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Sullo spot della Esselunga.

Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.

Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.

Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.

E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.

Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.

Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.

Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?

Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?

Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?

Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?

© Giovanni Lamagna

Fraternità e rapporti sociopolitici.

Nel libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis 2019) Sartre afferma (pag. 102) di non credere che il rapporto primario tra gli uomini sia quello di produzione, come sosteneva Marx.

Sartre afferma (in modo quasi sorprendente, conoscendo il suo itinerario filosofico) che “il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al di là del rapporto di produzione. È quello che fa in modo che essi siano gli uni per gli altri un’altra cosa dall’essere produttivi. Sono uomini. (…) Tutta la distinzione delle sovrastrutture di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa…” (pag. 102)

Sartre fa addirittura autocritica rispetto al suo precedente pensiero, quando afferma: “… se considero la società come l’ho considerata nella “Critica della ragione dialettica”, devo ammettere che la fraternità vi ha poco posto. Se, al contrario, considero la società come il risultato di un legame tra gli uomini più fondamentale della politica, allora ritengo che le persone dovrebbero avere o possono avere o hanno un certo rapporto primario che è il rapporto di fraternità… il rapporto familiare è primario rispetto a tutte le altre relazioni… In un certo senso, formiamo una sola famiglia.” (pag. 102-103)

Sono abbastanza e sostanzialmente d’accordo con queste affermazioni di Sartre; ma non del tutto e non completamente; per cui voglio analizzare ed esprimere la mia posizione in proposito.

Gli uomini (anche per me) nella loro “essenza” (termine nel quale – lo so – Sartre non si sarebbe riconosciuto, ma che io invece ritengo legittimo dal punto di vista filosofico), sono tra loro fratelli, nel senso che appartengono alla stessa famiglia, allo stesso ceppo di origine.

E, però, per essere fratelli, non solo nella loro astratta essenza ontologica, ma anche nella concreta pratica sociale, occorre (la condizione è) che si modifichino radicalmente gli attuali rapporti di produzione, che oggi, quasi sempre, tutto sono tranne che rapporti basati sulla fratellanza.

Per cui il tema della rivoluzione, posto da Marx, ovverossia della modifica dei rapporti di produzione, torna per me immediatamente a galla nella pratica, dopo essere stato apparentemente messo, da Sartre, in secondo piano nella teoria, con le affermazioni che ho citato all’inizio.

Infatti, solo nella misura in cui sarà superata la dicotomia sociale tra coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione e coloro che ne sono privi e che possono solo offrire sé stessi sul mercato del lavoro (quasi merce tra le merci) per far funzionare i mezzi di produzione di cui attualmente sono proprietari esclusivi i capitalisti, potrà realizzarsi pienamente nei fatti e non solo come potenzialità (legata all’essenza) la fraternità tra gli esseri umani.

Da questo punto di vista torna ancora valida l’analisi marxiana dei rapporti economici come struttura fondamentale di ogni altra relazione.

Si può, infatti, definire fraterna una relazione nella quale uno è padrone (il capitalista) e l’altro è, se non proprio il servo, quantomeno il sottoposto?

Si può definire fraterna una relazione così sbilanciata, nella quale non solo le proprietà e i redditi, ma anche e soprattutto i poteri, sono così difformi e ineguali?

Per me l’eguaglianza (nella proprietà dei mezzi di produzione) è l’altro nome della fraternità.

Come lo è- d’altra parte e sia detto per inciso – della libertà.

Una fraternità senza uguaglianza è pura ipocrisia, è buonismo senza vera sostanza.

Così come la libertà senza uguaglianza si riduce a quasi vuoto formalismo.

La crisi delle odierne democrazie – se non bastasse già l’analisi teorica – sta lì a dimostrarlo in tutta la sua macroscopica evidenza.

© Giovanni Lamagna

Occuparsi di sé stessi.

Ci sono due modi di occuparsi di sé stessi.

Uno è il modo egocentrico ed egoistico, che equivale all’occuparsi solo di sé stessi, come se gli altri non esistessero.

L’altro è il modo allo stesso tempo egoistico ed altruistico, che equivale ad occuparsi di sé stessi come ci si occupa degli altri e ad occuparsi degli altri come ci si occupa di sé stessi.

