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Prigione e bordello, felicità e sicurezza.

Dice Lacan: “L’uomo, appena arriva da qualche parte, installa una prigione e un bordello” (Il Seminario. Libro V).

A mio avviso intendeva dire che l’uomo oscilla continuamente tra un bisogno di sicurezza, quasi di castigo e di autocastrazione e un bisogno di libertà, avventura, perfino licenziosità.

Che poi non è molto diverso da quanto già sostenuto da Freud nel 1929: “L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.”.

© Giovanni Lamagna

Tradimento e amore.

Il tradimento – dice Massimo Recalcati – non viene mai da chi ci è estraneo affettivamente; non esiste tradimento tra persone che non si amano; o, per la precisione, che non si amavano prima di tradirsi.

Il tradimento viene sempre da chi ci ha amato, da chi ci è stato vicino affettivamente: un amico, un amante, un figlio, un discepolo…

Assodato questo dato di fatto, io però mi chiedo: esiste un amore che non contempli anche una qualche forma di tradimento? si può amare senza (prima o poi) tradire?

Non il tradimento causato dalla paura; come fu quello del discepolo Pietro nei confronti del maestro Gesù, quando questi fu arrestato e poi condannato a morte.

Non il tradimento motivato da un utile, da un tornaconto, come quello di Giuda, che tradì il maestro per trenta denari.

Ma il tradimento originato dalla spinta del proprio desiderio, che, ad un certo punto, entra (o può entrare) in collisione con l’amore fino ad allora provato; o che, magari, si continua ancora a provare.

Il tradimento che è il sostantivo del verbo “tradire”, che, se andiamo a vedere l’etimo (trans + ire), vuol dire “andare oltre”; quindi camminare, evolvere, non certo stare fermi, magari psicologicamente imballati.

Le domande che, quindi, a questo punto mi pongo e pongo sono: si può non “andare oltre” (non “tradire”) per “amore?

E’ vero amore quello di chi si ferma e non va oltre; smette quindi di cercare e di crescere?

Che cosa significa “tradire”? Andare oltre l’amore provato, quando questo amore non si prova più? O rinunciare al proprio desiderio, alla chiamata di un nuovo amore, in nome della fedeltà ad un vecchio amore che non si prova più?

Ancora e di più: rinunciare a un nuovo amore che ci chiama per non mettere a rischio un amore che si prova ancora? o, all’incontrario, mettere a rischio il vecchio amore, che pur si continua a provare, per non rinunciare al nuovo amore che ci chiama?

La vita può metterci – anche più di una volta – di fronte a scelte di questo tipo.

In molti di questi casi il tradimento non ha nulla a che fare con quello di Pietro, cioè non ha nulla a che fare con la paura.

Anzi esige un coraggio (che talvolta sfiora la temerarietà) non richiesto a chi, invece, rinuncia a tradire; che quasi sempre preferisce la sicurezza del certo al rischio dell’incerto.

E, meno che mai, ha a che fare con quello di Giuda, cioè con un interesse materiale.

Perché molto spesso questo tipo di tradimento richiede il pagamento di costi – a volte anche molto pesanti – di natura psicologica e non poche volte pure economica e materiale.

© Giovanni Lamagna

Noi e gli altri.

Gli altri sono per noi come degli specchi, nei quali ci riflettiamo, nei quali ricerchiamo il nostro volto, quello nel quale identificarci.

I rapporti con gli altri, attraverso questo gioco di specchi, ci aiutano a trovare il nostro “vero” volto, a costruire la nostra identità.

Per questo, soprattutto da un certo momento in poi, in genere dalla fine dell’adolescenza, le persone che hanno un significato profondo per noi si assomigliano un po’ tutte: perché ci raccontano più o meno la stessa storia, ci rimandano più o meno lo stesso volto, quello nel quale ci riconosciamo e che ci dà sicurezza, stabilità.

Tendiamo, perciò, a sfuggire le persone che invece ci chiedono cose (valori, ideali, scelte, comportamenti, gesti, posture…) diverse, che alludono ad altre identità.

Tendiamo a sottrarci al loro sguardo, perché questo crea dentro di noi una divisione, un conflitto, che minacciano la nostra stabilità.

