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Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che ancora una volta mi sono tornate sotto gli occhi in questi giorni, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da quasi nove mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina.

La Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parlava Freud.

E tuttavia questo istinto, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale.

Innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che potrebbe sfociare, prima o poi, in un conflitto mondiale e nucleare, il cui esito non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile, anzi impossibile, per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi ultimi nove mesi) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

L’uomo non è né angelo né diavolo, ma diavolo e angelo allo stesso tempo.

Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), così scrive:

… l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma … occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività.

Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo.

Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?

Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni.

In circostanze estreme che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.”

Vorrei commentare brevemente queste tesi freudiane.

Non certo per mettere in discussione che molte delle affermazioni sostenute qui da Freud corrispondano alla verità.

Ma solo per contestare che esse siano del tutto vere, l’unica verità sulla natura umana.

Io concordo che l’uomo non sia una creatura (solo o del tutto) mansueta: sarebbe certamente una falsità affermarlo.

Indubbiamente – come dice Freud – al suo corredo pulsionale appartiene (anche) una buona dose di aggressività.

Contesto, invece, che l’uomo sia solo un lupo in mezzo ad altri lupi (homo homini lupus), come sembra concludere Freud nel passo sopra citato, riprendendo una famosa tesi di Hobbes.

No, io – onestamente, proprio guardando alle esperienze della mia vita e alla storia, come ci invita a fare Freud – non riesco a condividere una tale tesi.

Che mi appare anch’essa estrema e unilaterale, come quella opposta e speculare dell’uomo naturalmente buono di – per citare un solo nome – Rousseau.

D’altra parte lo stesso Freud sembra (almeno in parte) contraddirla, quando riconosce che ordinariamente ci sono nell’uomo forze psichiche che inibiscono la sua aggressività, la quale esplode solo “in circostanze estreme”.

Questo mi porta a pensare: se esistono nell’uomo forze psichiche che normalmente inibiscono la sua aggressività, da qualche parte esse devono pur scaturire.

E da dove scaturirebbero, se esse non facessero parte intrinseca della sua natura?

La mia tesi, pertanto, è che l’uomo non sia né tutto buono, né tutto cattivo, né sempre mansueto come un agnellino, né sempre feroce come un lupo.

Ma costituisca un impasto complesso di mansuetudine e di aggressività, di amore e di odio, di tensione alla cooperazione, alla generosità e al rispetto per gli altri e, allo stesso tempo, di propensione alla competizione, allo sfruttamento, all’invidia e alla gelosia.

La constatazione che in alcuni uomini prevalgano nettamente la cattiveria e la malvagità (la Storia ce ne mostra indubbiamente infiniti esempi) non smentisce e non annulla il fatto che in altri uomini (la stessa Storia ce ne mostra altrettanto numerose testimonianze) prevalgano la bontà e la dedizione agli altri.

Ne deduco, in conclusione, che questo è l’Uomo: né angelo, né diavolo, ma angelo e diavolo allo stesso tempo!

© Giovanni Lamagna

La nostra ambivalenza nei confronti della pulsione sessuale.

Nel quarto capitolo de “Il disagio della civiltà” Freud elenca molti motivi che dimostrano la tendenza della civiltà a limitare la vita sessuale delle persone.

Mi pare però che non ne abbia elencato uno che a me sembra fondamentale e forse è addirittura quello principale.

A mio avviso nei confronti della pulsione sessuale gli esseri umani hanno un atteggiamento ambivalente.

Da un lato ne sono fortemente attratti; perché, “avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) … procurava (loro) il massimo soddisfacimento”, arrivano a identificare nel piacere sessuale il modello di riferimento di ogni altro piacere; e quindi della stessa felicità; per cui tendono a porre “l’erotismo genitale al centro della vita stessa”. (p. 237; Bollati Boringhieri; 2019)

Dall’altro ne diffidano, ne hanno quasi timore e persino panico; proprio perché la pulsione sessuale è dotata di una tale forza (e, mi verrebbe di dire, persino violenza) che gli uomini evidentemente temono di esserne travolti, perdendo il controllo di sé stessi; col rischio paventato di dissiparsi e quasi disintegrarsi, psicologicamente, se non fisicamente.

Questo sembra spiegare, d’altra parte, perché, da sempre, “eros” è associato a “thanatos”.