Occuparsi degli altri senza occuparsi anche di sé stessi, oltre che essere pura ipocrisia, è anche dannoso.

Se non si sta bene, infatti, dentro e con sé stessi, come è possibile pensare di far stare bene gli altri?

© Giovanni Lamagna

Fedeltà sessuale e attrazione fisica.

Questa cosa della fedeltà sessuale è una grande ipocrisia.

Il nostro desiderio sessuale è, infatti, per sua natura vario, multiplo, polimorfo, non si indirizza cioè verso un solo oggetto.

Quindi restare “fedeli” sessualmente è in fondo reprimere la nostra natura.

A questa ipocrisia che accomuna, in genere, uomini e donne, molte donne ne aggiungono poi un’altra: quella secondo cui a loro non interessa la bellezza fisica del maschio; perché a loro del maschio interessano soprattutto le qualità, le caratteristiche psichiche; e solo in seconda (ma molto in seconda) battuta quelle fisiche.

Io sono convinto che anche questa sia un’ipocrisia; che molte donne hanno introiettato a causa della loro subalternità alla cultura maschilista, che ha riservato solo al maschio certe libertà.

E’ vero che oggi questa seconda ipocrisia tende ad essere superata e che molte donne si sono oramai emancipate e manifestano liberamente i propri desideri, anche quelli puramente fisici e sessuali.

Ma è anche vero che ancora oggi molte donne, soprattutto in certe culture e aree geografiche, persino del nostro Paese, ne sono vittime e non se ne sono che poco o niente liberate.

© Giovanni Lamagna

Libertà e libertinaggio

Con questa riflessione voglio chiarire un possibile equivoco, che può essere facilmente ingenerato da alcune mie posizioni nei riguardi delle relazioni erotiche e sessuali, quando non vengono correttamente intese.

L’ipotesi della “coppia aperta”, di cui mi sono dichiarato più volte fautore, si pone, regge, ha valore, solo nel caso di un rapporto che funziona, di un rapporto cioè in cui è ancora vivo il desiderio reciproco.

Non certo nel caso di un rapporto nel quale ognuno dei due partner oramai ignora completamente l’altro, si fa i cavoli propri, vive una vita del tutto sganciata da quella dell’altro/a.

Non ha senso, quindi, nel caso di un rapporto che è oramai morto nei fatti o, perlomeno, è del tutto disfunzionale; di quale “coppia aperta”, infatti, si potrebbe parlare, nei casi in cui la coppia di fatto non esiste più?

Fatta questa premessa, io sono convinto però che una coppia, per funzionare bene, ha bisogno – come condizione base per la sua esistenza – della libertà reciproca dei suoi due membri, allo stesso modo di cui i polmoni hanno bisogno dell’aria per respirare.

Ma, anche qui intendiamoci bene, la libertà è altra cosa – smontiamo quest’altro equivoco – dal libertinaggio.

Il libertinaggio, infatti, (quasi sempre) è unilaterale e viene imposto da uno dei due partner all’altro; la libertà, invece, è bilaterale, è una scelta, consapevole e persino formale, fatta da entrambi i partner.

Mi rendo conto, sono pienamente consapevole, che non è facile condividere questa visione dei rapporti amorosi; e che è ancora meno facile metterla in pratica.

Ma l’esperienza mi insegna che, se il rapporto non viene vissuto in questo modo, quasi inevitabilmente (se non inevitabilmente) finisce nelle secche della routine.

Che è, poi, l’anticamera dell’esaurimento sostanziale, se non anche formale, di una relazione erotico-sessuale.

Basta vedere come vivono la maggior parte (non tutte, ma la maggior parte, sì) delle coppie, dopo un certo numero di anni.

Nella migliore delle ipotesi i due membri della coppia sono diventati amici fraterni; nella peggiore si sopportano appena e con molta fatica; in alcuni casi arrivano addirittura ad odiarsi e, perfino, alla violenza.

Certo – anche di questo sono ben consapevole – la maggioranza di noi non è disposta ad accettare questa realtà dei fatti e si ostina a credere nel mito/sogno dell’amore romantico; cioè dell’amore esclusivo, se non anche eterno.

E così i più vanno a sbattere, magari più volte nella loro vita, contro la realtà che – dura come roccia – smentisce quel mito e quel sogno.