Ecco perché, a mio avviso, è molto vero il vecchio adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”!

E questa è la prima “verità” che riguarda il nostro rapporto con gli altri.

La seconda “verità” è questa: non si può piacere a tutti, perché le persone sono diverse, in alcuni casi molto diverse.

Se piaci ad una che ha certi gusti, certe preferenze, un certo stile di vita, una certa visione del mondo, non puoi piacere ad altre che hanno gusti, preferenze, stili di vita, visioni del mondo diversi, a volte opposti.

I simili o gli affini si attraggono, legano tra di loro, così come gli opposti e i diversi si respingono, fanno attrito, scintille.

Succede poi (ed è questa la terza “verità”, forse la più importante delle tre) che a volte incontriamo persone che ci rimandano un’immagine “altra” da quella nella quale siamo soliti riconoscerci.

Un’immagine che non ci piace, che quantomeno ci turba, che non vorremmo (almeno a livello conscio) fosse la nostra.

A volte perché essa ci ripugna decisamente, contrasta con l’idea che ci siamo fatti di noi stessi e con quello che vorremmo essere.

Altre volte, invece, proprio perché – sotto, sotto – noi vorremmo che essa ci appartenesse, ci corrispondesse, almeno come aspirazione, come desiderio inconsci.

In questo caso gli altri ci propongono un’immagine che ci attira (almeno ad un livello inconscio), ma che non riusciamo, malgrado qualche tentativo fatto, a rendere nostra.

Allora, quasi per un riflesso condizionato, sia nell’uno che nell’altro caso, tendiamo ad allontanarci da queste persone, a sfuggire loro.

O a viverle come ostili e quindi con aggressività.

La verità ci fa male, si sa; e non tutti riescono a reggere il dolore che a volte essa ci procura.

© Giovanni Lamagna

Freud: pensatore conservatore o progressista?

Definire Freud, in maniera tranchant, un conservatore (come fa Michel Onfray nel suo “I freudiani eretici”; 2020; Ponte alle Grazie) è del tutto semplificatorio e riduttivo.

Certo, Freud stava ben attento a non farsi trascinare dalle fole dell’entusiasmo e dei voli pindarici; aveva anzi l’ossessione di restare coi piedi ben piantati per terra, di guardare le cose per come sono e non per come ci farebbe piacere che fossero.

Ma questo vuol che era culturalmente un conservatore?

No, non lo ritengo affatto; perché “realismo” non è sinonimo di” conservatorismo”; perlomeno non lo è sempre.

Freud, infatti, prendeva in considerazione, non escludeva aprioristicamente i cambiamenti; diffidava solo dei cambiamenti che egli riteneva impossibili, che fossero cioè contrari alla stessa natura umana e quindi irrealizzabili.

Freud era, però, altresì convinto (come sostiene più volte in una delle sue opere più famose, “Il disagio della civiltà”) che lo scopo fondamentale dell’uomo, ciò che dà senso alla sua vita, è la ricerca della felicità (“Il disagio della civiltà e altri saggi”; Bollati Boringhieri; pag. 211; 219).

E per questo riteneva che l’uomo dovesse adoperarsi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo scopo; almeno nella misura in cui questo scopo è umanamente raggiungibile, alla portata degli uomini.

Ipotizzava, quindi, o perlomeno non escludeva quei cambiamenti sociali che diminuissero la necessaria repressione/sublimazione della pulsione libidica originaria e ne favorissero la liberazione/espressione.

Altrimenti non avrebbe potuto scrivere parole come queste:

Quindi il primo requisito di una civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine statuito non sarà infranto a favore di nessuno.

Ciò non implica nulla circa il valore etico di un simile diritto.

Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra volto a far sì che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale a sua volta si comporti come un individuo violento verso altri gruppi simili e forse più vasti.

Il risultato finale dovrebbe essere lo stabilirsi di un diritto al quale tutti – o almeno tutti i riducibili ad una comunità – hanno contribuito col loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno – con la stessa eccezione – alla mercé della forza bruta.” (ibidem; pag. 231)

Simili affermazioni sembrano alludere ad un’apertura, se non proprio ad un orientamento politico del tutto favorevole, nei confronti della democrazia, di una democrazia sempre più ampia e universalistica; e non solo formale, ma anche sostanziale.

