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Personalità potenziali e personalità in atto.

In ognuno di noi c’è un potenziale (una sorta di hardware) specifico, unico, singolare, attorno al quale è possibile (o, meglio, sarebbe possibile) organizzare, sviluppare, il complesso della propria personalità (quello che potremmo considerare il software).

Questo potenziale è innato e, quindi, senza merito o demerito: ci è stato dato per la gran parte dalla Natura e per il resto plasmato, senza il nostro consenso, dall’ambiente in cui siamo nati, stati allevati ed educati nei primi anni della nostra vita.

Per realizzarsi, però, questo potenziale, in parte innato e in parte figlio dell’ambiente in cui è germogliato, ha bisogno innanzitutto di essere riconosciuto, poi di essere accettato e, infine, di essere attualizzato dal soggetto che ne è in possesso.

Tre operazioni che non sono affatto scontate e automatiche; per cui accade spesso che molti di noi non realizzino le loro personalità, che rimangano pure potenzialità inespresse, occasioni mancate e in parecchi casi perfino sprecate.

© Giovanni Lamagna

Sesso e consenso.

Nel sesso tutto è moralmente (oltre che giuridicamente) lecito, se incontra il consenso libero dell’altro/a e se non offende la sensibilità, il “senso del pudore” di terzi.

Sono leciti tutti i desideri, tutte le fantasie, tutte le parole, tutte le posizioni, tutte le situazioni, perfino quelle che una volta la psichiatria giudicava “perversioni”.

Dal momento che – come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, rivoluzionando la psichiatria classica – la sessualità umana, al contrario di quella bestiale, è per sua natura “perversa e polimorfa”.

Nel senso che l’uomo riesce, quando vuole, a separarla (perciò, “perversa”) dal suo scopo biologico primario, quello della procreazione, ed è capace di viverla nelle forme più varie e diverse (perciò, “polimorfa”).

Ovviamente per consenso libero si intende un consenso non comprato, non ricevuto per circonvenzione d’incapace, né, tantomeno, estorto con la violenza fisica o morale.

Ogni riferimento a Silvio Berlusconi (pace all’anima sua!) è puramente casuale; anche se la sua morte recente mi ha dato lo spunto per questa riflessione.

© Giovanni Lamagna

Le conseguenze dell’amore.

Da “Dolor y Gloria” di Almodovar: “L’amore può spostare le montagne, ma non può salvare la persona dell’amato”.

E’ vero, molto vero: lo penso anch’io.

L’amore può fare grandi cose: guarire malattie gravi e croniche; può addirittura resuscitare i morti.

Ma l’amore non può fare nessuna di queste cose, neanche cose molto più piccole di queste, senza il consenso della persona amata.

Senza una sua decisione, una sua scelta preliminare.

Senza, cioè, che la persona amata si apra, si conceda, si affidi, si lasci andare all’amore della persona amante.

L’amore dato, in altre parole, esige un atto di fede da parte di chi lo riceve.

E’ questo atto di fede o, meglio, di affidamento, che lo renda efficace, che rende effettivamente fruttiferi i suoi potenziali effetti benefici.

Altrimenti l’amore, anche l’amore, non può fare nulla: è del tutto impotente.

E’ come una freccia scagliata contro un muro: rimbalza all’indietro senza aver prodotto alcuna ferita, senza aver lasciato alcun segno.

© Giovanni Lamagna

L’uomo non è né angelo né diavolo, ma diavolo e angelo allo stesso tempo.

Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), così scrive:

… l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma … occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività.

Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo.

Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?

Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni.

In circostanze estreme che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.”

Vorrei commentare brevemente queste tesi freudiane.

Non certo per mettere in discussione che molte delle affermazioni sostenute qui da Freud corrispondano alla verità.

Ma solo per contestare che esse siano del tutto vere, l’unica verità sulla natura umana.

Io concordo che l’uomo non sia una creatura (solo o del tutto) mansueta: sarebbe certamente una falsità affermarlo.

Indubbiamente – come dice Freud – al suo corredo pulsionale appartiene (anche) una buona dose di aggressività.

Contesto, invece, che l’uomo sia solo un lupo in mezzo ad altri lupi (homo homini lupus), come sembra concludere Freud nel passo sopra citato, riprendendo una famosa tesi di Hobbes.

No, io – onestamente, proprio guardando alle esperienze della mia vita e alla storia, come ci invita a fare Freud – non riesco a condividere una tale tesi.