Per cui la maggior parte delle società (anche quelle contemporanee, anche quelle culturalmente più evolute, secondo gli schemi della cultura occidentale) continuano (non so se più ipocritamente o più stupidamente) a confermare quel mito e quel sogno.

Oppure a praticare (se non proprio a teorizzare) una libertà di costumi, che vale (ancora, come già in epoche passate) solo per i maschi e non (come sarebbe giusto che fosse) per entrambi i sessi.

Donde la domanda che mi pongo da tanto tempo e la cui risposta a me pare oramai scontata: è sana una società che vive sulla ipocrisia di valori a cui non riesce a mantenersi fedele e sulla ingiustizia di una millenaria disparità tra maschi e femmine?

© Giovanni Lamagna

Crisi dell’istituto matrimoniale e ipotesi alternative alla coppia monogamica.

Con gli anni e l’esperienza sono arrivato alla conclusione che il matrimonio sia da sempre (praticamente da quando esiste sulla faccia della terra) un’istituzione debole, precaria, checché ne dicano i borghesi benpensanti, perché limitativa delle risorse libidiche e relazionali che uomini e donne avrebbero la possibilità di mettere a frutto nella loro vita, se non esistessero divieti e censure sociali oramai ataviche.

Una istituzione, quella del matrimonio, che da sempre, anche nel suo lontano oltre che recente passato, ha manifestato crepe e contraddizioni piuttosto vistose.

Ma che negli ultimi decenni si sono ulteriormente allargate, fino ad esplodere in maniera eclatante e in forme che, a questo punto, impongono (e molti oramai l’hanno avviata) una seria riflessione sulla tenuta futura di una struttura relazionale e giuridica, che ancora oggi e con grande miopia viene da molti considerata addirittura la cellula base della società, senza realistiche alternative.

Due a mio avviso sono i fattori che segnalano e comprovano questa crisi, che per me è oramai irreversibile, arrivata ad un punto di non ritorno.

Crisi che, intendiamoci e sia detto tra parentesi, non è solo dell’istituto giuridico-formale del matrimonio, ma della stessa struttura sociopsicologica della coppia, anche quando non è sanzionata da un legame giuridico formale.

Il primo fattore: lo stato emotivo, affettivo, sessuale e spirituale in senso lato (caratterizzato nel migliore dei casi da una cameratesca amicizia, nel peggiore da una separazione di fatto) nel quale si riducono la maggior parte delle coppie (unite in matrimonio o anche solo realtà di fatto: qui la distinzione ha poca importanza), dopo un certo numero di anni di convivenza; anche coppie che si erano formate in seguito ad una forte attrazione reciproca e avevano vissuto, prima di mettersi a vivere assieme, una fase di intensa passione e di autentico innamoramento.

Il secondo fattore: i fenomeni frequentissimi di adulterio o, peggio, di ricorso alla pornografia e alla prostituzione (soprattutto da parte dei maschi, ma da qualche tempo il fenomeno, almeno in alcuni ambienti sociali, si sta estendendo anche alle femmine), che, salvaguardando in maniera solo formale, esteriore ed ipocrita, il “vincolo” della fedeltà, segnalano in maniera evidente l’insoddisfazione profonda, se non la vera e propria crisi del legame matrimoniale o della coppia di fatto.

Di qui la necessità di pensare e (perché no?) cominciare a sperimentare soluzioni alternative al profondo bisogno umano di rapporti affettivi e sessuali solidi e continuativi, che superino però i limiti e risolvano (almeno in parte) le contraddizioni, manifestate dall’istituto giuridico-formale del matrimonio e dalla stessa struttura informale della coppia di fatto.

L’alternativa, a mio avviso, sta in strutture relazionali che provino a dare soluzioni ai problemi evidenziati nelle diverse epoche storiche e nelle diverse società dal rapporto monogamico su cui si fonda il matrimonio.

Problemi che potremmo dire (ancora di più oggi, col senno del poi) si evidenziavano in maniera vistosa già nella radice etimologica del termine (mater: madre, genitrice+ munus: compito, dovere); come se nel matrimonio i doveri fossero essenzialmente della donna e il maschio potesse vantare soprattutto diritti; segno inequivocabile della genesi e quindi natura profondamente patriarcale di tale istituto giuridico.