E perché i francesi (ma non solo i francesi) denomino l’orgasmo con l’espressione “petit mort” (piccola morte), come a significare che nell’orgasmo il soggetto in qualche modo si dissolve, perde i suoi confini o quantomeno la consapevolezza di essi, esattamente come quando sopravviene la morte.

La conseguenza di questo asserto è – a mio avviso e sia detto a latere del ragionamento fin qui svolto – che l’ambivalenza nei confronti della vita sessuale può essere superata, forse, solo da chi ha instaurato un buon rapporto con la morte, da chi ha fatto pace con la morte.

E chi possiamo dire ha fatto pace con la morte?

Solo chi ad un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di guardarla bene in faccia e di accettare e amare la vita, nonostante la morte.

Anzi di godersi le gioie che la vita – pur alternandole a molte e indubbie sofferenze e persino angosce – è in grado di donare.

In altre parole, chi è in grado di godersi la vita nonostante l’incombere della morte.

In altre parole ancora, forse solo chi ha imparato ad affrontare la morte, il “timor panico” che si accompagna all’idea della morte, non avrà paura di abbandonarsi senza resistenze alla “piccola morte”, a quel “sentimento oceanico”, di pura estasi, che l’orgasmo comporta.

Al contrario chi, per una ragione o per l’altra, con l’idea della morte (e col “timor panico” che essa comporta) non ha ancora fatto i conti molto probabilmente avrà delle resistenze a vivere una vita sessuale senza troppe ambivalenze.

Anzi, in certi casi estremi e nevrotici, ne avrà persino un vero e proprio rifiuto.

Paradosso dei paradossi, visto che, come sostiene giustamente Freud, l’amore sessuale procura il massimo soddisfacimento possibile per un essere umano e che l’erotismo sessuale è normalmente associato all’idea stessa di piacere.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Il rapporto sessuale non esiste? (2)

Non condivido assolutamente l’affermazione di Lacan “il rapporto sessuale non esiste”, perché mi sembra la classica affermazione paradossale, ad effetto, che mira a far colpo, sbalordire, disorientare il lettore o l’ascoltatore, più che sostenere un’autentica verità.

Certo, se l’affermazione vuole dire che nessun rapporto sessuale riuscirà mai a fare di due “uno”, essa è senza alcun dubbio vera; ma in questo caso sostiene semplicemente una ovvietà, anzi una banalità.

D’altra parte manco l’amore riesce ad ottenere un tale miracolo.

Manco l’amore, che al contrario del sesso, coinvolge le anime prima che i corpi, riuscirà a fare di due persone un’unica persona.

Manco l’amore, che è il tipo di relazione più alta che può intercorrere tra due persone, per quanto assoluto, profondissimo, intimissimo esso possa essere, riuscirà mai ad eliminare la radicale solitudine che separa due individui.

E però questo cosa vuol dire: che non ha senso fare sesso?

In base a quello che sostiene Lacan, se volessimo prendere alla lettera la sua affermazione e trarne le estreme conseguenze, sì, non avrebbe senso.

Anzi, dirò di più, non avrebbe senso neanche l’amore stesso, perché ogni relazione d’amore, anche la più intima, profonda ed assoluta, è costretta a prendere atto dell’insuperabile confine che separa e separerà sempre le due persone che si amano.

E, invece, e giustamente, gli uomini, nonostante i limiti, i confini insuperabili, che li separano, continuano a fare sesso e continuano (per fortuna!) ad amarsi.

Non possono fare a meno di farlo; ne va della loro felicità; o, meglio, di quel poco di felicità che è data loro di godere.

D’altra parte lo stesso Freud (che non possiamo certo annoverare nella categoria dei pensatori ottimisti) – ne “Il disagio della civiltà” – sostiene, in buona sintesi, che lo scopo della vita umana è la ricerca della felicità; e che, anche se l’uomo non potrà mai essere (del tutto) felice, anche se (forse) l’infelicità nella vita prevale (in genere e complessivamente) sulla felicità, egli (cioè l’uomo) non potrà fare a meno di perseguire la felicità nel corso della sua vita.

E perché accade questo?

Semplicemente perché l’uomo è un folle, è un inguaribile illuso, perché è un bambino mai cresciuto che continua a credere alle favole, perché è un malato nevrotico che scambia le sue fantasie con la realtà?

