Archivi Blog

Mistica e filosofia.

A me, a dire il vero, ha sempre interessato più la mistica che la filosofia.

Credo, infatti, che ci sia più verità in un mistico che in un filosofo.

Almeno per come intendo io la mistica e il mistico.

Il filosofo ragiona, il mistico sperimenta.

Io sono per un filosofo che sia anche mistico (come Wittgenstein, ad esempio) o per un mistico che sia anche filosofo (come Tommaso d’Aquino, ad esempio).

Mentre non sempre (anzi quasi mai) chi è filosofo è anche mistico e chi è mistico è anche filosofo.

Laddove sarebbe auspicabile che lo fossero.

Ne guadagnerebbero sia il filosofo che il mistico.

© Giovanni Lamagna

Sentimento oceanico o sentimento cosmico?

Il problema è posto da Jeannie Carlier a Pierre Hadot, ad un certo punto del loro dialogo pubblicato nel libro “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi, 2008).

Carlier riferisce di privilegiare la seconda espressione, meglio confacente a suo avviso a descrivere l’esperienza del sentimento di unità del tutto, che è propria dell’esperienza mistica.

Pierre Hadot, invece, difende la prima espressione, quella del “sentimento oceanico”, in quanto a suo avviso rende meglio l’esperienza del sentirsi “un’onda in un oceano sconfinato”, “l’impressione di immersione, di dilatazione dell’io in un Altro al quale l’io non è estraneo, poiché ne costituisce una parte”.

Su questa distinzione (e per quello che può valere o interessare) io mi sento più vicino a Carlier che ad Hadot.

Perché il Cosmo è qualcosa di più esteso e complessivo dell’oceano; l’oceano è solo una parte, anzi una piccola parte del Cosmo.

Ed io nell’esperienza mistica mi sento parte/immerso non solo de/nell’Oceano, ma de/nell’intero Cosmo.

Non a caso lo stesso Hadot racconta che egli ha cominciato a provare il sentimento oceanico in età molto prematura, appena pubere, di notte, di fronte alle stelle che “brillavano in un cielo immenso”.

Hadot così racconta: “… fui invaso da un’angoscia insieme terrificante e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo. In realtà ero incapace di esprimere la mia esperienza, ma in seguito sentii che poteva corrispondere a domande come “Chi sono?”, “Perché sono qui?”. Provavo un sentimento di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle. Il mondo mi era presente, intensamente presente. Molto più tardi avrei scoperto che questa presa di coscienza del mio essere immerso nel mondo, questa impressione di appartenenza al tutto, era ciò che Romain Rolland ha chiamato il “sentimento oceanico”. Credo di essere filosofo a partire da quel momento, se per filosofia si intende la coscienza dell’esistenza, dell’essere al mondo. A quell’epoca non sapevo come esprimere ciò che provavo, ma sentivo il bisogno di scrivere… A partire da quel momento ho sentito di essere distante dagli altri, poiché non potevo concepire che i miei compagni o addirittura i miei genitori e i miei fratelli potessero immaginare cose simili. Solo molto più tardi ho scoperto che molte persone hanno esperienze analoghe, ma non ne parlano.

Ho cominciato a percepire il mondo in modo nuovo. Il cielo, le nuvole, le stelle, le “sere del mondo”, come dicevo a me stesso, mi affascinavano. Sporgendomi dalla finestra a testa in su, guardavo il cielo notturno, con l’impressione di immergermi nell’immensità stellata. Questa esperienza ha dominato tutta la mia vita. L’ho provata di nuovo, molte altre volte… Questa esperienza è stata anzitutto per me la scoperta di qualcosa di emozionante e affascinante che non era assolutamente legato alla fede cristiana. Ha dunque avuto un ruolo importante nella mia evoluzione interiore. Per altro verso ha fortemente influenzato la mia concezione della filosofia, ho sempre considerato la filosofia come una trasformazione della percezione del mondo.