Una coppia aperta, cioè un legame non più fondato sull’esclusività del rapporto, quindi sull’idea che l’altro/a sia una mia esclusiva proprietà (non a caso al matrimonio è collegato il concetto di patrimonio: da pater: padre, genitore + munus: dovere, compito), potrebbe già cominciare ad essere un embrione di alternativa al matrimonio.

Perché, a mio avviso, in primo luogo limiterebbe (se non addirittura estinguerebbe) il fenomeno (squallido) dell’adulterio, che già rappresenta in fondo un’apertura della coppia, che si realizza di fatto, ma nella clandestinità, con l’inganno del partner, e nella ipocrisia, con la salvaguardia solo formale ed apparente della fedeltà.

Il fenomeno dell’adulterio ha accompagnato sempre e su scala abbastanza estesa, in tutte le epoche e in tutti i contesti geografici, la storia del matrimonio: tutti lo sanno ma i più si ostinano a non volerlo riconoscere.

In secondo luogo, l’apertura della coppia ridarebbe vitalità ed energie sempre fresche e nuove ad un rapporto che col tempo tende fatalmente a diventare abitudinario e perciò monotono e noioso.

Gli ridà aria laddove i rapporti di coppia tendono ad essere (o a diventare) asfissianti. Impedisce che gli interessi sessuali, emotivo-affettivi, intellettuali, spirituali di una persona si concentrino (a volte in maniera ossessiva) su un solo partner e ne impediscano il necessario distanziamento e il benefico respiro.

Crea momenti di allontanamento momentanei che, se vissuti serenamente e senza ingiustificate angosce, rinfocolano il desiderio reciproco, laddove una vicinanza ininterrotta, esagerata, tende a indebolirlo e prima o poi a spegnerlo.

L’apertura della coppia introdurrebbe poi all’interno della relazione un fattore di sana e naturale competizione, che, lungi dal metterla in crisi, laddove i due coniugi fossero in grado di superare e di vincere i naturali sentimenti di gelosia e di possesso (come, a mio avviso, è possibile), la movimenterebbe e quindi la vivacizzerebbe, rinnovandola e dandole sempre nuovi stimoli, utili ad una sua evoluzione continua.

Un’altra struttura alternativa al matrimonio o alla coppia monogamica di fatto potrebbe essere la costituzione di piccole o grandi comunità promiscue (un tempo si chiamavano “comuni”), che avrebbero il vantaggio di garantire una certa stabilità/continuità e quindi profondità di rapporti affettivi (in qualche modo paragonabile a quella dei matrimoni) senza avere però il limite della monogamia, che è causa di ingiustificata repressione libidica e quindi di logoramento della coppia chiusa ed esclusiva.

So molto bene che la grandissima maggioranza di queste esperienze tentate in passato hanno avuto esiti disastrosi. Non hanno retto cioè alle dinamiche di competizione, soprattutto di gelosia e di possesso (sentimenti connaturati all’animo umano), che inevitabilmente insorgono prima o poi  anche in comunità nate con le migliori e più lodevoli intenzioni.

Questo, però, a mio avviso, non esclude che possano essere riprovate, risperimentate, magari traendo insegnamenti proprio dai limiti evidenziati dalle esperienze finite male.

In fondo la scienza (ma anche l’evoluzione storica) procede per tentativi ed errori. Perché ritenere allora il matrimonio (e, a maggior ragione, la coppia monogamica) realtà immutabili, eterne e del tutto irrealizzabili ipotesi di convivenza alternative?

© Giovanni Lamagna

La donna “zoccola”

Ci sono donne che (quasi) schifano la loro sessualità, perché (sotto, sotto) la giudicano una cosa sporca.

E donne che la amano e la vivono con piacere e appagamento.

Ci sono, infine, donne che non solo vivono con intenso piacere la loro sessualità, ma esibiscono, quasi ostentano – perfino senza volerlo – il loro piacere e appagamento.

Sono le donne che da molte/i (compresi gli uomini che ne sono attratti) vengono ritenute delle “zoccole”.

Io – lo voglio dire senza alcuna reticenza e ipocrisia – prediligo, anzi amo, la donna “zoccola”.

E’ il mio ideale femminino. Come compagna quotidiana di vita e non solo come amante.