A mio avviso, no! Nonostante tutto, no, non lo penso.

Perché penso che l’uomo che ama, perfino l’uomo che fa sesso senza amare, dopo aver amato e perfino dopo aver fatto sesso senza amore non sarà più lo stesso uomo che era prima di amare e prima di fare sesso.

In qualche modo sarà un uomo che avrà trasceso sé stesso, sarà diventato altro da sé.

E questo trascendimento non sarà sicuramente la felicità assoluta, senza ombre e senza limiti, che l’uomo (spesso) si illude di poter trovare quando ama o fa sesso; ma certo le allude, ha qualcosa a che fare con la felicità.

Indubbiamente, quando ama e perfino quando fa sesso, l’uomo rimane separato, irrimediabilmente diviso da colui o da colei che ama o con cui fa sesso.

Ma, allo stesso tempo, in qualche modo, si è avvicinato, si è reso, sia pure per un breve istante, intimo alla persona che ama e con cui ha fatto sesso.

E ciò fa esistere (altro che non esistere!), li rende una realtà ben concreta e sperimentabile e pertanto entrambi estremamente desiderabili, anzi le cose più desiderabili al mondo, sia la relazione d’amore che l’atto sessuale.

Alla faccia (mi sia perdonata questa piccola volgarità) di quanto pensava e sosteneva Jacques Lacan!

© Giovanni Lamagna

Tendenza alla cooperazione e tendenza alla competizione.

Che nell’uomo prevalga la tendenza alla cooperazione costruttiva, che è in lui, anziché quella alla competizione distruttiva, che pure è in lui (e che forse filogeneticamente viene prima dell’altra), conviene alla crescita e alla evoluzione positiva dell’’Umanità.

E, quindi, anche ad ogni singolo membro della compagine umana.

Anche se questo comporterà, come ci insegna Freud ne “Il disagio della civiltà”, il pagamento di costi (a volte anche molto elevati) in termini di sacrificio della propria vita pulsionale individuale.

Ogni uomo, quindi, fa/farebbe bene a coltivare la prima (la tendenza alla cooperazione) e a tenere a bada – limitandola, controllandola – la seconda (la tendenza alla competizione).

© Giovanni Lamagna

Pulsione di morte e guerra.

Nel capitolo VI del suo “Il disagio della civiltà” (1929) Freud riprende un concetto di cui, a partire dal saggio del 1920 “Al di là del principio di piacere”, si era andato sempre più convincendo nel corso degli anni, gli ultimi della sua vita: il concetto secondo cui “oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più larghe, doveva esisterne un’altra, ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primevo, inorganico”.

Freud negli ultimi anni della sua vita si è, insomma, convinto che oltre ad una pulsione (Eros) che tende a conservare la vita ce ne sia un’altra (Thanatos) che tende ad annientarla.

Egli riconosce, però, che non fu facile all’inizio documentare questa seconda pulsione; perché, mentre le manifestazioni della prima balzano evidenti agli occhi, la seconda lavora sotto traccia, silenziosamente.

Più spesso essa si intreccia e mescola alla prima, ad esempio nel sadismo e nel masochismo.

Ovviamente, dice Freud, lo sviluppo della civiltà trova nella pulsione di morte “il suo più grave ostacolo”.

Lo sviluppo della civiltà, infatti, si pone al servizio dell’Eros, in quanto – scrive testualmente Freud – “mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità, il genere umano…

… Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte…

…Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione…

Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.”

Da queste pagine di Freud, che proprio in questi giorni ho avuto modo di rileggere e meditare, è scaturita spontanea dentro di me la riflessione che segue.

Alla luce di quanto si sta verificando, da più di tre mesi a questa parte, sotto i nostri occhi, soprattutto sotto gli occhi di noi Europei, come dare torto a Freud?

Come negare che nell’Uomo, oltre che un istinto di vita che lo spinge a cercare la felicità e la convivenza pacifica con i suoi simili, ci sia un istinto malefico, che lo spinge verso la distruzione della vita altrui e persino verso l’autodistruzione della propria?

Tale istinto mi sembra si sia manifestato evidente nell’invasione russa dell’Ucraina; la Russia potrà avere (e forse ha) mille ragioni per essere aggressiva con l’Ucraina, con la Nato e con l’Europa; ma non ci sono dubbi che il suo intervento e le modalità (a quanto sembra) estremamente distruttive con cui si sta svolgendo abbiano a che fare con l’istinto mortifero di cui parla Freud.