Che mi appare anch’essa estrema e unilaterale, come quella opposta e speculare dell’uomo naturalmente buono di – per citare un solo nome – Rousseau.

D’altra parte lo stesso Freud sembra (almeno in parte) contraddirla, quando riconosce che ordinariamente ci sono nell’uomo forze psichiche che inibiscono la sua aggressività, la quale esplode solo “in circostanze estreme”.

Questo mi porta a pensare: se esistono nell’uomo forze psichiche che normalmente inibiscono la sua aggressività, da qualche parte esse devono pur scaturire.

E da dove scaturirebbero, se esse non facessero parte intrinseca della sua natura?

La mia tesi, pertanto, è che l’uomo non sia né tutto buono, né tutto cattivo, né sempre mansueto come un agnellino, né sempre feroce come un lupo.

Ma costituisca un impasto complesso di mansuetudine e di aggressività, di amore e di odio, di tensione alla cooperazione, alla generosità e al rispetto per gli altri e, allo stesso tempo, di propensione alla competizione, allo sfruttamento, all’invidia e alla gelosia.

La constatazione che in alcuni uomini prevalgano nettamente la cattiveria e la malvagità (la Storia ce ne mostra indubbiamente infiniti esempi) non smentisce e non annulla il fatto che in altri uomini (la stessa Storia ce ne mostra altrettanto numerose testimonianze) prevalgano la bontà e la dedizione agli altri.

Ne deduco, in conclusione, che questo è l’Uomo: né angelo, né diavolo, ma angelo e diavolo allo stesso tempo!

© Giovanni Lamagna

Riconoscere la rabbia.

Bisogna avere un buon contatto con il proprio sé profondo per vedere e riconoscere la rabbia che alberga in noi.

E’ più facile non vedere o disconoscere questa rabbia, come qualcosa che non ci appartiene, rimuoverne la consapevolezza, per una sorta di buonismo e di malintesa responsabilità sociale.

Quando si rimuove la rabbia, essa esce magari dalla nostra porta principale, ma rientra da una finestra laterale.

E, quindi, comunque fa danni; anche quando non ha il nostro consapevole consenso.

© Giovanni Lamagna

Cultura cattolica, pornografia, sesso, natura ed amore.

La cultura cattolica, nella quale siamo (quasi) tutti nati e cresciuti e di cui tutti (chi più e chi meno) siamo ancora intrisi, tende a farci vivere il sesso come una realtà buona e giusta solo se vissuta all’interno di un rapporto affettivo, cosiddetto “d’amore”.

Il dilagare (quasi) senza limiti della pornografia, in tempi tutto sommato recenti, ha avuto, se non altro, questo merito: di mettere in discussione, e ad un certo punto in vera e propria crisi, l’antica cultura cattolica, almeno sotto questo aspetto.

Sdoganando il sesso come realtà buona e giusta in sé, a prescindere dal suo contesto emotivo ed affettivo.

D’altra parte il sesso – nessuno certo lo può negare – corrisponde a bisogni e desideri del tutto naturali, quindi legittimi in sé, al pari delle emozioni, dei sentimenti e degli affetti.

Tanto è vero che gli animali (i quali, certo, fanno parte della natura) non si pongono tutti i problemi che ci poniamo noi, quando praticano la loro sessualità.

E poi l’atto sessuale, quando avviene in un contesto di pieno, libero e reciproco desiderio e, quindi, consenso, non è già nei fatti (e a pieno titolo) uno scambio d’amore?

© Giovanni Lamagna

Sulle carezze

Ne “L’essere e il nulla” Jean Paul Sartre così scrive:

Le carezze sono appropriazione del corpo dell’altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come gli sguardi, e non potrebbero rendermi padrone dell’altro. Si sa quanto sia insufficiente la famosa frase: “Contatto di due epidermidi”. La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la possa ridurre a semplice contatto, e allora viene meno al suo significato.

Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita“.

In questa riflessione di Sartre ritrovo delle esperienze che sono anche le mie, mentre ce ne sono altre che non riesco a condividere.

Innanzitutto non condivido l’affermazione che le carezze rappresentino una “appropriazione del corpo dell’altro”: sento che questa affermazione non corrisponde al vero.

