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Morale sessuale.

La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.

È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.

Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!

Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.

E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.

© Giovanni Lamagna

Intelligenza emotiva e intelligenza intellettiva.

C’è – come ha sottolineato Daniel Goleman – un’intelligenza emotiva e c’è un’intelligenza intellettiva.

L’intelligenza intellettiva è quella che affronta i problemi che hanno bisogno di soluzioni esclusivamente razionali, persino scientifiche e tecniche.

È affine a quello che Heidegger definiva “pensiero calcolante”.

L’intelligenza emotiva è quella che affronta i problemi che hanno bisogno di empatia più che di raziocinio puramente intellettuale.

È quella capace di cogliere ed analizzare le emozioni e i sentimenti, il vissuto esistenziale, propri e degli altri.

Per certi aspetti è affine a quello che Heidegger definiva “pensiero meditante”.

Non sempre le due intelligenze sono compresenti nella stessa persona.

Ci sono persone dotate di grande intelligenza intellettiva, ma poco o per niente di intelligenza emotiva.

Come ci sono, viceversa, persone dotate di grande intelligenza emotiva, ma poco o per niente di intelligenza intellettiva.

© Giovanni Lamagna

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Ci sono sacrifici e sacrifici!

Ci sono sacrifici (nel senso di dolori, fatiche…) che sono passaggi obbligati, se vogliamo raggiungere determinati obiettivi: non li possiamo evitare, fanno parte del nostro percorso di vita, sono intrinsecamente collegati agli scopi che ci siamo dati.

E ci sono sacrifici, invece, che ci imponiamo da soli, come una forma di espiazione per i nostri sensi di colpa; a volte legati a nessuna colpa reale, ma ad una colpa che percepiamo come tale, che qualcuno da fuori ci ha spinto a considerare tale.

I sacrifici del primo tipo, oltre che ineludibili, sono anche funzionali alla nostra crescita umana in senso lato; fisica, emotiva, intellettuale, spirituale.

Quelli del secondo tipo, invece, sono del tutto inutili; faremmo bene ad evitarceli, servono solo a deprimerci, in certi casi possono addirittura distruggerci.

© Giovanni Lamagna

Coscienza cosmica ed esperienza mistica.

Pierre Hadot (a pag. 131 del suo “La filosofia come modo di vivere”; Einaudi 2008) parla “… di un esercizio rivolto a farci superare, ancora una volta, il nostro punto di vista parziale e particolare per farci vedere le cose e la nostra esistenza personale in una prospettiva cosmica e universale, ricollocandoci così nell’immenso evento dell’universo, ma anche, potremmo dire, nel mistero insondabile dell’esistenza.

E’ ciò che chiamo la coscienza cosmica.”.

Qui – a me pare – l’espressione coscienza cosmica ha lo stesso significato dell’espressione sentimento oceanico, coniata da Romain Rolland, con il quale e sulla quale ebbe modo di dialogare un certo Sigmund Freud in un famoso scambio epistolare.

Chi sperimenta la coscienza cosmica o il sentimento oceanico ha la sensazione viva, forte, di essere piccolissimo, come un granello di sabbia del deserto o una goccia dell’oceano, di fronte alla grandezza, anzi all’infinito del Cosmo, dell’Universo.

Chi è incapace di vivere o non ha mai vissuto questa esperienza vede, invece, sé stesso come il centro del Mondo.

Si avverte smisuratamente grande di fronte al Mondo; anzi (in alcuni casi estremi) non lo vede proprio il Mondo, lo ignora del tutto.

Vive sé stesso come se il Mondo non esistesse, come se esistesse solo lui o, tutt’al più, il Mondo gli girasse attorno, ne fosse una semplice protesi, un’appendice.

Tra questi due diversi, anzi opposti, modi di vivere il Mondo, di rapportarsi (o non rapportarsi) ad esso, si situa tutta la differenza che passa tra chi (anche se solo in alcuni momenti) vive o ha vissuto un’esperienza mistica e chi non l’ha mai provato e, quindi, non ne ha la più pallida idea.

In altre parole per me l’esperienza mistica non è un’esperienza fuori dal mondo o di un altro mondo.

Non è, quindi, un’esperienza che hanno vissuto o possono vivere solo determinate persone speciali.

Ma è solo un modo particolare di fare esperienza del Mondo; del quale tutti siamo oggettivamente infinitesimi frammenti, ma solo alcuni ne hanno piena ed effettiva coscienza; ovverossia una coscienza non solo intellettuale, ma anche emotiva e sentimentale.

Un’esperienza, quindi, niente affatto straordinaria o esoterica, come in genere e da parte dei più si pensa, ma un’esperienza alla portata di tutti noi.

Se solo ci rendiamo disponibili ad uscire dai confini del nostro primitivo ed infantile egocentrismo e dalla prigione del narcisismo cosmologico.

© Giovanni Lamagna

Bisogno di trascendenza e consapevolezza della morte

Nell’uomo c’è, potenziale, un bisogno singolare di trascendenza, di andare cioè oltre se stesso, per realizzare se stesso.

Un bisogno singolare perché lo distingue da tutti gli altri animali.

Un bisogno potenziale perché c’è in tutti gli uomini, ma non tutti gli uomini lo avvertono allo stesso modo e, soprattutto, pochi vi corrispondono.

Per avvertirlo, infatti, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la morte.

Avere, fino in fondo, la consapevolezza che il nostro destino finale e ineluttabile è quello di morire.

Non si può, infatti, avvertire il desiderio di trascendersi, se non si è ben consapevoli che si dovrà morire: il desiderio di trascendersi è specularmente proporzionale alla consapevolezza di dover morire.

Ma non tutti gli uomini hanno questo coraggio: molti uomini preferiscono rimuovere questa consapevolezza.

Ovviamente qui non parlo della consapevolezza razionale, intellettuale, che è impossibile da rimuovere, ma di quella sensibile, emotiva, quella che effettivamente conta.

© Giovanni Lamagna