E tuttavia l’istinto di cui stiamo parlando, in fondo, in fondo, lo si percepisce anche nelle reazioni che ci sono state all’invasione russa; sia da parte dei governanti di molti altri Paesi che da parte dell’opinione pubblica internazionale; innanzitutto nella reazione del popolo ucraino o, quantomeno, dei suoi governanti, che i più definiscono esclusivamente coi termini di nobile, eroica e fiera, ma che a me sembra francamente anche molto fanatica, a tratti delirante e, alfine, suicida.

E’ da ravvisare poi, financo, nelle reazioni degli Stati Uniti, della Nato e dell’Europa; che sembrano incuranti non solo delle conseguenze economiche disastrose che il loro coinvolgimento nella guerra comporta e comporterà sempre più, ma anche del rischio di innescare un’escalation bellica che finirà per sfociare, se non sarà arrestato quanto prima, in un conflitto mondiale e nucleare, che non vedrebbe né vinti né vincitori, ma solo un’ecatombe globale.

Ultima considerazione: quale dei due istinti, di cui parla Freud, la spunterà alla lunga nel corso della Storia?

E’ difficile per tutti prevederlo.

Anche se molti indizi (soprattutto quelli che ci rimandano le cronache di questi giorni) sembrano dare per favorito il secondo.

Non si tratta qui di essere nevroticamente, patologicamente pessimisti; si tratta di vedere le cose per come sono, con gli occhi del realismo.

© Giovanni Lamagna

Due questioni a proposito del libro “Il gesto di Caino” di Massimo Recalcati

La lettura del recente saggio di Massimo Recalcati “Il gesto di Caino” (Einaudi editore) offre, come sempre quando si legge un libro di questo psicoanalista/filosofo (o filosofo/psicoanalista?), numerosi e importanti spunti di riflessione e di meditazione, anche quando non si è del tutto d’accordo con il suo autore.

Qui in particolare vorrei approfondire due questioni, che a partire dalle analisi sempre stimolanti e interessanti di Recalcati, mi hanno impegnato in una specie di colloquio virtuale con lui, anche perché questa volta (e di solito non è così) mi hanno visto su posizioni (parecchio) diverse dalle sue.

1 La prima questione inerisce un tema enorme, uno di quelli centrali della riflessione filosofica e insieme psicoanalitica.

La definisco così, in termini molto sommari e anche un po’ rozzi: l’uomo nasce fondamentalmente cattivo, aggressivo, distruttivo, addirittura crudele? o, al contrario, è fondamentalmente buono, cooperante, costruttivo, compassionevole e amorevole.

Mi pare che la posizione di Recalcati in proposito venga fuori chiara, netta (tra l’altro non è la prima volta che la dichiara, l’ha già fatto numerose altre volte nei suoi precedenti saggi): l’uomo è animato in prima battuta da una spinta distruttrice.

In questo saggio emerge subito già dall’esergo del primo capitolo, costituito da una frase de “Il disagio della civiltà” di Sigmund Freud: “E’ vero che coloro che preferiscono le fiabe sono sordi quando si parla della tendenza dell’uomo alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione, e quindi alla crudeltà”.

Ora io questa posizione teorica, che per Recalcati trova ispirazione e validazione non solo nel pensiero del fondatore della psicoanalisi, ma anche in quella del suo principale maestro Jacques Lacan, non la condivido.

E non perché sia portato a preferire le fiabe, come insinua sarcasticamente mastro Freud. Ma perché preferisco vedere l’uomo come un essere profondamente, radicalmente, strutturalmente ambivalente, contraddittorio e non definibile univocamente, in termini drastici e unilaterali, tipo bianco o nero.

Pertanto riconosco nell’uomo la tendenza che vede Freud, cioè la tendenza “alla “cattiveria”, all’aggressione, alla distruzione e, persino, alla crudeltà”.

Ma vedo in lui anche la tendenza opposta: quella verso la “bontà”, la cooperazione, la costruzione, la compassione, in certi momenti addirittura verso l’amore.

Per me, se è vero che ciascuno di noi porta in sé un Caino (come afferma Recalcati soprattutto nelle pagine centrali del saggio: 39-40), è pure vero che ciascuno di noi porta in sé anche un Abele.

