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Legittima difesa e nonviolenza.

Ho la ferma, solida, intuizione (non arrivo alla presunzione di definirla “convinzione”) che la violenza contraccambiata sia solo uno dei modi coi quali si possa (qualcuno invece presuntuosamente, arriva a dire: si debba) reagire alla violenza ricevuta.

Certo, la risposta violenta è sicuramente quella più istintiva, quella che viene più immediata e facile; e (forse per questo) quella che finora ha prevalso nella storia delle relazioni umane, soprattutto tra le Comunità e gli Stati.

Il concetto di “difesa legittima” (per quanto limitato dal carattere della giusta proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta) è parte integrante del diritto di tutti gli Stati, anche di quelli più democratici e tendenzialmente pacifisti.

Ed è stato assunto perfino dalla morale cristiana, in modo particolare da quella cattolica; anche se negli ultimi decenni molti pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche hanno cominciato a metterlo seriamente in discussione.

Eppure è mia profonda sensazione che alla reazione violenta in risposta all’azione violenta subita possano esserci delle alternative, concretamente praticabili; e che, prima o poi bisognerà cominciare ad attuarle, se l’Umanità vorrà evitare di mettersi (se non si è già messa) sul pendio scosceso che la porterebbe fatalmente verso la catastrofe atomica mondiale e, quindi, verso il suicidio.

Ritengo, infatti, che sia istintivo e, quindi, naturale reagire difendendosi con la violenza dalla violenza, ma che sia altrettanto naturale e forse persino istintivo (almeno per alcuni) provare ripugnanza per la violenza in sé, anche per quella eventuale difensiva e non solo (com’è ovvio) per quella eventuale subita.

Chi prova ripugnanza istintiva, direi addirittura fisica prima che morale, verso ogni forma di violenza, avverte intimamente e profondamente che dovrà reagire con metodi non violenti alla violenza di cui sarà oggetto, che “all’occhio per occhio, al dente per dente” dovrà sostituire, se non proprio la scelta evangelica del “porgere l’altra guancia”, una difesa attiva nonviolenta.

Anche a costo di risultare inizialmente perdente e di dare scandalo, apparendo codardo agli occhi di chi non vede e non concepisce alternative alla “legittima difesa violenta”.

Ma tant’è: qui si confrontano due visioni del mondo, che entrambe hanno, a mio modesto parere, dei fondamenti di razionalità.

Anche se a chi ne sostiene una (specie a chi non vede alternative alla “legittima difesa violenta”) risulterà difficile riconoscere i fondamenti di razionalità (e, quindi, di legittimità) dell’altra.

La mia previsione è che non sarà la preveggente autocoscienza (come sarebbe auspicabile, anche se forse è pura utopia) ma la storia e solo la storia a stabilire (quindi – purtroppo! -solo a posteriori) quale di essa era la più saggia e lungimirante.

Spero solo che non sarà una storia tragica, anzi apocalittica.

Come temo, invece, sarà, se l’Umanità non si deciderà a fare (quanto prima, non ci resta molto tempo a disposizione) una scelta radicale di nonviolenza.

Che poi – sia detto qui solo per inciso; il discorso richiederebbe ben altro spazio – non vuol dire affatto arrendersi passivamente alla violenza subita (come la caricatura propagandistica che ne fanno i “militaristi” tende a far passare nel comune immaginario), ma significa fare ricorso ad altre forme di conflitto, diverse da quelle pur legittime (almeno in sede teorica) della difesa violenta, dell’occhio per occhio, dente per dente.

© Giovanni Lamagna

Si può vivere senza desiderare?

La consapevolezza che ciò che desidero in questo momento (forse) non esiste da nessuna parte (è, cioè, un “utopia”) non mi impedisce di desiderarlo e persino di cercarlo.

Potremmo pertanto affermare: desidero, dunque sono; sono, dunque desidero.

© Giovanni Lamagna

Famiglia e comunità.

Più vado avanti e più prendo atto che la dimensione della famiglia borghese (sia nella sua versione più antica e tradizionale – quella patriarcale – sia in quella più moderna e recente – la famiglia nucleare) mi sta stretta, non corrisponde più alle mie aspirazioni più profonde, ammesso che vi abbia mai corrisposto.

La mia dimensione ideale, quella nella quale oggi mi riconosco di più e che mi esprimerebbe appieno, è la dimensione della comunità.