Non potevano essere fatte, dunque, da un puro e semplice conservatore; come pure, in più di un caso, Freud appare o dimostra di essere.

© Giovanni Lamagna

Gioia e timore della ricerca.

Ci sono persone dotate di spirito di ricerca e altre che vi sono refrattarie, che si chiudono a riccio, in difesa, timorose di fronte a tutto ciò che sa di ignoto e misterioso.

Preferiscono per questo la routine al movimento, la noia della ripetizione all’entusiasmo del mettersi continuamente in gioco.

Perché – come in parte è anche naturale – prediligono il noto all’ignoto, la sicurezza comoda del già conosciuto all’insicurezza rischiosa del non ancora conosciuto.

© Giovanni Lamagna

Sicurezza o felicità, libertà o conformismo?

In ciascuno di noi vive una parte “permale”: selvatica, selvaggia, primitiva, sregolata, asociale, anticonformista, che non vuole farsi addomesticare.

E una parte “perbene”: adattata, conformista, ben socializzata, educata, regolata, che mal sopporta (e spesso entra in conflitto con) la prima.

In alcuni prevale la prima, in altri la seconda; in altri le due zone sono quasi alla pari e, quindi, in conflitto perenne; più spesso però accade che prevalga la seconda.

Questo – molti lo dicono (lo disse, ad esempio ed autorevolmente un certo Sigmund Freud) – favorisce l’integrazione sociale, la tenuta della compagine sociale.

Sarà pur vero, anzi è senz’altro vero; ma è in grado anche di preservare la vitalità, il reale benessere, per non parlare della felicità di ciascun individuo?

Lo stesso Freud era consapevole che a questa domanda non si poteva rispondere affermativamente.

Sapeva infatti che l’uomo per garantirsi la sicurezza (la sicurezza sociale, appunto! quella che deriva dall’essere in accordo, a volte solo per quieto vivere. coi suoi simili) era disposto a rinunciare alla sua felicità (che – almeno in una certa misura – deriva invece dal corrispondere alla sua natura ferina e primigenia; non necessariamente asociale, certo però non adattata, non conformista).

Ci sono momenti in cui ciascuno di noi è chiamato a scegliere se assecondare la prima parte di sé o la seconda.

In questi momenti non sono ammesse grosse mediazioni: o si prende una strada o se ne prende un’altra.

E, a seconda se imbocchiamo la strada del conformismo, dell’adattamento sociale, o quella della fedeltà alla nostra chiamata interiore, alla nostra natura selvaggia, la nostra vita prenderà una piega o un’altra.

Nel primo caso opterà per una tranquilla, quieta, ma allo stesso tempo banale, routine; nel secondo si sottoporrà agli scossoni di una vita inquieta e spesso osteggiata dai più.

Nel primo caso avrà rinunciato definitivamente a qualcosa che assomigli vagamente alla felicità, per quanto provvisoria, per quanto fatta solo di brevi momenti.

Nel secondo sicuramente non godrà di una felicità piena, intera, continua, senza limiti, ma ne godrà almeno di tanto in tanto.

Saprà, in altre parole, di cosa può essere fatta la vita: una vita vissuta, fatta di scelte positive e non solo di rinunce.

Sperimenterà che la vita non è (solo) una valle di lacrime (come recita una certa religione), ma può offrire anche gioie e, perfino, picchi, vette, di estasi e di felicità.

© Giovanni Lamagna

Uomini e donne, femmine e maschi.

Ho sempre sentito una fortissima attrazione, propensione verso le relazioni in generale e verso le relazioni con le donne in particolare.

Allo stesso tempo ho sempre avvertito una forte resistenza a chiudermi in un’unica relazione, del tipo “due cuori e una capanna”.

O, meglio, ne sono anche stato tentato; ho conosciuto, quindi, l’istinto a ricercare il calore e le sicurezze del nido.

Ma ben presto, dopo un po’ che l’avevo costruito, ho avvertito sempre il bisogno di riaprire le ali e tornare a volare.