Il che vuol dire – per uscire dalla metafora – che in ciascuno di noi è radicata la pianta del “male”, della cattiveria, ma è radicata anche la pianta del “bene”, della bontà.

E che le nostre azioni sono sempre il risultato di una dialettica, a volte di un vero e proprio conflitto, tra il “bene” e il “male”.

In alcuni casi prevale il “bene”, in altri il “male”. In alcuni uomini è prevalente il “bene”, in altri è prevalente il “male”. In nessun uomo, però, c’è o solo il male o solo il bene.

Non sono d’accordo in altre parole con la tesi che sia la violenza a “fondare” l’umano.

Ovverossia che – come dice Massimo Recalcati a pag. 40 – “il primo atto dell’uomo fuori dal giardino dell’Eden” sia “quello della violenza fratricida”; e “non l’amore per il prossimo, non la gratitudine verso Dio o per il creato, non la solidarietà e la fratellanza, non l’amicizia e l’amore”.

Perché, se è vero che all’origine della storia c’è Caino, è vero che c’è anche Abele; se è vero che esiste la violenza di Caino, è vero che esiste anche la mitezza di Abele.

Anzi questa, se proprio vogliamo estremizzare i giudizi e le valutazioni, viene prima di quella, se è vero che è proprio la mitezza di Abele (tanto apprezzata dal Creatore) a suscitare (come racconta il mito biblico) l’invidia di Caino e a provocare la sua violenza.

E non per questo mi riconosco in “una rappresentazione retorica e idealizzata dell’uomo” (pag. 40), come si dice oggi “buonista”, delle relazioni tra gli umani.

So benissimo, infatti, che all’amore si accompagna sempre una quota di odio più o meno grande, che alla benevolenza e alla simpatia si uniscono sempre quote parti di invidia e di gelosia; perfino nei rapporti umani più intimi e più armoniosi.

Ma questo, molto semplicemente, non mi porta a concludere che l’uomo sia fondamentalmente e originariamente cattivo, violento, “lupo” e che “la spinta alla distruzione” in lui preceda “ quella della dedizione amorosa” (pag. 42).

Per me nell’essere umano – lo ribadisco ancora una volta– c’è sia Abele che Caino, come figure quasi archetipe. Anzi, se proprio vogliamo dirla tutta, non ci sarebbe stato Caino (come archetipo della violenza e della cattiveria umane) se non ci fosse stato prima ancora Abele (come archetipo della mitezza e della bontà).

Per concludere, su questa prima questione posta da Massimo Recalcati, la mia opinione è che l’odio compare nell’uomo non come dato genetico, costitutivo cioè della sua stessa natura fondamentale, primigenia. L’odio sopravviene piuttosto come figlio/frutto di un amore sbagliato o mancato.

Nel caso specifico l’odio di Caino si comprende solo come esito di un rapporto fusionale, incestuoso, quindi sbagliato, che lo lega a sua madre Eva.

Se non ci fosse stato questo amore possessivo (da “madre coccodrillo”) di Eva nei confronti del figlio primogenito, probabilmente Caino non avrebbe vissuto la nascita e l’esistenza del fratello Abele come una intrusione e, quindi, non si sarebbe scatenato in lui l’impulso fratricida.

D’altra parte questo lo lascia intendere molto bene – e qui concordo pienamente – lo stesso Recalcati, quando a pag. 51 scrive: “Il carattere traumaticamente intrusivo della nascita di Abele si comprende solo sullo sfondo di questo legame fusionale che lega Caino a sua madre.”

O quando a pag. 55 Recalcati approfondisce ulteriormente questa analisi: “All’origine della violenza umana troviamo l’esperienza del non riconoscimento. La delusione della domanda di riconoscimento – il suo essere respinta – è spesso all’origine del ricorso umano alla violenza. Il suo divampare può facilmente scaturire dall’assenza di ascolto, di accoglimento e di riconoscimento. Se la dialettica del riconoscimento è ostruita, bloccata, distorta, la violenza può essere un suo esito possibile.

Queste parole mi sembra confermino la tesi che fin qui ho provato a sostenere: la violenza non è affatto un dato fondamentale, primario e originario, costituente della natura umana, ma è un dato secondo, conseguente ad un “torto” subito (vero o presunto, reale o fantasmatico: qui ha un’importanza secondaria).