© Giovanni Lamagna

Ignoranza, ingenuità, ipocrisia, consapevolezza, sapienza, dialogo, stupidità, umiltà, saccenteria, paternalismo: alcune precisazioni terminologico-concettuali.

Il mio amico di facebook, Bruno Cancellieri, tempo fa (esattamente il 18 gennaio 2019) pubblicò sulla sua pagina il seguente post:

Al “so di non sapere” socratico preferisco un più realistico e smaliziato, meno ingenuo e meno ipocrita “so di essere arrogante”.

Il problema non è l’arroganza, ma ignorare di essere arroganti o credersi umili.

Perché ognuno di noi sa di sapere qualcosa di più e meglio di qualcun altro e, in tal senso, è arrogante.

Di conseguenza, ogni insegnamento o consiglio è un atto di arroganza”.

Trovai molto stimolanti le riflessioni del mio amico e le commentai con le parole che seguono:

“Caro Bruno, a mio avviso il “so di non sapere” socratico non era affatto ingenuo ed ipocrita, come tu lo definisci.

Infatti, Socrate (sempre a mio avviso) era ben consapevole di conoscere molte cose e, soprattutto, di saperne molte di più di tanti suoi interlocutori, con i quali amava intrattenersi con atteggiamento maieutico.

La sua consapevolezza di uomo saggio era, tra l’altro, confermata continuamente dal modo in cui si concludevano tutti i suoi dialoghi con gli interlocutori che provavano a metterlo in difficoltà: sempre egli riusciva, regolarmente, a smontare i loro argomenti.

La sua dichiarazione di ignoranza non si riferiva, quindi, al rapporto con gli altri uomini con cui interloquiva (in questo caso, sì, sarebbe stato ipocrita), ma alla consapevolezza dell’immensità della Sapienza, che tutti ci sovrasta e di fronte alla quale siamo tutti nani, compreso Socrate.

Il nostro sapere (volendo parafrasare Freud) è per sua natura interminabile, giammai terminabile. Nel senso che la nostra ricerca di sapere è destinata e chiamata a durare tutta la vita.

In questo senso siamo e resteremo sempre ignoranti, non saremo mai definitivamente e del tutto in possesso del sapere potenziale a nostra disposizione.

In questo senso (e solo in questo senso, io credo) Socrate si riteneva ignorante. Non certo per celia ipocrita. E tutti quanti noi faremmo bene a considerarci in questo simili a lui, suoi modesti allievi.

Tu confondi, poi, (almeno a me pare) l’arroganza con la consapevolezza.

Io posso avere consapevolezza di essere oggettivamente più istruito e perfino più colto di altri. Ad esempio, del mio salumiere o del mio macellaio. Ma questo non è un atto di arroganza, è una semplice (e perfino ovvia) presa d’atto. Che né il mio salumiere né il mio salumaio mi contesterebbero mai.

Come posso essere consapevole di essere oggettivamente meno istruito e colto di tanti uomini, che io considero miei maestri spirituali oltre che intellettuali. Faccio due esempi notissimi e indiscutibili, che tutti abbiamo conosciuto, perché vicini alla nostra generazione: Norberto Bobbio e Umberto Eco.

Questa consapevolezza è talmente ovvia ed acclarata, che sarebbe pura stupidità non averla. Cosa c’entra qui l’ingenuità e l’ipocrisia? Affermare da parte mia di saperne più di Bobbio e di Eco non sarebbe un atto di arroganza, sarebbe un atto di pura cretineria.

Qui l’umiltà non c’entra niente: si tratta semplicemente di avere il senso della propria misura. Lo stesso che mi porterebbe ad evitare lo scontro fisico, quand’anche mi avesse fatto un affronto inaccettabile, con il campione mondiale dei pesi massimi.

Infine: ogni insegnamento e consiglio sono per te atti di arroganza? Io dico: dipende…

Dipende innanzitutto da chi li da. C’è chi ha la pretesa di darli senza averne l’autorità morale e quella intellettuale; e, in questo caso, si tratta di arroganza. Arroganza e ignoranza spesso vanno a braccetto. Ma c’è anche chi li dà avendone l’autorità sia morale che intellettuale; ed in questo caso esercita il suo legittimo magistero.