Non certo per staccarmene e farne a meno del tutto, per scapparne, ma per non restarne prigioniero, impaniato, ingabbiato.

Credo che questa sia una modalità del vivere che caratterizza un po’ tutti noi maschi, chi più e chi meno, con le debite e naturali differenziazioni individuali.

Nella donna, invece, almeno nella maggior parte delle donne che ho conosciuto io, anche in quelle culturalmente più evolute, vedo, constato la tendenza opposta: a chiudersi, a fare nido e basta, a non uscirne se non per brevi e sporadiche capatine fuori, a rendersi così in qualche modo prigioniera dell’uomo con cui entra in relazione e della famiglia messa su insieme.

In questo tipo di donna – sarei stato tentato di scrivere nella donna in generale – domina insomma il sogno, la fantasia, quasi ancestrale, dell’amore eterno, se non, addirittura, dell’eterno innamoramento; un bisogno di sicurezza e di protezione illimitato che sovrasta ogni altro desiderio, che così viene soffocato, represso, ancor prima che affiori, che si manifesti.

Le potenzialità affettive, erotiche, sessuali, intellettuali di molte donne (se non proprio di tutte) rimangono in questo modo monche, amputate, se non allo stato puramente larvale, embrionale.

Poi la stessa donna magari se la prende con l’uomo, col maschio, che le tarperebbe le ali, che ne impedirebbe l’autonomia, l’emancipazione, la completa realizzazione.

Il che è anche vero; ma solo in una certa misura e non completamente; perché spesso in questo modo la donna scarica semplicemente il barile delle proprie responsabilità.

Infatti, il più delle volte è la donna stessa che rinuncia alle sue potenzialità: alla felicità possibile ma insicura e precaria, in nome di una sicurezza garantita, protetta, e però molte volte opaca, grigia, talvolta addirittura malinconica.

Insomma, a mio avviso e per dirla con un’affermazione famosa di Sartre, la donna è “per metà vittima, per metà complice…” della sua condizione sociale.

Sarà forse vero che – come dicono molti ancora oggi- la principale vocazione della donna è quella di diventare madre e che con la felicità di essere madre (sconosciuta ovviamente all’uomo) ella compensa le frustrazioni collaterali legate a questa sua propensione fondamentale? Può darsi!

Ma, se questo fosse vero, allora avrebbero ancora senso le sue rivendicazioni per la totale parità con l’altro sesso in tutta una serie di ambiti, dai quali finora storicamente è stata tagliata fuori?

Verrà dunque un tempo – a mio avviso – nel quale la donna dovrà fare i conti con quello che vuole realmente, con quello che veramente desidera: continuare ad essere fondamentalmente madre e quindi relegata nel ruolo principale di custode della casa, del nido familiare? oppure uscire anche lei dal nido e affrontare le perigliosità, i rischi, ma anche le occasioni e le opportunità che ne conseguono?

Credo che le donne (parlo qui della grande maggioranza delle donne e non delle ancora poche e rare avanguardie che si differenziano da questa maggioranza) non possano restare a lungo in mezzo al guado in cui si trovano, in questa sorta di ambivalenza antropologica che le caratterizza ancora oggi nel mondo contemporaneo, almeno qui in Occidente.

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia

E’ sempre duro, difficile, anzi terribile, per me constatare, ogni volta, come gli uomini (e per uomini qui intendo ovviamente sia i maschi che le femmine) diano molto più valore all’amore che all’amicizia; o, meglio, a quello che io preferisco definire “il cosiddetto amore”, cioè una certa idea dell’amore, non certo il “vero amore”.

Nella persuasione assurda, che io reputo addirittura stupida, che l’amicizia non sia fatta della stessa sostanza dell’amore, che l’amicizia sia altra cosa dall’amore, che l’amore sia una cosa e l’amicizia un’altra.

Chi la pensa così, a mio avviso, non ha mai sperimentato e quindi non ha mai compreso cosa siano né l’amore né l’amicizia.

Confonde l’amore con quel sentimento possessivo ed esclusivo che ci fa sentire una sola cosa con l’altro/a, pappa e ciccia, quel legame simbiotico che ci chiude (beninteso, ci auto-rinchiude) in un rapporto con una persona e (quasi) ci impedisce di vedere tutte le altre, quella relazione che Erich Fromm giustamente e opportunamente, nel suo “L’arte di amare” (1956), definisce di “egotismo a due”.