La violenza è, in genere, quasi sempre, l’esito o di un “eccesso di riconoscimento” (amore sbagliato, perché incestuoso, fusionale, simbiotico, come era stato quello di Eva nei confronti del primogenito Caino) o di una “carenza di riconoscimento” (amore mancato, non ricevuto, come non fu il caso di Caino, ma è il caso di molti figli, che da adulti diventano poi quasi fatalmente soggetti borderline).

2. La seconda questione su cui vorrei riflettere qui è quella che Recalcati affronta a partire dal capitoletto intitolato “La trasgressione della Legge”(da pag. 15 a pag. 36) quando analizza il mito di Adamo ed Eva che mangiano il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male disobbedendo ad un’esplicita proibizione divina.

Qui non mi convince l’interpretazione che dà Massimo Recalcati del cosiddetto “peccato originale”. Io (mi scuso per l’immodesta citazione) ne ho data tutta un’altra, direi opposta, nel mio “Elogio della disobbedienza a Dio” (Guida Editori; 2015), dove la espongo in maniera diffusa: qui ne farò solo rapidi accenni.

Per Recalcati nel desiderio di Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero del Bene e del Male c’era non solo la spinta a voler sapere il sapere di Dio, ma addirittura l’hybris a voler essere come Dio, a diventare Dio. (pag. 21).

Per me, invece, ciò che domina nella disobbedienza di Adamo ed Eva è l’aspirazione del tutto legittima, tipicamente umana, a trascendersi, ad uscire da una condizione di inconsapevolezza (di chi, appunto, non conosce la differenza tra il Bene e il Male), tanto beata quanto beota, per acquisire piena coscienza e quindi vera possibilità di scelta.

Inoltre è vero ciò che dice Recalcati: l’uomo tende come “sua inclinazione fondamentale” (pag. 18) a trasgredire la Legge. Ma è anche vero che l’uomo (unico tra tutti gli animali) si è dato la Legge.

Non l’ha certo trovata fuori di sé, né Qualcuno gliel’ha imposta contro il suo volere. Questo è quello che racconta il mito della Genesi (Dio impone la Legge), ma non è certo una ricostruzione realistica di come sia nata la Legge.

In altre parole nell’uomo esiste certamente un’inclinazione fondamentale a fare il male (trasgredire la Legge). Ma esiste anche, allo stesso tempo, un’inclinazione a fare il bene (dandosi dei limiti, imponendosi da solo una Legge).

Anzi la seconda io la considero ancora più fondamentale della prima, perché, se l’uomo non si fosse dato una Legge, non avrebbe potuto poi neanche trasgredirla.

Chi non conosce la differenza tra il bene e il male (ad esempio, i bambini) non può neanche essere accusato (e, meno che mai, punito) per aver fatto del male.

D’altra parte Lacan non ha individuato due polarità all’interno delle quali si pone la vita di ogni essere umano: il Desiderio e la Legge?

E non è vero che privilegiare unilateralmente l’una o l’altra squilibra la vita, la sbilancia, perché la priva di una delle sue due dimensioni fondamentali, essenziali?

Qui, invece, mi pare che Recalcati faccia proprio questo: privilegiare la Legge a scapito del Desiderio; e che finisca, in qualche modo, quasi per contraddire il suo maestro Lacan.

Per concludere su questa seconda questione: per me Adamo ed Eva non avevano altra opzione, dovevano per forza disobbedire.

Se non avessero disobbedito avrebbero “scelto” unilateralmente la Legge a scapito del Desiderio; avrebbero quindi “tradito” il loro desiderio. Che è proprio quello che Lacan definisce (e Recalcati questo me lo ha insegnato) il più grande peccato che un uomo possa commettere.

Solo dopo aver scelto il loro desiderio hanno potuto prendere consapevolezza della necessità di darsi dei limiti, cioè della necessità della Legge. Della necessità di contemperare Desiderio e Legge.

Anche da questo punto di vista io ritengo che la loro fu una “felix culpa”. Sebbene il mio punto di vista – ne sono perfettamente consapevole – sia molto diverso da quello di s. Agostino, che per primo usò tale espressione a proposito del “peccato originale” dei nostri antichi progenitori.

