà – data per inscritta nella natura – che “homo homini lupus”) è una contraddizione in termini.
Date queste premesse, – illustrate qui (ne sono consapevole) in modo estremamente sommario e schematico – è del tutto ovvio che il concetto di “normalità” che voglia fondarsi sul criterio “ideale/valoriale” è del tutto opinabile e soggettivo; e, pur tuttavia, è un criterio dal quale nessuno di noi potrà prescindere.
Sia che voglia adeguarsi conformisticamente al pensiero e all’agire della maggioranza (come fecero i più del popolo tedesco durante il regime hitleriano) sia che voglia distaccarsene per obbedire alla propria coscienza individuale (come fecero pochissimi dissidenti tedeschi nello stesso periodo di cui sopra, spesso pagando con la vita questa loro scelta), ciascuno di noi si dovrà assumere per intero la responsabilità delle proprie scelte.
Ciascuno di noi si dovrà assumere la responsabilità intellettuale, etica e, persino, estetica di considerare normali certe cose e anormali altre; nessuno altro potrà fare questa scelta (e prendere le decisioni esistenziali che ne conseguono) al posto suo.
Ma non potrà certo pretendere che esse siano considerate universali ed assolute, cioè valide per tutti.
Tutt’al più si potrà battere, sul piano intellettuale, etico ed estetico, per convincere gli altri del loro valore e spingerli a condividerle con scelte e decisioni meditate e, anche per loro, a loro volta, del tutto personali, individuali e, quindi, soggettive.
Senza integralismi, senza presunzioni dogmatiche e, meno che mai, facendo ricorso alla forza e alla violenza, potrà provare a persuadere gli altri della bontà dei propri argomenti, utilizzando le uniche e umili, oltre che miti, “armi” della parola, del dialogo e della ragione.
© Giovanni Lamagna
Incontri e destino
Sono convinto che non sia il caso, ma il destino a fare incontrare due persone.
Sia ben chiaro, qui non sto parlando di un destino programmato dagli astri, meno che mai di un destino assegnato da magie e sortilegi, meno che mai di un destino deciso da una qualche volontà divina.
Sto parlando molto più laicamente del destino legato al nostro patrimonio genetico e a quel complesso di esperienze che ci hanno formato e fatto diventare quello che siamo, specie – come ci ha insegnato la psicoanalisi – nell’infanzia e nel contesto socio-ambientale nel quale siamo nati e cresciuti.
In base a questo destino ognuno di noi, chi più e chi meno, si porta inevitabilmente appresso, dentro di sé, nodi psicologici irrisolti, più o meo profondi, più o meno estesi.
E sono proprio questi nodi irrisolti (parti di noi che si devono – o dovrebbero- sciogliere, risolvere, semplificare, organizzare altrimenti, incanalare su strade diverse da quelle su cui l’educazione ricevuta ci ha portato, senza che noi lo volessimo o lo avessimo deciso…) che ci fanno incontrare determinate persone e non altre.
Le persone che incontriamo vengono quindi “scelte” inconsciamente da noi, in base a un sorta/complesso di algoritmi psicologici, di cui siamo il più delle volte del tutto inconsapevoli e, quindi, per la gran parte misteriosi ai nostri occhi, indecifrabili o molto, molto difficilmente decifrabili.
E’ a questa sorta/complesso di algoritmi psicologici che io do il nome di “destino”.
E cosa vuole da noi questo destino, quale compito ci assegna, soprattutto attraverso le persone che incontriamo sulla nostra strada?
La mia risposta a questa domanda è: vuole che sciogliamo i nodi irrisolti che ci portiamo appresso da una vita, vuole che, anche, anzi soprattutto, attraverso la relazione con le persone di cui ci innamoriamo o con cui entriamo semplicemente in relazione, facciamo un ulteriore passo avanti nella nostra crescita umana, specie in quella emotivo-affettiva.
Vuole che introduciamo un elemento di discontinuità, se non di vera e propria rottura, rispetto al nostro passato, che interrompiamo la replica continua, la coazione a ripetere, che hanno fino ad allora caratterizzato il nostro comportamento e le nostre scelte.
Per questo ci innamoriamo di qualcuno o di qualcuna o ne diventiamo amico/a.
A questo qualcuno o qualcuna arriviamo perciò grazie ad una sorta di destino o, meglio, di pensiero inconscio, che ci indica la strada per evolvere, per districare nodi che da soli non saremmo in grado di sciogliere; probabilmente manco con l’aiuto di uno psicoterapeuta.
