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Desiderio e responsabilità.

La coscienza si muove (o dovrebbe muoversi) sempre al confine tra desiderio e responsabilità.

Se non abita questo confine semplicemente non è o non è ancora: è in-coscienza.

Il desiderio è, per sua natura, un’istanza potenzialmente illimitata.

Nasce nell’infanzia, anzi già al momento della nascita, all’insegna del “voglio tutto, subito e sempre”.

Quindi all’insegna dell’egocentrismo, del narcisismo, del sogno allucinatorio di onnipotenza.

Ovviamente ben presto e sempre di più, anche se gradualmente, questo tipo di desiderio (oggettivamente delirante, giustificato solo dall’età) deve confrontarsi con la realtà.

Innanzitutto con la realtà della natura, che gli pone (anzi impone) dei limiti: io vorrei volare, ma non posso farlo, perché la natura non mi ha dotato di ali come agli uccelli.

Ma anche con la realtà del desiderio degli altri, che quasi mai coincide col mio e talvolta (o spesso) addirittura confligge col mio.

Di qui il senso di responsabilità.

Che (attenzione!) non è, non deve essere, rinuncia totale, sic et simpliciter, al mio desiderio.

Anzi, la prima forma di responsabilità (proprio nel senso letterale del termine, che deriva dal verbo latino “respondere”) è quella di cor-rispondere al proprio desiderio.

Lacan diceva, non a caso, che “il peccato più grande è quello di cedere sul proprio desiderio”.

Ma il mio desiderio va realizzato compatibilmente con i limiti che mi impone la Realtà – la natura delle cose – e che mi pone il desiderio dell’Altro.

E, siccome non posso aggirare, evadere, la realtà e non posso fregarmene del desiderio dell’altro (perché una delle componenti principali del desiderio è proprio quella di incontrare il desiderio altrui) ecco che desiderio e responsabilità devono viaggiare di pari passo; l’uno non può fare a meno dell’altro.

Se il desiderio vuole trovare una risposta, una soddisfazione vera, buona e giusta, che fa crescere la vita, e non sfociare in un “godimento mortifero” (come lo definiva Lacan), che invece ammazza la vita.

© Giovanni Lamagna

In cosa consiste la religiosità di Jung e cosa intende egli con la parola “Dio”?

Aniela Jaffé nel libro da lei curato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), tra pag. 199 e pag. 200 attribuisce a Jung i seguenti pensieri:

In India c’è l’aspirazione ad arrivare dietro al mondo delle immagini, a dissolvere – per così dire – nella meditazione il mondo delle immagini e la natura.

La mia concezione è diversa.

Io voglio persistere nella visione delle immagini e della natura, come se si trattasse della visione di Dio.

Più di questo non posso desiderare!

Il mondo, la natura, è quindi il Dio che si è manifestato.

Anche il saggio cinese permane umilmente in armonica contemplazione della natura – in modest harmony with nature.

Non vorrei ottenere la liberazione né dagli uomini, né da me stesso, né dalla natura.

Tutto ciò è per me un miracolo indescrivibile… ovviamente insieme all’abisso che vi si accompagna.

Senza di esso, il Tutto non avrebbe rilievo, né contorno, né profondità; non avrebbe alcuna concreta vitalità.

Il senso più alto dell’essere può risiedere soltanto nel fatto che esso è, e non che non è.

Dato che la natura è il Dio che si è manifestato, questo Dio che si è manifestato è anche in noi.

Ma per esprimerlo, ci è mancata a lungo una denominazione.

Si tratta della totalità.

Non dipende da chi si pronuncia al riguardo, da chi ne parla, o da dove derivi tale sapere.

In fondo, non è davvero rilevante da dove scaturiscano sapere e conoscenze.

Ed è indifferente chi ne parli o ne dia testimonianza.

In principio la conoscenza arriva forse indirettamente attraverso gli occhi, i libri, i giornali, attraverso persone ed eventi.

E può anche darsi che noi riceviamo il sapere direttamente dal nostro intimo.

Una volta questo sapere viene in mente a me; un’altra volta tocca a qualcun altro.

La cosa è del tutto irrilevante.

È sempre lo stesso Dio che parla in tutti.

Anche i pesci, gli uccelli, le piante ci dicono di questo.

E il monte è Dio, così come l’albero è Dio; in essi Lui parla.

L’uomo è l’organo ricettivo, è colui che percepisce.

Non sappiamo se il Tao* sia o meno nella natura.

Ma l’uomo rende cosciente il Tao e Dio in quanto esistenza e nell’esistente.