© Giovanni Lamagna

Il sentimento oceanico e lo stato di innamoramento.

Nella risposta ad un lettore, che lo interpellava sul tema della “felicità”, su “D la Repubblica” del 7 luglio 2018, Umberto Galimberti così scriveva:

Ma forse la felicità risiede, come ipotizza Freud, in quel “sentimento oceanico” che ciascuno di noi ha sperimentato in quella condizione prenatale nel ventre della madre, da cui un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati. Questa primitiva felicità può essere recuperata per brevi istanti, come scrive Freud: “Al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io e l’oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che l’Io e il Tu sono una cosa sola ed è pronto a comportarsi come se davvero fosse così”.

Vorrei riprendere ciascuna delle affermazioni di Galimberti e sottoporle a qualche riflessione critica.

1.Anche io penso che quel poco o molto di felicità che è dato sperimentare a ciascuno di noi esseri umani abbia parecchio a che fare con l’esperienza del “sentimento oceanico”.

Per conseguenza ritengo che chi non ha mai fatto esperienza di questo sentimento (o ne abbia fatta ben poca e in maniera solo episodica e saltuaria) non abbia sperimentato una quota parte importante (in qualità e grandezza) della felicità possibile agli umani.

  1. Ma che cos’è il “sentimento oceanico”?

L’espressione “sentimento oceanico” si deve a Romain Rolland (scrittore francese, premio Nobel della Letteratura nel 1915), al quale Freud aveva inviato il suo scritto “L’avvenire di un’illusione”, dedicato al tema della “religione”.

Dopo aver letto il testo di Freud, Rolland gli invia una lettera, in cui, tra l’altro, così scrive:

… mi sarebbe piaciuto vederti fare un’analisi del “sentimento religioso spontaneo” o, più esattamente, del “sentimento religioso”, che è … il fatto semplice e diretto del “sentimento dell’eterno” (che può benissimo non essere eterno , ma semplicemente senza limiti percepibili, e come “oceanico”, per così dire).

Per Rolland il sentimento religioso è, dunque, un sentimento spontaneo che ci fa sentire parte di un tutto, è un’esperienza mistica più che l’adesione a un credo dogmatico, ad una fede specifici.

Infatti, Rolland non si riconosce in nessuna Chiesa, manco in qualcuna delle chiese cristiane. Egli si sente molto più semplicemente un uomo in cammino, alla ricerca della verità.

Freud è umanamente colpito dalla persona di Rolland e dalle cose che dice e scrive lo scrittore francese. Tanto è vero che produce una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”, proprio per replicare alle affermazioni di Rolland e dopo aver meditato sugli stimoli intellettuali da lui ricevuti.

Ma le sue resistenze intellettualistiche e le sue difese razionalistiche sono troppo forti. Egli tende a ridurre quindi il sentimento oceanico, di cui gli ha parlato l’amico, a nient’altro che il “sentimento egoico primitivo”, che prova il bambino durante la fase dell’allattamento, quando egli non è ancora in grado di distinguere il suo sé dal corpo (in particolare dal seno) della madre.

Il “sentimento oceanico” è dunque per Freud nient’altro che la memoria preservata di un sentimento primitivo, quindi una forma di regressione ad uno stadio immaturo della psiche, immaturo perché non differenziato.

Ho già avuto modo di muovere delle obiezioni a questo modo di leggere il sentimento oceanico da parte di Freud, in un mio precedente scritto. Per cui non ci ritorno.

Quello che voglio qui sinteticamente ribadire è che per me il “sentimento oceanico” è cosa ben diversa da quel “sentimento egoico primitivo”, che “ciascuno di noi ha sperimentato nella condizione prenatale”, cioè nei nove mesi di incubazione “nel ventre della madre, dal quale un giorno fuoriuscimmo per nascere come individui separati”.

  1. Mi interessa, invece, qui approfondire l’accostamento (citato da Galimberti) che fa Freud tra il sentimento oceanico e lo stato dell’innamoramento.

Per Freud, al culmine dell’innamoramento, il confine tra l’Io (del soggetto innamorato) e il Tu (dell’oggetto d’amore) quasi si dissolve, così come nel sentimento oceanico il confine dell’Io (del soggetto che lo prova) quasi si dissolve nel Tutto (dell’Universo e dell’Eterno, a detta di Rolland). Questo rende le due esperienze assimilabili (a detta di Freud).