Forse per questo il sentimento dell’innamoramento (e, in qualche caso, della stessa amicizia) è così forte e travolgente: perché nella persona di cui ci innamoriamo o diventiamo amici intimi intravediamo (ecco perché è impossibile separare l’amore e l’amicizia da un certo quota di egoismo) una via di salvezza per noi, di uscita da un vicolo cieco, la possibilità di nuove aperture da esplorare e nuovi orizzonti da raggiungere.
Ed ecco perché l’amore e l’amicizia durano fin tanto che questo processo di apertura, scioglimento, liberazione, evoluzione si mantiene attivo, vivo.
Muoiono, invece, si estinguono, si esauriscono o quantomeno di assopiscono e appassiscono, quando quel movimento, quel processo, si arenano, finiscono in qualche secca, perdono, in parte o del tutto, la loro carica propulsiva, propellente indispensabile per la nostra evoluzione psicologica.
© Giovanni Lamagna
A proposito di pentiti
Chi può dirsi realmente pentito di un reato giudiziario o anche solo di un’azione moralmente spregevole da lui commessa?
Non – di certo – chi semplicemente li ammette, li confessa.
La semplice confessione di un’azione colpevole non basta a dimostrare la reale contrizione di chi l’ha commessa.
Può dirsi realmente pentito di un’azione spregevole confessata solo chi dimostra un’afflizione profonda, sincera, non ipocrita, non esteriore, non superficiale.
Non solo; ma anche per un tempo sufficientemente esteso, prolungato, adeguatamente proporzionato all’entità dell’azione spregevole commessa.
E, soprattutto, dimostra un cambiamento profondo, radicale, di vita, cioè un comportamento, anzi uno stile di vita opposto a quello di cui si era reso colpevole.
La semplice ammissione, fosse anche spontanea, di un’azione colpevole non basta a dimostrare il reale pentimento di chi l’ha commessa.
© Giovanni Lamagna
L’uomo non è libero, ma è condannato a viversi come se lo fosse.
Io credo – al contrario di quanto afferma Sartre – che nessun uomo sia ontologicamente, cioè fondamentalmente, libero e, per conseguenza, realmente responsabile delle sue azioni. Non sto facendo qui un discorso in punta di diritto, ma esclusivamente filosofico.
Io credo che ogni uomo – detto banalmente – faccia nella e della sua vita quello che può, tutto quello che può, al meglio delle sue capacità e potenzialità. Considerate (questa premessa è per me fondamentale) le circostanze (storiche, ambientali, psicologiche…) nelle quali gli è dato di agire e dato il suo patrimonio genetico, dal quale ovviamente non può prescindere.
Credo profondamente che l’agire dell’uomo sia la risultante determinata e, quindi necessitata, di questi due fattori: 1) l’ambiente in cui nasce, cresce e vive; 2) il suo patrimonio genetico.
E, tuttavia, all’uomo tocca agire (e, in questo, sono totalmente d’accordo con Sartre) come se egli fosse del tutto libero e quindi pienamente responsabile sul piano etico delle sue azioni.
Non avrebbe senso per ciascuno di noi (come è ovvio, a meno che non sia preso da una depressione grave) affermare “Dal momento che non sono libero, allora mi lascio andare ad una vita accidiosa ed inerte; tanto niente dipende da ciò che decido e faccio”; ed agire e comportarsi di conseguenza.
Al filosofo “della ragion pura” tocca dire che l’uomo ontologicamente non è libero e che nulla e nessuno può cambiare il suo destino, stabilito già al momento della sua nascita.
Ma il filosofo “della ragion pratica” è tenuto a dire che esistenzialmente lo stesso uomo è libero e che le sue azioni dipendono molto, se non integralmente, dalle sue scelte/decisioni.
Infatti, se devo attraversare la strada mi tocca guardare a destra e sinistra, per garantirmi di non essere investito da qualche autoveicolo in arrivo.
Non posso cavarmela affermando che, tanto, sul piano ontologico è già tutto deciso e che il fatto di essere investito o meno da un autoveicolo non dipende da un mio comportamento o da mie scelte, ma dal destino che incombe su di me e che la vincerà comunque sulle mie decisioni e scelte.
Ho preso a prestito l’esempio citato dell’attraversamento della strada da un aforisma di Stephen Hawking, che mi sembra molto pungente ed efficace: “Anche le persone che sostengono che tutto sia già scritto, prima di attraversare la strada, guardano”.
