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Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

L’uomo animale razionale e quindi politico

Tra le definizioni che Aristotele dà dell’uomo – “zoon politikòn” (animale politico) e “zoon logon èchon” (animale razionale) quella che io ritengo prioritaria in ordine di importanza, nel senso che è la condizione dell’altra, è per me la seconda.

Anche gli altri animali, infatti, a loro modo sono esseri sociali, abituati come sono a vivere in gruppi, più o meno elementari o complessi, come lo sono, ad esempio, uno stormo di uccelli, un banco di pesci, una mandria di buoi, un gregge di pecore o un branco di lupi.

Cosa sono, infatti, questi gruppi di animali se non una forma più elementare e rozza del vivere sociale rappresentato dalle comunità costituite degli uomini, prima sotto forma di tribù e poi nella forma più complessa e articolata della polis?

Ciò che, invece, distingue in maniera radicale l’uomo dagli altri animali è la estrema complessità delle sue funzioni cerebrali, la cosiddetta razionalità (la mens, l’intelletto), che è presente, beninteso, anche negli altri animali, ma in forme sicuramente ed enormemente più primitive ed elementari.

Ciò significa che l’uomo è in grado (almeno potenzialmente: non è detto che ci riesca sempre e comunque) di giungere a livelli di consapevolezza a cui nessun altro animale è capace di arrivare (è consapevole, ad esempio, del suo destino di morte) ed è capace di un linguaggio estremamente ricco e articolato, che gli permette di dialogare, comunicare con i suoi simili a livelli inimmaginabili per gli altri animali.

La sua vita sociale e politica è di conseguenza enormemente più ricca e complessa di quella degli altri animali; almeno in potenza, come dicevo prima a proposito della razionalità.

Perché, certo, non ci possiamo nascondere le grandi contraddizioni, da cui questa vita sociale è spesso lacerata, che esplodono frequentemente in conflitti, a volte persino sanguinosi, come lo sono ad esempio le guerre e gli stermini a cui le guerre talvolta danno luogo.

Ma è appunto la sua natura di “animal rationale” che consente all’uomo di essere pienamente “animal sociale e politicus”.

Tanto è vero che, quando viene meno la prima, l’uomo torna ad essere animale della giungla, “homo homini lupus”.

© Giovanni Lamagna

Il mio rapporto con la politica

Federico Fellini, nel libro “Fare un film”, così descrive il suo rapporto con la politica:

La politica, intendo dire una visione politica della vita dove i problemi del vivere sono proposti e affrontati solo in termini collettivi, mi sembra una limitazione.

Tutto ciò che rischia di cancellare, di nascondere, di alterare l’individuo e la sua privatissima storia, configurandosi in realtà astratte e schematiche, confondendole nelle “categorie”, nelle “classi”, nelle “masse”, debbo confessare che mi allontana istintivamente…

Del resto il delirio verbale con cui sistematicamente vengono presentati i problemi della società, sembra accuratamente escogitato per rendere ottusi, inerti, per isolare in un’esclusione irrimediabile.

A volte la mia estraneità a una problematica politica, invece di restituirmi un sentimento di disagio e di imbarazzo, mi conforta, me ne sento protetto, penso di essere fortunato, e questo mi succede quasi ogni giorno quando sui giornali, o per radio, o alla televisione assisto alla grande sarabanda informativa sulla vita politica italiana.

Questa dichiarazione tocca particolarmente le mie corde emozionali e intellettuali, perché in essa mi ritrovo per certi aspetti, ma non mi ritrovo per altri. Mi è utile, quindi, come traccia, per definire il mio rapporto con la politica.

Innanzitutto, anche io, come Fellini, non mi riconosco in una visione della politica che si dimentica delle persone, come singole entità, uniche nella loro insuperabile individualità, per parlare solo di dimensioni e categorie collettive: le classi, la massa, il popolo… e affrontare esclusivamente questioni di carattere generale e perciò inevitabilmente impersonali.

In secondo luogo, anche io, come il maestro riminese, aborro un certo linguaggio della politica, quello degli addetti ai lavori, i cosiddetti professionisti della politica, che sembra fatto apposta per apparire estraneo e incomprensibile alla gente comune, in altre parole alla maggioranza dei cittadini. Ai quali, invece, esso dovrebbe in primo luogo rivolgersi, se per “politica” intendiamo la nobile attività che si occupa della “polis” (parola greca che vuol dire “città”) e quindi, appunto, dei cittadini.

E, però, questi due fattori, che mi rendono molto distante dalla politica come viene normalmente intesa e praticata, non mi portano (come invece è successo a Fellini) a sentirmi estraneo alle problematiche politiche, persino nella forma e nel linguaggio distorto di cui si parlava prima.