Io colgo le indubbie analogie tra le due esperienze (che sono però più apparenti che sostanziali), ma vedo anche le differenze, che sono molto più profonde e significative delle analogie.

Quali sono queste differenze?

La prima differenza sta nel fatto che quello dell’innamoramento è un sentimento primario, primitivo, non particolarmente elaborato, che sorge spontaneo, in maniera istintiva, non ha bisogno di particolari predisposizioni. Potremmo anche definirlo un sentimento grezzo, alla portata di tutti, a prescindere dal livello socioeconomico, da quello culturale e da quello spirituale.

Il sentimento oceanico è, invece, un sentimento, che, per quanto possa sorgere spontaneo anch’esso, richiede, invece, almeno un minimo di preparazione e di predisposizione. Non tutti, insomma, sono in grado di sperimentarlo, ma solo quelli che hanno un cuore puro e libero, che hanno abbandonato un certo numero e un certo tipo di difese.

Freud, ad esempio, pur essendo indubbiamente un uomo di intelligenza, sensibilità e cultura superiori, non fu mai in grado di sperimentarlo, se non forse in un’occasione molto particolare, quella della sua visita al Partenone di Atene nel 1904. E, senz’altro, non è un caso che egli citi questa esperienza, raccontandola nei suoi particolari, in una delle sue lettere a Romain Rolland.

La seconda differenza sta nel fatto che il sentimento di innamoramento si manifesta in genere in forme molto vivaci, se non proprio violente. Chi è innamorato vive una fase emotiva di forte, anzi eccezionale, eccitazione. I sensi ne sono esaltati. La pulsione sessuale, che in genere è il primo motore dell’innamoramento, è alla sua massima potenza.

Il sentimento oceanico, all’incontrario, si associa a sensazioni di pace e serenità profonde. Non è un sentimento forte e violento come l’innamoramento, ma un sentimento disteso e diffuso, che, anziché eccitare ed esaltare, pacifica ed ammorbidisce i sensi. Nel sentimento oceanico la pulsione sessuale, se non proprio spenta, è quantomeno “addomesticata” e sublimata.

Terza differenza. Il sentimento dell’innamoramento è tutto concentrato su un oggetto specifico, molto preciso, particolare e individualizzato: “l’oggetto piccolo”, avrebbe detto Lacan. Io mi innamoro proprio di quel corpo, di quello sguardo, di quel carattere, di quella intelligenza, di quella particolare persona e non di altre.

Nel sentimento oceanico è, invece, proprio l’oggetto specifico, particolare, individualizzato, che viene meno, perché ciò che viene in evidenza, ciò con cui si ha la sensazione di essere in contatto è il Tutto, nel quale le singole parti sfumano, si dileguano, perdono quasi completamente importanza e significato.

La quarta differenza è forse la più importante. Il sentimento di innamoramento ci porta a stravedere per l’altro. L’altro si pone al centro di tutte le nostre emozioni e i nostri pensieri. L’altro è presente spiritualmente anche quando è assente fisicamente. L’altro è non solo il primo, ma per certi aspetti l’unico, il solo. Sull’altro proiettiamo i nostri desideri e le nostre attese primordiali. L’innamoramento è, insomma, una specie di delirio, che tende a deformare l’oggetto del suo amore, anche lo divinizza, anzi proprio perché lo divinizza.

Il sentimento oceanico, invece, esalta le nostre capacità di guardare il mondo a 360°. Non si concentra su nessun oggetto o aspetto di esso in particolare, ma mira a cogliere quanti più oggetti della realtà (e aspetti di essi) è possibile nel loro insieme, con uno sguardo panoramico e ad ampio spettro. Di conseguenza riesce a vedere gli oggetti non solo nella loro individualità e singolarità, ma anche nelle loro interazioni e influenze reciproche. La sua visione del reale è, quindi, la più obiettiva e meno deformata possibile.

A voler approfondire l’argomento, sarebbe forse possibile rintracciare anche altre differenze tra il sentimento dell’innamoramento e il sentimento oceanico. Ma credo che le quattro da me individuate bastino e avanzino per evidenziare a sufficienza la radicale diversità e irriducibilità tra i due sentimenti, pur nelle loro (superficiali) analogie.

Giovanni Lamagna