Un luogo (spirituale prima che materiale) nel quale più persone fanno vita comune, auspicabilmente anche di convivenza, non perché vincolate da un legame di sangue e meno che mai da un contratto giuridico, ma perché condividono valori, interessi, affetti, emozioni, sentimenti, amori, desideri, aspirazioni.

L’idea della “comune”, che affascinò i giovani del ’68, alcuni dei quali provarono anche a metterla in pratica, purtroppo con durate quasi sempre brevi e con esiti spesso fallimentari, continua ad affascinare ed attirare un uomo come me, che di quella generazione sono parte, anche ora che sono diventato anziano, per non dire vecchio.

So benissimo che, anche per la maggioranza di coloro (pochi) che mi stanno leggendo, questa è solo un’utopia, del tutto irrealizzabile.

Ma cosa saremmo noi umani senza utopie? Come faremmo a camminare, ad andare avanti, ad andare oltre il semplice “qui e ora”?

© Giovanni Lamagna

Oggi non basta dirsi a favore della pace.

Oggi non basta dirsi per la pace.

Anche perché tutti dicono di esserlo.

Anche quelli che poi inviano (o sono favorevoli a inviare) armi all’Ucraina, perché – dicono – è giusto, è necessario che l’Ucraina si difenda dall’invasore russo.

“Perché – dicono – anche noi vogliamo la pace, ma una pace giusta, non una pace che sia una resa al prepotente invasore.

Mentre voi pacifisti, che siete contrari all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi, volete una pace ingiusta, che è in realtà una resa passiva e incondizionata all’invasore.”

Per questo oggi non basta dire: “vogliamo la pace!”.

Perché bisogna dare una risposta alle ovvie, scontate, direi addirittura naturali, obiezioni dei “pacifisti” che sono favorevoli all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi dall’invasione russa.

Occorre allora dire che noi siamo non solo pacifisti, ma siamo soprattutto nonviolenti.

E’ questo che ci distingue e divide, in modo radicale, dai pacifisti armati.

Pensiamo, cioè, con molta fermezza e convinzione, che la difesa dal nemico aggressore non debba essere quella militare ed armata, ma una resistenza attiva e nonviolenta.

Fatta di scioperi, di boicottaggi, di manifestazioni pubbliche e private di dissenso e di ribellione; non certo – dunque – una resa passiva e rassegnata al nemico invasore.

Come i pacifisti armati ci accusano di volere ed auspicare.

Costoro potranno, allora, dirci (e contestarci) che questa forma di lotta è ingenua e senza nessuna efficacia; che equivale in realtà ad una resa.

E, certo, noi non potremmo convincerli del contrario, se in loro non è maturata o fino a quando non maturerà in loro un’intima convinzione (che è una specie di fede) del contrario.

Anche se nella storia, soprattutto in quella recente, non sono mancate importanti testimonianze (vedi Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela…) dell’efficacia di una tale forma di lotta, nonviolenta.

Potremmo solo obiettare loro che il ricorso alle armi e la conseguente, molto probabile, progressiva, escalation bellica, nell’attuale situazione storica, con il rischio incombente del ricorso alle armi nucleari, ci porterà quasi sicuramente dritti, dritti verso un’ecatombe mondiale e, dunque, la probabile estinzione della nostra specie.

Hanno presente i nostri pacifisti favorevoli all’uso delle armi (fossero anche solo di difesa) un tale rischio, che, a dire il vero, è molto più di un rischio, perché è invece una quasi assoluta certezza?

Chi è quindi più ingenuo e realista?

Chi, in nome del presunto realismo, si dice contrario all’utopia nonviolenta o chi azzarda questa utopia, come unica forma di realismo e non solo di idealismo, perché mai come oggi vede reale la possibilità che la specie umana si autodistrugga con le sue stesse mani?

C’è, in altre parole, oggi, nell’attuale situazione storica, una reale alternativa alla nonviolenza (attenzione: non il semplice e generico appello alla pace!), se si vuole salvaguardare il futuro dell’Umanità e non rimuovere il problema, come, invece, la maggior parte dei “pacifisti armati” fa?

© Giovanni Lamagna

Perfezione.

Nessuno nasce perfetto e nessuno potrà mai diventare perfetto.