Dipende poi da come li si danno. C’è chi dispensa insegnamenti e consigli come se fossero oracoli; e in questo caso chi si comporta così è saccente, più che arrogante. C’è chi invece offre insegnamenti e consigli pronto al dialogo, perfino al confronto aspro e polemico: in questo caso non vedo né saccenteria né, tantomeno, arroganza.

Dipende, infine, da chi li chiede. Quando gli insegnamenti e i consigli vengono richiesti, è difficile accusare chi li dà di saccenteria o di arroganza. Se invece essi non sono stati richiesti, allora, qui più che di arroganza, parlerei di cattivo gusto e invadenza, intromissione negli affari degli altri; in altre parole di paternalismo, se non di vera e propria maleducazione.

Ti ringrazio di avermi dato lo spunto per questa che, almeno per me, è stata un’utile occasione di riflessione.”

© Giovanni Lamagna

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

16 aprile 2016

Dopo aver visto il film “Perfetti sconosciuti”.

“Perfetti sconosciuti” (nelle sale italiane dall’11 febbraio di quest’anno) è un bellissimo film. Nella tradizione delle migliori commedie all’italiana.

Bellissimo e affiatatissimo cast (Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Giuseppe Battiston, Marco Giallini, Kasia Smutniak, Anna Foglietta, Edoardo Leo). Buonissima recitazione (sciolta, leggera, sempre coi tempi giusti, a tratti ironica e divertente a tratti dolente e, perfino, drammatica). Buona regia di Paolo Genovese. Ma, soprattutto, bel soggetto e bellissima sceneggiatura (dello stesso Genovese, di Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini, Rolando Ravello), che stimola molte riflessioni su di noi, sulla nostra vita e sulle nostre relazioni.

La trama si può raccontare in poche parole: quattro coppie di amici si riuniscono a cena a casa di una di loro. Ad un certo punto della serata la padrona di casa propone un gioco: mettiamo tutti i nostri cellulari sul tavolo e quando arriveranno sms o telefonate leggiamoli o ascoltiamole insieme.

All’inizio la proposta ingenera qualche turbamento e quindi una certa resistenza. Poi tutti/e i convitati accettano di mettersi in gioco. Il film vive tutto su quello che le telefonate e gli sms che via arrivano a ciascuno/a degli otto protagonisti rivelano della loro vita (quella segreta, tenuta nascosta perfino ai rispettivi partner).

Ovviamente (non è difficile immaginarlo) la vita segreta degli otto amici è legata essenzialmente al sesso. Per cui il film diventa una specie di panoramica sulle fantasie e sulle (piccole) trasgressioni sessuali oggi più diffuse.

E’ anche facile immaginare le reazioni di ciascuno/a dei protagonisti della storia: all’inizio soprattutto di sorpresa di fronte alle scoperte che ciascuno/a fa sull’altro/a, poi (per lo più) di grande smarrimento e confusione emotiva, infine di rabbia, invidia, gelosia, in certi casi e momenti perfino di grande, violenta aggressività.

Uscendo dal cinema e mentre tornavo a casa, ho fatto le considerazioni e mi sono posto le domande che provo a raccontare.

E’ senz’altro vero che “ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta” (il trailer del film attribuiva questa frase a Gabriel Maria Marquez).

E, forse, è inevitabile che nelle nostre vite sussista questa tripartizione. E, quindi, una buona dose di ipocrisia e di insincerità.

Ma non sarebbe bene che ognuno di noi lavorasse su di sé, per rendere sempre meno estesa la terza vita e sempre più pubblica e trasparente (come in una casa di vetro) anche la seconda?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi avesse segreti per gli altri?

E che ognuno di noi potesse comunicare tranquillamente le proprie fantasie e desideri di evasione/ trasgressione senza ingenerare traumi, paure, angosce di abbandono?

Non sarebbe meglio se nessuno di noi considerasse l’altro come una sua proprietà esclusiva e che considerasse normale che si possa desiderare (e perfino amare) una persona e contemporaneamente amarne anche un’altra?

Non vivremmo tutti/e una vita più semplice, serena e felice, se abbandonassimo le nostre gelosie ed invidie e fossimo disposti a rendere pubblica anche la nostra vita segreta e quella privata?

Non ci eviteremmo angosce e patimenti inutili?

Se la nostra vita segreta (più o meno quella di tutti/e) è fatta anche (perché negarlo?) di simili fantasie ed esperienze, perché considerarle ancora tabù e non sdoganarle come normali modi di essere e di comportarsi?