Da allora ho percepito molto fortemente l’opposizione radicale che esiste tra la vita quotidiana, che viene vissuta in una semincoscienza, in cui siamo guidati dagli automatismi e dalle abitudini, senza essere consapevoli della nostra esistenza nel mondo, e quegli strati privilegiati nei quali viviamo intensamente e abbiamo coscienza del nostro essere al mondo…

Da quel momento, dato che non osavo rivelare a nessuno ciò che avevo provato, ho sempre sentito che esistono cose indicibili. Avrei potuto dire solo banalità. E mi accorgevo anche che quando i preti parlavano di Dio e della morte, realtà enormi e terrificanti, formulavano frasi belle e fatte, che mi sembravano convenzionali e artificiali. Quanto vi era di più essenziale per noi non si poteva esprimere. (pag. 9-10).

Dopo aver letto questo passaggio del discorso di Hadot, mi stupisco che egli contesti a Carlier l’espressione “sentimento cosmico” e continui a privilegiare quella di “sentimento oceanico”.

Infatti, molte delle realtà da lui citate (le stelle, il mondo, il cielo, il filo d’erba…) sono/sarebbero rese meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che dall’espressione “sentimento oceanico”.

Una sola espressione da lui adoperata è resa meglio dal “sentimento oceanico”: “Mi sentivo immerso nel mondo”. Perché il verbo “immerso” è effettivamente ben associabile all’idea del mare e dell’oceano.

Ma, in realtà, Hadot è “immerso nel mondo”, nell’intero Universo, e non solo nell’oceano.

In questo senso, perciò, anche per me (come per la Carlier) l’esperienza da lui raccontata è resa meglio dall’espressione “sentimento cosmico” che da quella di “sentimento oceanico”.

In quanto questa seconda sta a indicare solo una parte (l’oceano) rispetto al tutto (il mondo) nel quale Hadot si sente immerso, di cui Hadot si sente particella.

Anche se ovviamente queste distinzioni sono solo di dettaglio, rappresentano solo una questione linguistica, nominalistica.

Le due espressioni in realtà sono solo metafore che tendono a rendere con parole diverse una esperienza che è comunque chiara: è la stessa esperienza, non si tratta di due esperienze diverse.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo e il mondo.

Il filosofo è immerso pienamente nella vita del mondo, ma allo stesso tempo non ne è fagocitato, assorbito, risucchiato.

Il filosofo in un certo senso può dire di sé quello che Cristo diceva di sé: sono del mondo ma non del mondo.

Egli guarda al mondo con sguardo critico, distaccato, come se ne fosse un po’ dentro e un po’ fuori.

Non si tratta ovviamente per il filosofo di tirarsi fuori dalla vita quotidiana; cosa del resto impossibile.

Ma di non soccombere alla sua banalità, per ricercare lo straordinario che è sempre presente nell’ordinario della vita quotidiana.

© Giovanni Lamagna

Noi e i social.

Sento spesso dire con atteggiamento snobistico: “Io non frequento i social…”; e talvolta con espressione ancora più drastica e severa: “Io schifo i social!”.

Non condivido né l’uno atteggiamento né l’altra espressione.

I social sono null’altro che delle “piazze”, che la moderna tecnologia ci mette a disposizione: piazze virtuali, che si sono aggiunte da qualche anno a quelle reali, da tempo immemorabile luogo abituale di incontro e frequentazione tra persone di vario tipo e livello.

Dire “io non frequento i social” o, addirittura, “io schifo i social” equivale a dire “io non scendo mai per strada e non vado mai in piazza, perché schifo le persone che le frequentano”.

Come se tutte le persone che frequentano strade e piazze fossero lo stesso tipo di persone; mentre non è così.

Nelle strade, nelle piazze, nei bar si incontrano persone che non sanno fare altro che parlare di sport o fare pettegolezzi, le classiche e banali “quattro chiacchiere da bar”.

Ma ci sono e si incontrano anche persone che leggono libri oltre che giornali, che sono attente agli altri ed hanno sviluppato una sensibilità interiore, che sono capaci di una conversazione profonda e stimolante, oltre che educata, persino, gentile e garbata.