Questa mia tesi può sembrare ambigua e paradossale, ma, in fondo, a pensarci bene, non sostiene cose molto diverse da quelle che affermano la tesi e l’antitesi della terza delle quattro antinomie identificate da Kant, quella che tratta della causalità e della libertà.
La tesi afferma: “La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità libera (una causa senza causa)”.
L’antitesi, al contrario, sostiene “Nel mondo non c’è nessuna libertà, ma tutto accade unicamente secondo leggi della natura”.
In ultima istanza, per Kant, il problema della libertà è insolubile. Si possono affermare con altrettante (e valide) ragioni una tesi e la tesi contraria, cioè l’antitesi della tesi.
Io sostengo, in buona sostanza, una tesi affine a quella di Kant, anche se non proprio identica.
Dico che sul piano ontologico-strutturale l’uomo non è affatto libero, ma è soggetto necessitato come tutti gli altri oggetti e soggetti dell’Universo.
Mentre sul piano esistenziale si deve considerare libero. Se non altro non ha alternative a considerarsi libero. A meno di non prendere una pistola e spararsi.
L’uomo, insomma, è condannato a vivere e a viversi in questa radicale e irresolubile ambivalenza/ambiguità
Giovanni Lamagna
© riproduzione riservata
Riflessioni da me raccolte nel corso della lettura di “La consulenza filosofica” di Gerd B. Achenbach Feltrinelli Editore
10 marzo 2020
Sto leggendo il libro di Gerd B. Achenbach, “La consulenza filosofica”. Sto alle prime 29 pagine, quindi non posso dire di aver compreso di che si tratta. Ma una prima impressione (forte) me la sono fatta. Adesso la devo verificare.
L’impressione iniziale è che dietro questa formula (“consulenza filosofica”) ci sia una notevole “presunzione” (quella di voler sostituire – addirittura! – la psicoterapia) e, allo stesso tempo, anche una considerevole “confusione” (quella di scambiare il terreno dei conflitti emotivi – che è proprio della psicologia e delle eventuali psicoterapie – con quello della costruzione di una propria “visione del mondo” – che è proprio del pensiero e, quindi, della filosofia e – perché no? – della consulenza filosofica).
16 Marzo 2020
Continua la mia lettura del libro di Achenbach. Sto ancora alle prime 63 pagine, ma mi sono già fatto una mia idea sufficientemente solida di cosa è o può essere una consulenza filosofica.
Innanzitutto è una cosa molto diversa da una psicoterapia; anche se per psicoterapia potremmo intendere qui decine di cose diverse, a seconda delle scuole di riferimento.
E, comunque, anche nella loro estrema diversità le psicoterapie (perfino quella “comportamentale”) si occupano prevalentemente del mondo degli istinti, delle pulsioni, delle emozioni, dei sentimenti. Anche se tendono a farlo con metodi, pratiche e terapie (appunto!) molto diversi tra di loro.
La consulenza filosofica, invece, per quello che ne ho capito, si occupa in prevalenza del mondo della ragione, del pensiero, della coscienza, della consapevolezza.
Le psicoterapie tendono a “guarire” il mondo psicoaffettivo, laddove ci sono conflitti, contrasti, tra diverse pulsioni ed emozioni: tendono a mettere a posto la sfera psicoaffettiva dell’individuo.
La consulenza filosofica interviene sul piano della visione del mondo che ciascun individuo – consapevole o meno che ne sia . si è formato nel corso degli anni e ne guida le azioni e le scelte.
Per verificarne le aporie e le incongruenze (eventuali) e risolverle in una “teoria” più coerente, più organica, meno internamente conflittuale e fragile.
18 marzo 2020
Achenbach, tra pag. 72 e 75, rivolge delle critiche al marxismo e alla psicoanalisi come terapie (la prima) della struttura economico, sociale e politica della società e (la seconda) della struttura psichica dell’individuo, della persona.
Che in parte – almeno in parte – sono giustificate, hanno un loro fondamento.
Rivelano però tutti i loro limiti e perfino una loro ridicola presunzione quando pretendono di mettere in discussione il valore stesso di alcune analisi fondamentali che il marxismo e la psicoanalisi hanno fatto della struttura economico-sociale del capitalismo (il primo) e della struttura psichica dell’individuo (la seconda).