Non ne guadagneremmo in onestà e sincerità e, quindi, nella qualità delle relazioni?

Non ci liberemmo del fardello inutile di faticose e dispendiose (in termini di energia psichica) ipocrisie?

Forse queste mie riflessioni e domande sono frutto di utopie e di sogni.

Ma non è bello uscire da un cinema sognando? Non è nato il cinema proprio per farci sognare?

E non sono le utopie che fanno progredire l’umanità? Non sono gli uomini che hanno osato immaginare un mondo diverso che hanno poi contribuito a trasformarlo davvero?

Giovanni Lamagna

Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.

Sul film “Youth” di Paolo Sorrentino.

“Sto sempre andando a casa… a casa di mio padre” (Novalis). E’ una delle battute pronunciate da uno dei personaggi del film “Youth” di Paolo Sorrentino.

Ed è, secondo me, una delle sue battute chiave, nel senso che sta a dire che la vita è un cammino, alla ricerca del “padre”, cioè del senso della vita.

Il film non mi è piaciuto granché , francamente; perché non è riuscito a trasmettermi grandi emozioni. E però non posso negare che sia un film di qualità, di livello.

E’ una sequela di immagini, di brevi (o mai troppo prolungate) conversazioni, più che una storia.

E’ ambientato, per la massima parte, in un lussuoso resort sulle Alpi svizzere, che è quasi una metafora del mondo, dell’umanità, che prova a rigenerarsi, a mettersi in salute, a farsi “nuovo/a”, a uscire dal suo torpore, dalla sua apatia, dalla sua freddezza emotiva, dalla sua incapacità di raccontarsi, di parlare, di comunicare (il personaggio principale, un vecchio direttore d’orchestra, impersonato da Michael Caine, viene definito e si autodefinisce “un apatico”).

I personaggi del film (tutti ospiti dell’albergo) sono (quasi tutti) ripiegati nel loro dolore e nella loro solitudine, prigionieri delle loro piccole manie ed abitudini, incapaci di entrare in contatto, di parlare tra di loro (esempio estremo quello della coppia anziana, che a tavola mangia senza scambiare una sola parola, in un silenzio quasi tombale).

Il primo tempo del film trascorre cupo, opaco, “nuvoloso”, come è spesso il cielo che copre l’albergo, perfino (volutamente?) noioso, come l’atmosfera umana che si respira tra gli ospiti dell’hotel.

Poi nel secondo tempo qualcosa si scioglie: la scena che, secondo me, segna la svolta (quasi una scossa di adrenalina) è quella della coppia anziana che, come tutte le sere, sta cenando (noiosamente e nell’incomunicabilità più totale) al suo solito tavolo, quando improvvisamente, prima che finisca la cena, la moglie si alza e assesta un violentissimo e sonoro ceffone all’impreparato e incredulo marito, che, dopo un attimo di impercettibile smarrimento, continua a restare seduto e a mangiare, imperturbabile, come se nulla fosse avvenuto.

Appena qualche sequenza dopo si vedono i due anziani impegnati in un amplesso di una energia e forza incredibili (data l’età dei protagonisti): lei in piedi, appoggiata ad un albero con le gambe allargate, lui che la monta con colpi di una violenza animalesca; e lei che grida come un’ossessa in preda allo spasmo selvaggio del piacere.

Seguono le seguenti altre scene, quelle che ricordo meglio, perché evidentemente mi hanno colpito di più.

La figlia del direttore d’orchestra ricopre il padre di insulti feroci, ricordandogli di essere stato un pessimo genitore, assente, lontano, tutto preso dal suo sogno di diventare un grande musicista, pari al suo modello ideale: Stravinsky.

La figlia, abbandonata dal marito che la lascia per un’altra (perché brava a letto), ritrova l’amore incontrando un istruttore alpino che la porta sulla schiena a fare una scalata.

Il vecchio direttore d’orchestra, sotto le mani sapienti di una giovane massaggiatrice, ritrova il contatto con il dolore e, quindi, anche con il piacere; la massaggiatrice non sa dire nulla con le parole (non avrebbe niente da dire), ma sa dire (e capire) molto con le mani.