Perché penso che, comunque, quella politica sia una dimensione che ci riguarda tutti, di cui noi tutti, volenti o nolenti, ci piaccia o non ci piaccia, siamo parte, che decidiamo di parteciparvi attivamente o che ne restiamo fuori.

E che, quindi, tanto vale parteciparvi attivamente, se non vogliamo che molte decisioni, che ci riguardano in prima persona, vengano prese a prescindere da noi e sopra le nostre teste.

Aggiungo, inoltre, (ed è questa la seconda differenza tra me e Fellini nel modo di rapportarci alla politica) che, come sono d’accordo col grande regista romagnolo quando in sostanza afferma che la dimensione politica non esaurisce quella personale e individuale, allo stesso tempo penso che la dimensione dell’individuo non possa ignorare la dimensione politica ed estraniarsi da essa, pena risultare monca e zoppa.

In altre parole, per me l’individuo si eleva e si realizza pienamente al livello della persona solo nella misura in cui è inserito in una comunità di suoi simili, solo nella misura quindi in cui è animale politico, non soltanto intrinsecamente, direi ontologicamente, che lo voglia o no, ma anche per scelta e decisione consapevole.

Non condivido, pertanto, il sentimento di orgoglio con il quale Fellini confessa la sua estraneità al mondo della politica. Una cosa, infatti, è sentirsi estraneo e lontano da un certo modo di fare politica. Altra cosa è sentirsi protetto, confortato, addirittura fortunato, perché ci si chiama fuori da ogni agone politico.

Credo, infatti, che tutti noi, pure quelli che aspirano ad un altro modo di fare politica, anziché tirarsene fuori (come mi pare abbia fatto Fellini, quando era in vita), dovremmo entrare nello spazio politico (che è poi lo stesso spazio della vita collettiva), all’occorrenza sporcarci le mani, e dare il nostro contributo a che essa cambi o, quantomeno, migliori un po’, se – com’ è ora – ci piace poco o per niente.

© Giovanni Lamagna

In quali ambiti e modi si realizza la vita dell’uomo?

“Aristotele distingue tre modalità di vita (bioi) dell’uomo libero: la vita che aspira al piacere (hedoné) la vita che compie azioni belle e nobili nella polis (bios politikòs) e la vita che si dedica all’esame contemplativo della verità (bios teoretikos)” (Byung-Chul Han; “Il profumo del tempo”; pag. 100).

Io – si parva licet – la vedo in maniera un po’ diversa da Aristotele.

Anche per me tre sono gli ambiti nei quali può realizzarsi l’uomo libero, ma non sono esattamente quelli indicati dallo Stagirita. I tre ambiti per me sono, molto più semplicemente, il buono, il bello e il vero.

L’uomo libero è innanzitutto colui che si dedica alla ricerca del buono, cioè del giusto, e poi lo mette in pratica. Non solo nella sua vita privata, ma anche in quella pubblica, nella vita della polis (politica).

Perché l’uomo libero, per sua intrinseca natura, non è un individuo isolato dagli altri, ma è politikòn zôon (animale politico), come giustamente lo definisce Aristotele, strutturalmente connesso agli altri suoi simili.

L’uomo libero è poi l’uomo che cerca il bello e lo realizza nelle sue opere, nelle sue azioni, sia nella sua vita privata che in quella pubblica.

Non è necessariamente un artista. Anzi quasi mai lo è. Non a tutti, anzi a pochissimi, è dato di possedere il talento di un Dante, un Michelangelo, un Raffaello, uno Shakespeare, un Beethoven o un Mozart.

Ma a tutti gli uomini è data la possibilità di fare della propria vita una “bella opera”, quasi come se fosse un’opera d’arte.

L’uomo libero, infine, è l’uomo impegnato nella ricerca della verità, che, se è autentica, non è mai solo una ricerca teorica, in quanto l’uomo che cerca la verità, cioè la sapienza, a questa cercherà poi di conformare la sua vita.

In questo senso l’uomo che cerca il “buono” (cioè l’uomo morale) e l’uomo che cerca il “vero” (il filosofo, l’amante della sapienza) e perfino l’uomo che cerca il “bello” (l’artista di sé) sono la stessa cosa, coincidono.

La ricerca del buono, del bello e del vero sono come tre versanti della scalata alla stessa montagna.

Tutte e tre, anche se con modalità molto diverse, portano allo stesso risultato: l’elevazione dell’essere umano, la sua realizzazione.

Tutte e tre quindi in qualche modo rappresentano un itinerario che a che fare con quello del mistico, ovviamente nell’accezione laica e non religiosa (se non in senso lato) del termine.

Giovanni Lamagna