Ma, se rinunciamo già in partenza al progetto di diventare perfetti (“Siate perfetti come è perfetto il padre mio!”), siamo destinati fatalmente alla mediocrità, a restare persone irrealizzate.

L’idea di perfezione non serve a diventare perfetti, ma a crescere, a migliorare, a evolvere.

A stimolare la nostra volontà a superarci, ad elevarci.

Così come l’utopia non serve a costruire un mondo senza macchia e senza peccato.

Ma serve a costruire una convivenza migliore, a camminare, come diceva lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano.

© Giovanni Lamagna

Nonviolenza o autodistruzione.

E’ venuto il tempo, io dico, di concepire e provare a realizzare un nuovo ordine internazionale: fondato sulla pace e sulla nonviolenza.

Finora nella storia, quando scoppiavano delle controversie che non si riuscivano a risolvere in modo pacifico e non violento, la strada obbligata, dai più ritenuta perfino scontata e naturale, era la guerra.

“La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi.”

Con queste parole, famosissime, il generale prussiano Carl von Clausewitz esprimeva, quasi due secoli fa, non solo un sentimento ma anche un’idea, un concetto, un’ideologia diffusissimi, accettati dal senso comune come ovvii, indiscutibili, del tutto scontati.

Persino la morale della Chiesa cattolica, che pure si rifà (o dovrebbe rifarsi) all’insegnamento indubitabilmente pacifista e non violento di Cristo, è giunta a teorizzare e ritenere legittima la guerra in determinate situazioni, almeno in quelle configurabili nella forma della legittima difesa.

Tanto è vero che in questi giorni perfino un vescovo e un teologo molto noto e illuminato come Bruno Forte, citando la dottrina cattolica, è arrivato a giustificare l’invio delle armi in Ucraina, a sostegno della resistenza di un popolo attaccato da un’altra nazione, quella russa, e a criticare un certo pacifismo che ha definito “ingenuo”; come a dire: in certe situazioni il ricorso alle armi è inevitabile.

Io, invece, dico, che siamo giunti ad un punto, ad un tornante, della Storia in cui bisogna mettere in discussione quello che finora è apparso come assiomatico, pensiero comune, scontato, senza alternative, perfino naturale, quindi giuridicamente legittimo.

E’ venuto il tempo di dire che all’uso della forza (o, meglio, della violenza e, quindi, delle armi) si può, anzi si deve (o, perlomeno, si dovrebbe), rispondere senza fare ricorso alle stesse modalità e agli stessi strumenti di morte; che alla violenza si può, si deve, si dovrebbe, rispondere con la nonviolenza.

Lo richiede il tempo storico nel quale viviamo, io direi la stessa realpolitik e non solo la morale o una certa concezione ideale della vita e dei rapporti tra gli uomini.

Oggi iniziare una guerra (ne è un esempio quella ora in corso in Ucraina) può innescare una tale escalation militare da sfociare, prima o poi e inevitabilmente, in un conflitto planetario e, a quel punto, nucleare; il cui esito molto probabile sarebbe l’autodistruzione dell’Umanità.

Oggi l’uso delle armi, anche solo quello delle armi convenzionali, è talmente devastante, sia in termini di feriti e morti che di distruzioni di edifici e strutture economiche, da porre legittimamente la domanda: vale davvero la pena difendersi con le armi da un attacco straniero?

Conosco già e molto bene l’obiezione che di solito viene fatta ad un tale ragionamento da coloro che non concepiscono altra risposta alla violenza armata che il ricorso all’uso delle armi: “ma allora, voi pacifisti, volete, state in pratica chiedendo, la resa dell’Ucraina all’invasione russa?”.

E’ questa un’obiezione senz’altro fondata e del tutto legittima; certo, se ad un attacco violento, noi reagissimo in maniera inerte, semplicemente alzando le mani in atto di resa, avrebbero del tutto ragione i critici della posizione pacifista e nonviolenta!

Il punto è che i pacifisti e nonviolenti non pensano affatto che l’alternativa alla risposta militare ad un attacco militare sia (solo) la resa incondizionata all’avversario; pensano che un’alternativa possibile, praticabile, sia un altro modo di resistere e, quindi, di realizzare il conflitto (sì, il conflitto: non esito ad usare questo termine) con l’esercito invasore.