La stessa, analoga cosa avviene anche sui social: vi si incontrano persone banali, superficiali, astiose, rabbiose, che spesso insultano ed aggrediscono i loro interlocutori.

Ma vi si incontrano anche belle persone: sensibili, intelligenti, persino colte, che sono disposte ad ascoltare ed imparare e dalle quali è possibile apprendere cose nuove e a volte molto interessanti e stimolanti.

Si possono incontrare persone come il cantante rapper Federico Lucia (in “arte” Fedez) e la sua compagna, l’imprenditrice e blogger Chiara Ferragni, che utilizzano i social, per fare mostra frivola e volgare del loro privato, come si usa fare ne “Il grande fratello”, al puro scopo di promuovere sé stessi ed ottenere, quindi, facile arricchimento.

Ma si possono incontrare anche persone di spessore e grande livello umano e culturale, quali (faccio solo tre nomi) Franco Arminio (poeta), Vito Mancuso (filosofo) e Massimo Recalcati (psicoanalista), dei quali leggo spesso cose interessantissime, a volte addirittura sublimi.

Frequentando i social non ci si condanna, quindi, ad incontrare solo persone cretine e negative; si ha anche la possibilità di incontrare persone positive e intelligenti.

Basta saperle scegliere; proprio come si fa nel mondo delle amicizie reali.

© Giovanni Lamagna

Dimensione ontologica e dimensione esistenziale della libertà.

Io – al contrario di Sartre – credo che nessun uomo sia ontologicamente libero e, quindi, realmente responsabile delle sue azioni.

Credo, infatti, che ogni uomo – detto in maniera molto banale – faccia quello che può, date le circostanze e le condizioni (storiche, ambientali, familiari, di costituzione fisica e psicologica…) nelle quali gli è dato di agire.

Le azioni umane sono ciascuna anelli di una catena infinita, legati indissolubilmente l’uno agli altri.

Le azioni di ogni singolo uomo sono dunque l’effetto di cause e fattori che lo hanno preceduto e, a loro volta, saranno cause e fattori di altre azioni di altri uomini che lo seguiranno.

Nessun uomo, dunque, può dirsi, né tantomeno è, autore di sé stesso, come riteneva invece Sartre; almeno il primo Sartre.

Ma ogni uomo è ciò che altri (soprattutto i suoi genitori e l’ambiente in cui è nato e cresciuto) hanno fatto di lui; come ad un certo punto ha riconosciuto lo stesso Sartre, il secondo Sartre.

E, tuttavia, all’uomo tocca agire (ed in questo sono d’accordo con Sartre) come se egli fosse del tutto libero e, quindi pienamente responsabile sul piano etico delle sue azioni.

E’ questo uno dei grandi paradossi della vita umana!

Al filosofo tocca dire, dunque, che l’uomo ontologicamente, oggettivamente, non è libero, ma esistenzialmente (potremmo anche dire fenomenicamente, soggettivamente) lo è.

Infatti, come una volta ebbe a dire Stephen Hawking, se devo attraversare la strada, mi tocca guardare a destra e a sinistra, per garantirmi di non essere investito da qualche autoveicolo in arrivo.

Non posso certo cavarmela affermando che tanto, sul piano ontologico è già tutto deciso e che il fatto di essere investito o meno non dipende da un mio comportamento o da mie scelte, ma dal destino che incombe su di me.

Potremmo semmai dire che da qualche parte il nostro destino è già scritto, ma che, finché non lo vedremo del tutto scritto, ci toccherà impegnarci a scriverlo come se ne fossimo davvero noi gli autori.

© Giovanni Lamagna

Chi è il filosofo? Cosa è la filosofia?

Socrate è il prototipo del filosofo.

Non tanto per quello che ha detto.

Ma per come ha vissuto.

Questo significa che la filosofia non può essere intesa come pura ricerca teorica.

La filosofia – come ha scritto bene Pierre Hadot – è piuttosto “un modo di vivere”.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo.

Il filosofo, per sua natura, mi verrebbe di dire anche per definizione, è uno che non accetta le convenzioni, cioè il modo di pensare consolidato e il modo di vivere della maggior parte della gente, ovverossia la doxa, l’opinione corrente.