Quel rapporto che in nome della sicurezza (della reciproca protezione; da che, da chi, poi? dal resto del mondo?) rinuncia alla libertà; che, per guardarsi in continuazione negli occhi, rinuncia a guardare in avanti e attorno a sé; e che quindi rinuncia a godere della bellezza del mondo intero, nella falsa prospettiva che questa si riassuma in una sola persona, si racchiuda in un unico sguardo.

Come è diversa l’amicizia da questo (pseudo) amore! Ne è anzi l’opposto.

Due amici non si guardano solo negli occhi. Certo, ogni tanto lo fanno anche! Due amici si riconoscono innanzitutto dal fatto che non devono mai abbassare gli occhi l’uno di fronte all’altro. Perché essi non hanno mai da nascondersi nulla: sono due libri aperti, due case di vetro, l’uno per l’altro.

Ma due amici sono tali soprattutto perché guardano nella stessa direzione, guardano al mondo con gli stessi occhi. E, spesso, non hanno nemmeno bisogno di dirselo, di parlarne, perché si intendono al volo, senza neanche aver bisogno di fare ricorso alle parole o a tante parole.

E per questo gli amici, i veri amici, non hanno bisogno di chiudersi, di chiudere la loro amicizia in un hortus conclusus, di chiudersi in un rapporto prigione, per quanto dorata essa possa essere. L’amicizia, la vera amicizia, è sempre aperta ad altre relazioni, ad altre e nuove amicizie.

Perché la vera amicizia, per sua natura, per definizione, al contrario di tanti (pseudo) amori, non è gelosa, non è possessiva, non considera l’altro come una sua proprietà esclusiva. Non sacrifica mai la libertà per la sicurezza, ma nutre la sicurezza con la libertà e la libertà con la sicurezza.

Certo, l’amicizia (di solito) non prevede il sesso. Almeno così pensa, ritiene il comune (ma banale) immaginario. E, forse, questo, anzi sicuramente questo, fa ritenere l’amore superiore all’amicizia. Come se il sesso fosse un’esperienza superiore alla condivisione di una comune visione del mondo, dell’unum sentire, che è tipico delle vere e profonde amicizie.

Ma è poi vero anche questo? O non è anche questo uno dei tanti luoghi comuni del pensare piccolo borghese, cioè del pensare convenzionale che ha fatto della “proprietà privata” il valore sommo e di riferimento di ogni altro, il modello paradigmatico di ogni altra relazione tra soggetti, comprese quelle emotive, sentimentali, erotiche?

Perché, infatti, l’amicizia, laddove due amici ne provassero l’impulso e il desiderio, non dovrebbe poter sfociare anche nel sesso, dovrebbe escludere l’esperienza dell’incontro e della fusione dei sensi e dei corpi? Cosa lo vieta in linea di principio?

Obiezione: perché allora sarebbe amore!

Come se ciò che due amici provano normalmente, quando sentono le loro anime (cioè emozioni, sentimenti, idee, pensieri, valori, ideali…) muoversi all’unisono, non fosse già amore.

Come se l’amore (il vero amore, non il sentimento zuccheroso, mieloso, da “baci perugina”, che normalmente chiamiamo “amore”) non dovesse già comprendere l’amicizia.

E come se il rapporto che si fonda essenzialmente (se non esclusivamente) sull’attrazione sessuale, sui rapporti sessuali e su sentimenti esclusivi e possessivi di appartenenza reciproca, più che su una reale, forte, profonda, condivisione di pensieri, interessi, valori, ideali, in altre parole di visioni del mondo, potesse essere definito realmente “amore”.

Quanta confusione regna (da quando l’uomo ha potuto cominciare a definirsi tale, da quando esiste cioè l’homo sapiens) su questi due territori: quello dell’amicizia e quello dell’amore!

E quanta strada deve ancora compiere l’uomo per pervenire ad una più corretta conoscenza e consapevolezza dell’una e dell’altro e raggiungere in questo modo la sua piena e compiuta umanità!

© Giovanni Lamagna