Sia, ad esempio e innanzitutto, la non collaborazione civile con le nuove autorità che verrebbero ad insediarsi al potere, la disobbedienza civile diffusa e di massa.

In secondo luogo, la ricerca e l’instaurazione di alleanze negli organismi internazionali deputati a risolvere le controversie tra popoli e nazioni, per isolare e sanzionare con metodi non violenti la nazione attaccante.

In terzo luogo la risposta mite, perfino gentile, ma ferma, non pavida, alla brutalità e violenza dei militari invasori, in modo da mettere continuamente a confronto umanità e disumanità e suscitare nei violenti sentimenti di vergogna e possibilmente di pentimento e cambiamento.

So benissimo che tali modalità e strumenti alternativi di praticare il conflitto non sono di facile uso, che richiedono un’educazione ed una preparazione lunga, difficile e delicata; e, soprattutto, che di primo acchito appaiono ai più del tutto ingenui e completamente inefficaci, quindi improponibili.

La riflessione che il pacifista oppone a tale reazione istintiva e immediata è però: a quali risultati porta invece la risposta militare ad un intervento armato (ovviamente il pacifista non prende manco in considerazione l’intervento armato di attacco)?

E’ effettivamente più efficace la resistenza armata rispetto a quella non armata?

Forse fino ad ottanta anni fa questo si poteva ancora sostenere; nessuno può negare, neanche il più strenuo dei pacifisti nonviolenti, che la resistenza armata al nazifascismo ha impedito che questo mostro ideologico, politico e militare prendesse il sopravvento e affermasse il suo dominio nel mondo.

Ma oggi si può ancora dire lo stesso? Si può ancora affermare che la resistenza armata sia la risposta giusta, anzi l’unica adeguata e proporzionata ad un attacco militare; anche col rischio di un’escalation mondiale e quindi nucleare del conflitto?

Io credo di no.

Per questo penso che ci troviamo oggi in una fase completamente nuova della Storia, che ci costringe a cambiare radicalmente i nostri paradigmi culturali; una fase in cui l’Umanità deve decidere del suo destino, non del suo futuro remoto, ma di quello prossimo: vuole continuare a vivere e a evolvere, progredire; o vuole sprofondare nell’incubo dell’autodistruzione?

Questa domanda non ha a che fare solo con la morale e con l’ideologia (come molti ancora oggi credono ed affermano); ha a che fare con il senso della realtà, anche se, purtroppo, una realtà che a molti ancora sfugge; è una domanda che ha a che fare con la realpolitik e non più con l’utopia.

Allo stesso modo di come (e non è un caso che i due problemi si pongano nello stesso momento, nella stessa fase storica) l’Umanità è chiamata a decidere oggi, consapevolmente, del futuro dell’ambiente, dell’ecosistema, in cui vive.

Con il tipo di sviluppo economico che da secoli (soprattutto negli ultimi due secoli) gli uomini si sono dati, il loro futuro è segnato da una prospettiva di oramai neanche tanto lenta autodistruzione.

O l’Umanità, quindi, nel giro non di secoli ma di pochi anni, sarà capace di modificare, anzi invertire il modello di sviluppo (specie quello economico) che finora ne ha caratterizzato la storia, oppure il suo destino è segnato, già deciso: nel giro di qualche generazione essa scomparirà dalla faccia di questo pianeta.

Non so quanti riescono ad avere consapevolezza della fase storica assolutamente nuova, inedita, nella quale ci troviamo.

So solo che chi ha raggiunto questa consapevolezza ha il dovere morale e il compito storico di segnalarlo ai suoi simili; saranno poi essi a decidere del loro destino; che per me non è affatto scontato; o, meglio, a giudicare dai segnali prevalenti che vedo in giro è un destino niente affatto roseo e positivo.

La ragione, che guarda freddamente i dati di realtà, mi rende anzi piuttosto pessimista; e mi ha colpito molto che perfino il capo della Chiesa cattolica, un uomo illuminato dalla fede e quindi piuttosto propenso verso la speranza, si sia autodefinito in una recente e importante intervista con lo stesso termine.

Anche se, come ci invitava a fare un illustre pensatore italiano, non voglio che al pessimismo della ragione segua, si unisca anche quello della volontà; perché come ci insegna un vecchio adagio “finché c’è vita c’è speranza”; ed io voglio (ancora) crederci, se non altro per il bene che voglio e auguro a mia figlia e ai miei nipoti.