Perché il filosofo è chi mette tutto in discussione, per passarlo al vaglio della ragione e, quindi, della consapevolezza.

Il filosofo, allora, è per definizione un anticonformista.

Oppure filosofo veramente non è.

Tutt’al più è uno studioso della filosofia.

Non un vero filosofo.

© Giovanni Lamagna

Socrate e Gesù: il loro rapporto con la natura.

Nel “Fedro” (230 C-D) Socrate così parla del suo rapporto con la natura: “Amo imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti ad insegnarmi nulla, a differenza degli uomini in città”.

Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020; pag. 458), ne deduce che “Per Socrate la natura era muta, senza insegnamenti…”.

Per parte mia dico che, in questo caso, Socrate si sbagliava e di grosso: la natura non è affatto muta e può dare grandi insegnamenti; molti suoi fenomeni, infatti, possono essere considerati metafore della nostra vita di uomini.

E farci, quindi, comprendere, per associazione di idee, fenomeni che avvengono dentro di noi, dentro la nostra anima o psiche, comunque la si voglia chiamare.

Come ci ha insegnato Gesù, che nelle sue parabole faceva spesso riferimento ad aspetti della natura (“se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.” Giovanni 12; 24; “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano.” Matteo 6; 26-28).

Lo stesso Gesù che piuttosto frequentemente si allontanava dagli uomini che frequentava abitualmente, perfino dagli amici più intimi, e si ritirava in solitudine, in luoghi solitari (un orto, una collina, la riva del lago, perfino il deserto…) per raccogliersi in meditazione e preghiera: segno anche questo del rapporto molto profondo, intenso, privilegiato che aveva con la natura.

Questi differenti atteggiamenti ci dicono della profonda diversità umana di questi due maestri.

Socrate era il classico intellettuale (diremmo oggi), un filosofo che fondava la sua ricerca soprattutto sull’utilizzo della ragione, anche se faceva di questa un uso sapiente, cioè sapido, esperienziale, diremmo oggi esistenziale, e non semplicemente intellettualistico.

Gesù era, invece, piuttosto un mistico, che faceva della contemplazione (e, quindi, anche del rapporto con la natura, luogo privilegiato della sua preghiera) una pratica quotidiana, anzi il centro, il “porro unum” della sua vita; come lo definì in un famoso episodio del Vangelo.

Anche se poi amava pure lui (ed in questo era affine al maestro ateniese) la frequentazione dei luoghi pubblici.

Nei quali il primo, Socrate, amava dialogare con gli uomini coi quali veniva in contatto, evitando di trasmettere direttamente o dall’alto il suo insegnamento, bensì facendolo scaturire indirettamente (in forma diceva lui maieutica) da questo dialogo.

Il secondo, Gesù, a volte intratteneva anche lui un dialogo con coloro che erano venuti ad ascoltarlo.

Ma più spesso dispensava il suo insegnamento sotto forma di predicazione, traducendo in parole pubbliche quelle che erano state evidentemente le intuizioni da lui raccolte nei frequenti e a volte prolungati momenti di solitudine e di contemplazione.

© Giovanni Lamagna

Lasciare un segno.

Non ci sono dubbi: un desiderio forte presente in ognuno di noi è quello di lasciare un segno, una traccia di sé, del proprio passaggio su questa terra, una traccia che rimanga viva, ben visibile, quando non ci saremo più, quando saremo morti.

E’ un desiderio (forse) futile, banale (la nostra mortalità resta comunque tale e quale, che gli altri ci ricordino o meno dopo la nostra scomparsa!); ma non si può negare, nessuno di noi lo può negare, che questo desiderio esista in (molti di) noi.

Esso si esprime innanzitutto, nella sua forma più elementare e primitiva, attraverso l’istinto a procreare, a mettere al mondo dei figli.

Ma si esprime anche – in una forma più alta ed evoluta – nella tensione creativa dell’artista, nella ricerca del filosofo e dello scienziato, nelle azioni del mistico o del filantropo.

© Giovanni Lamagna