In altre parole può darsi (anzi è senz’altro vero) che il marxismo e la psicoanalisi non si siano rivelate efficacissime come terapie delle malattie sociali e individuali. Questo dato di fatto però non invalida né l’uno né l’altra come strumenti di analisi e diagnosi di queste malattie.
20 marzo 2020
La consulenza filosofica a mio avviso non potrà mai sostituire, come sostiene Achenbach, le psicoterapie del profondo.
Perché la prima si occupa del pensiero e cerca di addestrarlo ad un suo utilizzo ottimale: è sostanzialmente un esercizio della mente e delle sue facoltà razionali, ovverossia delle facoltà superiori dell’uomo.
Le seconde, invece, si occupano essenzialmente di “ciò che sta sotto”, del profondo dell’uomo e non del superiore, dell’inconscio, delle istanze emotive e talvolta irrazionali, che spesso, senza che egli ne sia consapevole, guidano le azioni e il comportamento dell’uomo.
22 marzo 2020
Questo Achenbach, a mio avviso, fa parecchia confusione. Dice anche cose interessanti, per carità. Per cui la sua lettura è utile, mi offre degli stimoli di riflessione.
Ma dimostra di conoscere poco la psicoterapia, mentre la critica. Tra l’altro con la sottesa pretesa di sostituirla con la consulenza filosofica.
Ad esempio, secondo lui, la consulenza psicologica “espliciterebbe la logica inconscia dell’anima” “con conoscenze e teorie psicologiche”… “con Freud e Jung” (pag. 96)
Insomma, secondo Achebanch uno psicoterapeuta col suo paziente si metterebbe a discutere di Freud e di Jung e delle loro teorie psicologiche: in questo consisterebbe la psicoterapia. Ma si possono dire bestialità simili?
24 marzo 2020
Acheenbach sostiene (pag. 104): “… nella consulenza (filosofica)… si ha a che fare con persone che… non progrediscono, che non sanno andare oltre, che sono giunte a un punto dal quale non si va più avanti”.
Mi chiedo: ma questa non è la stessa situazione in cui si trova chi cerca una consulenza psicologica, di chi inizia un percorso terapeutico?
E la risposta mi sembra senz’altro affermativa.
Allora cosa distingue una consulenza filosofica da una psicoterapia?
25 marzo 2020
Io condivido parecchie cose di quelle che scrive Achenbach sul modo di intendere la filosofia.
In modo particolare condivido la sua polemica contro la filosofia accademica, incapace di confrontarsi coi problemi reali dell’esistenza, quelli della gente comune.
Condivido quindi la sua istanza di apertura alla vita, al mondo, alla società, che sta fuori dalle aule universitarie.
Non condivido assolutamente, invece, l’idea che la consulenza filosofica possa sostituirsi alla psicologia, alla psicoanalisi, alle psicoterapie, nelle loro varie versioni.
Posso condividere alcune critiche che Achenbach fa alla psicoanalisi e alla sua traduzione terapeutica. Non posso però condividere assolutamente l’idea che la consulenza filosofica – almeno per quello che ne ho capito io – possa prendere il posto della psicoterapia.
29 marzo 2020
Al di là del merito delle cose che dice, il linguaggio di questo Achenbach non mi piace per niente.
E’ accademico (eppure parla spesso contro l’Accademia!), è pomposo, involuto, spesso oscuro.
Lontanissimo, insomma, dal linguaggio che prediligo io.
30 marzo 2020
Questo Achenbach mi sta stufando. Parla, parla… ma in fondo dice ben poco.
Dice male della filosofia accademica e su questo concordo pienamente. Anche se mi viene il dubbio che ne parli male più per invidia (perché voleva entrare a farne parte) che per reale differenziazione.
E dice male della psicoterapia. Come se esistesse LA psicoterapia e non LE psicoterapie. Ma soprattutto attribuendo alle psicoterapie pretese che esse non hanno e non hanno mai avuto; tipo quella di offrire certezze ai loro pazienti.
9 aprile 2020
A conclusione della lettura di questo libro posso dire che essa è stata poi tutto sommato abbastanza interessante. In modo particolare per due ragioni:
1.mi ha permesso di riflettere in modo abbastanza approfondito su quello che è la filosofia per me;
- mi ha stimolato a cogliere le differenze che ci sono (e sono a mio avviso notevoli) tra una consulenza filosofica e una psicoterapia.
© Giovanni Lamagna