© Giovanni Lamagna

Barriere e confini

Diego Fusaro nel suo libro “Caro Epicuro” (2020) scrive (pag. 265- 266):

… il filosofo Kant… distingue tra un confine inteso come barriera invalicabile (che in tedesco chiama Schranke), che divide ermeticamente senza poter essere attraversato, e un confine inteso come limite che può essere attraversato (Kant lo chiama Grenze).

A differenza della barriera, il limite è ciò che si affaccia da una parte e dall’altra: non impedisce l’attraversamento, semplicemente lo regola e lo controlla, facendo sì che tra le due realtà separate non si crei indistinzione e l’una non occupi lo spazio dell’altra.

In effetti, se la barriera è negativa in quanto tale, perché chiude incondizionatamente e nega ogni possibile relazione, il confine è positivo. Esso non nega il transito, ma evita le invasioni. Non impedisce le relazioni, ma evita che diventino sopraffazione. Non interdice il nesso tra i differenti, ma fa in modo che non si perdano le frontiere che li separano, rendendoli non identici.

La mia epoca, Epicuro, tende a commettere un errore, che la filosofia può agevolmente smascherare: tende a tradurre la giusta lotta contro le barriere in una battaglia, in sé sbagliata, contro i confini. Per questo, quello in cui io vivo è il tempo dello sconfinamento: il movimento generale con cui si viola ogni barriera è lo stesso con cui si nega ogni confine.

E’ questa, del resto, l’essenza stessa della già discussa globalizzazione: il suo fondamento è quella “libera circolazione delle merci” che ha come presupposto l’abbattimento di ogni confine.

In questo modo, il mondo come pluralità di differenze demarcate da confini si ridefinisce come un unico mercato sconfinato: nel suo spazio globale, tutto circola senza impedimenti e, con i confini, spariscono le demarcazioni che differenziano le realtà. Tutto diviene indistintamente la stessa cosa.

E, in questo senso, lo sconfinamento della globalizzazione potrebbe essere intesocome l’invasione di ogni territorio del mondo, privato dei suoi confini, dalla merce e dalla forma di esistenza che a essa si associa.”

Il ragionamento svolto da Fusaro è in larga parte condivisibile: anch’io sono contrario alle barriere che segnano confini insormontabili; allo stesso tempo anch’io sono contrario alla perdita delle identità segnate dai confini, che si traduce in una indistinta omologazione delle diversità e, quindi, dei diversi.

Aggiungerei, però, al ragionamento di Fusaro questa considerazione, che segna un’importante differenza tra il mio punto di vista e quello di Fusaro: per quanto mi riguarda i confini non solo devono essere superabili e attraversabili, ma non devono essere neppure considerati rigidi e assoluti, definitivi e immutabili.

L’umanità, anzi gli uomini in carne ed ossa, hanno il diritto di considerare la Terra nella sua interezza la loro patria potenziale e tendenziale, se non attuale.

Ogni uomo ha il diritto di considerarsi cittadino del mondo oltre che cittadino di una patria specifica.

Gli uomini pertanto hanno il diritto di aspirare all’allargamento continuo dei confini delle loro patrie originarie, fino al limite estremo dei confini stessi della Terra: utopia forse mai realizzabile del tutto, ma alla quale non vedo perché gli uomini dovrebbero rinunciare (quantomeno) a tendere.

Quello che, in altre parole, manca nel discorso di Fusaro è la possibilità di realizzare non solo lo sconfinamento, cioè l’attraversamento dei confini, ma quello che molti (a cominciare da papa Francesco) oggi chiamano meticciato, cioè il mescolamento delle identità e delle differenze.

Non in nome – come purtroppo attualmente avviene – della (sola o prevalente) globalizzazione delle merci, ma in nome della globalizzazione delle culture. Non in nome di interessi economici forti, che favoriscono e arricchiscono solo alcuni, ma in nome della fraternità universale che mira a favorire ed arricchire tutti.

Non in vista e nella prospettiva di una indistinta e anonima omologazione delle differenze (antropologiche, etniche e culturali), ma in vista e nella prospettiva (utopica?) della miscela delle differenze, che non le elimina, ma le supera, originandone di nuove e – potremmo anche dire – superiori.