E’ vero, certamente, che, quando carezzo una persona e questa persona ne prova piacere, avviene una sorta di cedimento di questa persona nei miei confronti, che si abbandona al piacere che le sto donando e, quindi, in un certo senso, si abbandona a me, si affida, quasi in atto di resa, alle mie mani.

Ma, se questo avviene, avviene per una sua scelta, per una sua volontà, per una sua decisione; avviene perché si fida di me, sente che la sto amando, che voglio il suo piacere, anzi voglio il suo bene e perciò diventa complice del mio amore, del mio desiderio di lei.

Il mio desiderio di lei diventa allora il suo desiderio di me. In quel momento due desideri si incontrano, si incrociano: non c’è nessun possesso di uno/a nei confronti dell’altro/a, ma è un venirsi incontro, un concedersi liberamente e reciprocamente.

Se non fosse così, se non ci fosse il suo pieno e libero consenso, l’altro/a, anziché abbandonarsi alle mie carezze e trarne piacere (a volte sublime piacere), si irrigidirebbe, diventerebbe di marmo, impermeabile ad ogni stimolo e condivisione edonistici.

Quindi, è senz’altro vero che le mie mani carezzando possono donare piacere, anche un sublime piacere, ma lo possono fare solo a condizione che l’altro/a si apra, si conceda liberamente, per sua autonoma e fiduciosa decisione, alle mie carezze e al beneficio che esse possono, sono in grado di donare.

Per questo, a mio avviso, in nessun modo le carezze sono in grado di affermare un potere proprietario sul corpo dell’altro, come invece afferma (o, perlomeno, sembra affermare) Sartre.

Semmai è esattamente il contrario: le mie carezze sono in grado di procurare piacere all’altro/a solo nella misura in cui lo/a lasciano totalmente libero, padrone di sé o, quantomeno, del tutto consenziente.

Questo non significa che le mie carezze si fermino o debbano fermarsi per forza alla pura e semplice superficie del corpo dell’altro, alla sua epidermide, che rappresentino quindi solo un contatto tra due pelli.

Qui bisogna dire che ci sono carezze e carezze. Ci sono carezze maldestre, rozze, quelle dei principianti, di chi ha poche volte carezzato, o di chi è incapace di esprimere amore, ammesso che questo amore lo senta realmente: di fronte a queste carezze il corpo dell’altro si chiude piuttosto che aprirsi, si irrigidisce piuttosto che abbandonarsi, si contrappone anziché concedersi.

E ci sono carezze che sono tocchi di velluto, di piuma, che sfiorano il corpo dell’altro/a e lo eccitano, nel senso letterale del termine, nel senso cioè che lo stimolano a “uscire-fuori” dalla corazza protettiva nella quale ciascuno di noi tende a rinchiudersi istintivamente per proteggersi da eventuali minacce esterne.

Mentre le prime non riescono a superare neanche la prima barriera, il primo ostacolo, quello costituito dall’epidermide, perché vengono subito respinte, le seconde non solo oltrepassano questa prima barriera, ma scendono in profondità sotto la pelle, accendono il sangue e giungono direttamente al cervello.

Da qui, stimolando endorfine, arrivano a invadere tutte le fibre del corpo, scatenando lo sconquasso dei sensi e la loro resa.

A questo punto ne approfitto per dire che, al contrario di quanto afferma Sartre, neanche gli sguardi sono destinati per loro natura intrinseca a fermarsi alla pura e semplice superficie del corpo dell’altro/a.

Anche qui dipende dagli sguardi.

Ci sono sguardi che effettivamente si fermano alla superficie dell’altro/a: sono sguardi che “vedono” ma non “guardano”; per cui tali sguardi, non andrebbero neanche definiti come veri e propri sguardi, perché sono solo semplici e banali funzioni ottiche.

Ma ci sono anche sguardi che sono capaci di penetrare in profondità. Non certo (come è ovvio) nel corpo dell’altro/a, bensì nella sua anima. Che sono capaci cioè di leggerle dentro, cogliendone e decifrandone emozioni, sentimenti, pensieri, quasi come se avessero un potere radiografico.

La carezza, infine, e su questo sono totalmente d’accordo con Sartre, non è “un semplice contatto… Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita”.

Attraverso la carezza io non esercito affatto un potere proprietario, come all’inizio sostiene Sartre: questo potere non me lo riconosco, non lo desidero e non credo neppure sia possibile esercitarlo, quand’anche lo desiderassi.