Perciò Dio da solo non basta.

C’è bisogno anche dell’uomo; l’uomo è necessario per vivere l’esperienza della totalità.

Deus et homo.”

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*Nota di Aniella Jaffé: “In cinese “Tao” significa “via”, “sentiero”

(…)

Nell’opera “Tao te Ching” di Lao-tse questo concetto viene impiegato per designare una realtà e verità suprema e trascendente, o anche un principio creativo perennemente attivo.

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In queste due pagine Jung rivela alcune cose a mio avviso molto importanti sulla sua concezione di Dio e su quella che potremmo anche definire la sua religiosità.

Vorrei evidenziarle, anche perché – se questo può interessare a qualcuno; in ogni caso interessa a me – esprimono molto la mia sensibilità filosofica e, potrei anche dire, la mia visione del mondo.

Le indico per punti, in maniera sintetica ed articolata, come mio solito.

1.Innanzitutto prende nettamente le distanze dalla religiosità indiana (suppongo in modo particolare dall’Induismo), che egli conosceva molto bene, avendola studiata profondamente.

Per gli Indiani il mondo, la natura sono solo parvenze, immagini, illusioni, dietro le quali si nasconde la vera Realtà; il cammino religioso per gli indiani consiste dunque nel dissolvere, superare queste immagini ed entrare nella vera Realtà.

Questo cammino per gli Indiani lo si compie attraverso quella che loro chiamano “meditazione” e che per noi occidentali – mi preme sottolinearlo qui ancora una volta, per evitare una confusione che spesso si fa in proposito – equivale piuttosto alla “contemplazione”.

2. Per Jung non si tratta affatto di annullare, superare le immagini del mondo e della natura, come per gli Indiani, ma di cogliere in esse la manifestazione stessa di Dio.

In questo Jung si sente forse più vicino alla cultura cinese (suppongo alla versione che in Cina hanno dato al Buddhismo), per la quale non si tratta di negare la natura, ma di mettersi “in armonica contemplazione della natura”.

3. La “liberazione” di cui parlano le religioni (e che anche Jung – a me sembra – ha perseguito per tutta la sua vita) non consiste, quindi, nel negare la realtà degli uomini, di me stesso e della natura (che è anzi per Jung “un miracolo indescrivibile”, meraviglioso e terribile allo stesso tempo), ma nel guardare questa realtà con occhi nuovi.

Ovverossia con gli occhi dell’uomo che rimane profondamente sé stesso – cioè uomo radicato, ben piantato sulla terra – ma, allo stesso tempo, trascende sé stesso.

4. L’obiettivo del cammino spirituale, quindi, per Jung non è quello di “non essere”, ma, al contrario, quello di “essere”, nella pienezza dell’essere; uno stato, quindi, ben diverso dal “nirvana” induista, nel quale l’individuo realizza (o, meglio, almeno a mio avviso, si illude di realizzare) l’estinzione dell’Io.

Per Jung (mi sembra di capire) non si tratta affatto di negare “l’Io”, ma di uscire dai suoi limiti angusti e integrarlo (attraverso un percorso che egli chiama di “individuazione”) all’interno di una realtà psichica più vasta, che definisce col termine “Sé”.

5. Ad un certo punto Jung dice chiaramente che per lui Dio è la natura, Dio si manifesta attraverso la natura (nei pesci, negli uccelli, nelle piante, nei monti, negli alberi…) e, quindi, anche attraverso di noi.

Dio da solo non basta; Dio non ha, dunque, una realtà a sé, separata dalla natura e da noi; Dio ha bisogno dell’uomo per manifestarsi.

Un concetto di Dio molto simile – mi sembra – a quello spinoziano di “Deus sive natura”; Dio è la totalità dell’Universo; che è, infatti, (aggiungo io) infinito ed eterno: i due aggettivi che normalmente (e non a caso) vengono attribuiti a Dio.

© Giovanni Lamagna

La tensione creativa

Non è affatto vero che il nostro organismo biopsichico funzioni meglio stando sempre comodo, riposato, rilassato.

Noi abbiamo bisogno (almeno ogni tanto) di tensione, di adrenalina. Della giusta tensione (non certo della ipertensione!) e della giusta adrenalina (non certo quella che ci viene data da sostanze dopanti!).

Ma, non ci sono dubbi, senza la giusta tensione e la giusta adrenalina non si dà creatività, non si producono opere e azioni di ingegno.

Noi, infatti, siamo come gli uccelli, che per restare in aria sono “condannati” a muovere le ali. Se smettono di farlo, precipitano giù.