© Giovanni Lamagna

Alti e bassi in amore

A pensarci bene, che gli amori – anche i più grandi e potenti amori– soffrano di alti e bassi è – direi – un fatto fisiologico.

Perché un amore – allo stesso modo che una relazione terapeutica – mette in atto un transfert (un movimento di identificazione più o meno profonda con il partner), ma anche quello che potremmo definire un controtransfert (cioè un movimento che si oppone al transfert), dandogli in questo caso un significato diverso da quello che gli diede Freud.

Il rapporto con la persona amata – così come quello con lo psicoterapeuta – è dunque fatto (potremmo dire, quasi costitutivamente) di amore e odio.

Perché la persona amata ci costringe a guardarci più a fondo di quanto non eravamo abituati a fare da soli, a prendere atto (in maniera più chiara e consapevole di quanto non avessimo fatto fino ad allora) della nostra realtà psicologica (ovviamente imperfetta), e ci chiede (non esplicitamente il più delle volte, ma certe volte anche esplicitamente) dei cambiamenti.

E qui scattano molto spesso le nostre resistenze; che si manifestano attraverso forme di contrarietà, di conflitto, di aggressività, persino di odio, nei confronti del nostro partner, più o meno intense, a seconda della forza delle nostre resistenze al cambiamento, che ci viene, in modi – ripeto – più o meno espliciti, richiesto.

Perché la nostra natura è, per definizione, ambivalente: vuole cambiare, ambisce ad evolvere, a crescere, ad elevarsi (istanza biofila), ma allo stesso tempo non vuole cambiare, è affezionata a quello che è, trova più comodo e rassicurante farci restare immobili, fermi, protetti dalla tana delle nostre abitudini e dei comportamenti consolidati (istanza necrofila).

Persegue in molti casi l’utopia/illusione di poter cambiare senza cambiare nulla; e ciò ovviamente è fuori dalla realtà.

Mentre la presenza del nostro partner in amore ci ricorda continuamente il cambiamento necessario: in un certo senso egli è arrivato nella nostra vita proprio per questo, per segnalarci questa necessità e impedirci di continuare nell’inganno.

Come sarebbe, molto probabilmente, accaduto se non lo avessimo mai incontrato e come succederebbe se rompessimo la relazione che abbiamo instaurato.

Per questo, nel momento in cui il nostro partner ci chiede dei cambiamenti e noi non siamo ancora (o per nulla) disposti a realizzarli, diventiamo aggressivi nei suoi confronti o lo evitiamo, scappiamo, tendiamo a sfuggire la sua presenza.

Proprio come succede in psicoterapia, quando di fronte ai cambiamenti che ci vengono richiesti dallo sviluppo dell’analisi, scattano le nostre resistenze ed arriviamo (persino) ad odiare il nostro terapeuta, che ci rappresenta, ci pone davanti (spesso per il solo fatto di esserci) la prospettiva di cambiamento che dovremmo mettere in atto, se vogliamo sbloccare certi nodi che abbiamo dentro (magari da una vita) e vogliamo evolvere, andare avanti psicologicamente più spediti, sfuggendo alla cosiddetta, famosa “coazione a ripetere”.

© Giovanni Lamagna

Utopia e senso della realtà

Come Ernest Bloch mi sento un utopista che ha, però, il senso della realtà.

Ed, allo stesso tempo, un realista che non si rassegna alla realtà del presente, ma aspira a trascenderla, a modificarla, in-seguendo non un sogno, ma un progetto.

© Giovanni Lamagna

Gli obiettivi della rivoluzione sociale e politica oggi

Per chi persegue oggi un radicale cambiamento sociale (diciamo pure un cambiamento rivoluzionario) non esiste (come invece è per la cultura marxista) un unico problema da affrontare: quello della proprietà dei mezzi di produzione da socializzare, collettivizzare.

Ne devono esistere almeno altri due: quello di cosa produrre (l’oggetto della produzione); quello del come produrre (il vincolo ecologico).

Io poi ci aggiungerei la qualità delle relazioni interpersonali, sintetizzabile con il termine “fraternità”.

Che forse, più che un’aggiunta, è addirittura la premessa indispensabile di ogni radicale cambiamento sociale e politico, di ogni vera e autentica rivoluzione.

Ma qui andiamo nel sopraffino, che per i più è pura utopia.

Mentre per me è la necessaria conditio sine qua non.

© Giovanni Lamagna