Ma un potere creativo, questo sì, posso esercitarlo attraverso le carezze; beninteso, se ne ho le capacità, le doti, mi verrebbe di dire le arti.

Attraverso le mie carezze io ricreo (in senso letterale e metaforico) il corpo dell’altro/a. “Sotto le mie dita” il corpo dell’altro si trasforma, si risolleva, viene attraversato da una corrente energetica che lo rigenera, lo fa stare bene, in alcuni casi lo rende nuovo.

La persona che viene o è stata accarezzata, infatti, cambia sguardo, portamento, gestualità: si rilassa, si ammorbidisce, risplende di luce nuova, è quasi circondata da un’aura, come dopo un orgasmo.

La carezza è un contatto così poco superficiale che può portare da sola chi ne beneficia all’orgasmo, anche in assenza di congiungimento genitale. Pertanto la carezza è di per sé, per sua natura, un gesto erotico, anche quando non si propone di esserlo intenzionalmente.

© Giovanni Lamagna

Il tema del consenso nei regimi scopertamente autoritari

Nel suo libretto “Gramsci” (Tascabili economici Newton; 1996) Antonio A. Santucci afferma quanto segue: “Nel caso dei regimi scopertamente autoritari, il problema della verità risulta in fondo secondario. Infatti, per definizione, dittatori e gruppi oligarchici non si curano di guadagnare il consenso dei ceti dominati. Per lo più non mentono neppure, non badano a nascondere i loro interessi e scopi. Possono persino esibire con sincerità prevaricazioni e intenti tirannici, a fini di propaganda e a monito degli oppositori, giacché comandano mediante la coercizione violenta. Le forze democratico-borghesi inclinano invece a camuffare la reale natura di interessi sociali ed economici contrapposti. Occultano quindi la verità, allo scopo di ottenere un consenso passivo, spacciato per libera adesione o addirittura sostegno partecipativo.” Concordo solo molto parzialmente con questa valutazione.

Certamente i “regimi scopertamente autoritari” “comandano (essenzialmente e primariamente) mediante la coercizione violenta”, mentre quelli democratico-borghesi tendono a conquistare il consenso delle masse subalterne, in primis camuffando e distorcendo la reale natura dei rapporti di classe, quindi ingannando e occultando la verità (in epoca contemporanea soprattutto attraverso i mass media).

Non sono d’accordo, invece, che il tema/obiettivo del consenso (per quanto distorto e passivo, ottenuto cioè con l’inganno) si ponga solo per i regimi democratico-borghesi e non anche per quelli apertamente autoritari.

Perché penso che nessun regime (neanche quello più ferocemente autoritario e dotato di ampi e sofisticati strumenti repressivi) possa reggersi alla lunga senza una qualche forma di consenso.

Sono convinto, insomma, che anche le dittature più “solide ed efficienti” si debbano porre il problema del “consenso dei ceti dominati” e che non possano affidarsi solo e semplicemente agli strumenti repressivi e prevaricatori.

Nessun regime autoritario sarebbe in grado, infatti, di reggere all’urto e alla ribellione della gran parte della popolazione sottomessa, laddove venisse meno il consenso dato al regime in forme più o meno passive, più o meno esplicite.

Per questo (e non a caso) l’arma della propaganda fa parte della strumentazione tipica a cui fanno ricorso i regimi autoritari, anche quelli più scopertamente tirannici, per ottenere un minimo di consenso o, quantomeno, di non attiva ed esplicita opposizione.

Ne sono stati conferma importante il regime fascista in Italia, quello nazista in Germania e quelli comunisti nei paesi dell’Europa dell’Est, per citare solo tre esempi del secolo appena trascorso.

Fin quando questi regimi hanno avuto una base ampia e possiamo pure dire sostanzialmente maggioritaria di consenso, essi hanno tenuto. Anche se avevano indubbiamente bisogno per reggersi anche di un mostruoso apparato repressivo.

Quando questa base di consenso è venuta meno, per una molteplicità e varietà di fattori, essi sono miseramente crollati, nonostante l’enorme e mostruoso apparato repressivo che ancora continuava a supportarli.

© Giovanni Lamagna

Politica e consenso

Chi svolge azione politica non deve preoccuparsi solo di dire e fare cose giuste.

Deve anche dirle e farle in un modo che sia capace di convincere gli altri della loro giustezza.

Perché in politica conquistare il consenso è cosa fondamentale.

© Giovanni Lamagna