O come i ciclisti, che, se smettono di pedalare, cadono dalla bicicletta.

Noi umani per essere e restare vivi, abbiamo bisogno di essere e restare in movimento.

Per carità, ogni tanto bisogna fermarsi a riposare: questa esigenza è del tutto legittima.

Innanzitutto bisogna far riposare il corpo, le cui energie hanno delle riserve limitate. E, spesso, bisogna far riposare anche la mente, possibilmente dedicandosi ad attività gratuite, di meditazione e di contemplazione.

Ma chi pretende di stare sempre fermo o aspira ad un… eterno riposo, sia fisico che mentale, solo apparentemente si ristora.

In realtà cade (o corre il rischio di cadere) in quella vera e propria malattia dello spirito, che una volta si chiamava melancolìa ed oggi viene più comunemente chiamata depressione.

Giovanni Lamagna

Dio, l’uomo, la solitudine, gli animali, la creazione della donna, il rapporto maschio/femmina. (Genesi 2, 18 – 2, 23)

14 settembre 2015

Dio, l’uomo, la solitudine, gli animali, la creazione della donna, il rapporto maschio/femmina. (Genesi 2, 18 – 2, 23)

2,18 Poi Dio il SIGNORE disse: «Non è bene che l’uomo sia solo; io gli farò un aiuto che sia adatto a lui».

2,19 Dio il SIGNORE, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato.

2,20 L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l’uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui.

2,21 Allora Dio il SIGNORE fece cadere un profondo sonno sull’uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d’essa.

2,22 Dio il SIGNORE, con la costola che aveva tolta all’uomo, formò una donna e la condusse all’uomo.

2,23 L’uomo disse: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall’uomo».

“Non è bene che l’uomo sia solo” – questo dice Dio il Signore, una volta che ha creato l’uomo. La solitudine genera tristezza. E Dio non voleva che l’uomo fosse triste.

Dio, dunque, immagina l’uomo come un animale sociale, intrinsecamente e geneticamente sociale. E per questo gli cerca una compagnia.

Come prima cosa gli presenta gli animali dei campi e gli uccelli dei cieli. E l’uomo dà ad ognuno di loro un nome. In questo modo l’uomo (a ciò incaricato da Dio) stabilisce su di essi il suo primato. E il cosmo diventa per così dire antropocentrico, cioè si ordina in funzione dell’uomo, con l’uomo al centro.

(Sia detto qui per inciso: a giudicare dai risultati e a posteriori, forse questa scelta di Dio non è stata particolarmente saggia e preveggente.)

Ma, dopo averglieli presentati, Dio si rende conto che la compagnia per l’uomo non può essere data dagli animali dei campi e dagli uccelli del cielo, che non sono suoi simili. Deve essere una compagnia adeguata alla sua specie.

Per questo crea la donna, che è fatta delle stesse ossa e della stessa carne dell’uomo. E, infatti, l’uomo, dopo essersi risvegliato dal sonno profondo, in cui lo ha indotto il suo creatore, quando vede la donna, uscita dalla sua costola, la riconosce immediatamente come suo simile.

Il sonno profondo in cui cade l’uomo sta forse a significare il torpore della tristezza che avvolge l’uomo che si sente solo, pure in presenza del creato, pure in presenza degli altri animali, perfino in presenza del suo Dio.

E, infatti, l’uomo, quando si sveglia dal sonno e vede la donna, è felice, gli brillano gli occhi: è uscito finalmente dal torpore triste della solitudine, che né chi gli era superiore (Dio) né, tanto meno, chi gli era inferiore (gli altri animali) erano in grado di riempire.

C’è qualcosa qui che differenzia profondamente questo racconto dalla cultura patriarcale, dentro la quale pure esso è stato concepito: l’idea che l’uomo e la donna siano fatti della stessa pasta (o, meglio, della stessa carne) anticipa (ed è cosa straordinaria!) di millenni la storia della emancipazione femminile.

C’è però comunque nel racconto (com’era ovvio) anche una forte impronta maschilista, che della cultura patriarcale è chiaramente figlia. In esso, infatti, si afferma, con grande forza, se non il primato, quantomeno la primogenitura del maschio: è la donna che viene creata da una costola del maschio.

Perché non il contrario, come sarebbe stato oltretutto più naturale, visto che tutti gli esseri umani nascono da una donna e non certo da un maschio?

Ma, data la cultura del suo tempo, non si poteva certo chiedere di più all’autore della racconto biblico.

(4, continua)

Giovanni Lamagna