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Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

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In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.

Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.

Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.

La prima fu quella con Emma Rauschenbach (18821955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.

Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.

Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.

Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.

Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.

La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.

“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.

“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.

Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.

Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.

Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.

Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.

In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).

Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.

Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)

Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)

Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)

Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.

Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)

Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)

Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.

Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.

In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.

Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.

Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.

Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.

Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.

Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).

Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.

Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.

Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:

… la persona giusta non esiste…

Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)

© Giovanni Lamagna

Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.

Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.

Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.

Cosa dice, dunque, Jung?

Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.

1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).

Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).

Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)

Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).

2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)

Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.

Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).

Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.

Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)

“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)

Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.

3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)

Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.

È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.

La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.

È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.

Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.

Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.

Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.

© Giovanni Lamagna