I due vecchi amici (il direttore d’orchestra e un regista cinematografico, che sta girando un film, che vorrebbe essere il suo testamento spirituale) in piscina (nudi, come a dire privi di maschere) incontrano miss Universo (anche lei ospite dell’albergo in viaggio premio), che, a sua volta nuda, dopo una lunga e fantastica “passeggiata” lungo i bordi della piscina, si immerge nell’acqua di fronte a loro, provocazione e sogno allo stesso tempo, inno assoluto alla bellezza sfrontata e selvaggia, alla giovinezza nel pieno del suo prepotente sfolgorio.

Il vecchio direttore d’orchestra confessa alla figlia l’amore (mai estrinsecato in maniera così esplicita) per la moglie, vera (e unica) ragione della sua vita; e, in questo modo, ritrova anche il contatto e la comunicazione con la figlia (che, infatti, piange per la commozione e la gioia).

Ancora il direttore d’orchestra, seduto su una roccia, guarda estasiato il paesaggio (i prati verdi, le montagne, le mucche, gli uccelli…) e se ne lascia rapire; e allora ne dirige gli elementi (il cinguettio e l’aleggiare degli uccelli, il muggito delle mucche, il suono dei campanacci appesi al collo dei bovini…) facendoli diventare strumenti di un’orchestra.

Il monaco buddista finalmente, dopo tante ore trascorse in preghiera e in meditazione ad occhi chiusi, riesce a levitare.

Maradona, ancora grasso e imbolsito, lento e macchinoso nei movimenti, riesce finalmente a palleggiare (incredibile virtuosismo!) con una pallina di tennis.

La vecchia attrice (Jane Fonda) dice al vecchio regista (Harvey Keytel) che egli ha oramai esaurito la sua vena e che farebbe bene a prenderne atto e a rassegnarsi: per questo lei si rifiuterà di recitare nel suo film, vuole evitargli una brutta figura, che getterebbe un’ombra sulla sua gloriosa carriera.

E il vecchio regista ne prende atto, dolorosamente ma onestamente, entra evidentemente in contatto con se stesso, col suo mondo emotivo (le sue ultime parole: “Le emozioni sono la cosa più importante!”), e si getta giù dal balcone, rinunciando così alla sua ultima effimera ambizione, ma incontrando (forse) in quest’ultimo gesto, assieme alla sua disperazione, il suo vero se stesso.

Il vecchio direttore d’orchestra, invece, dopo aver trovato il coraggio (finalmente!) di confessare il suo amore per la moglie (malata e ricoverata a Venezia) si reca da lei e le porta (finalmente!) un mazzo di fiori come segno di (finalmente dichiarata!) riconoscenza.

Prima però è andato sulla tomba di Stravinsky, come a fare pace con il suo sogno fallito (diventare un vero musicista creativo, al livello di Stravinsky).

E così trova anche la forza e l’energia di tornare a dirigere un’orchestra (dopo che da anni aveva oramai smesso), addirittura alla presenza della regina d’Inghilterra, che è (come una bambina) innamorata della sua musica, delle sue “Simple Songs”.

Questo film per me non è né una storia sulla “giovinezza” (come lascerebbe supporre il suo titolo), né una storia sulla “vecchiaia” (come aveva scritto qualche giorno fa Eugenio Scalfari su “la Repubblica” e come lascerebbe immaginare l’età avanzata della maggior parte dei suoi personaggi; non di tutti, perché nel film ci sono anche personaggi molto giovani e, perfino, alcuni bambini).

Per me il film ha al centro il tema delle relazioni umane (quelle di amicizia e quelle di amore, in primo luogo, ma anche quelle casuali, legate a incontri brevi, perfino effimeri).

E’ un film sulla fatica di vivere, di dare un senso alla propria vita, di trovare la propria verità, la propria realizzazione e creatività, nelle forme più varie (dalla musica alla regia cinematografica, dall’alpinismo al calcio e, perfino, al concorso per miss Universo…), nelle forme più congeniali alla propria natura individuale, alle risorse, ai talenti che ognuno di noi si ritrova in tasca quando viene in questo mondo.

E’ un film sulla disperazione ma anche sulla gioia, sul dolore ma anche sul piacere, sulla incomunicabilità ma anche sull’amicizia e l’amore, sull’ipocrisia e la falsità ma anche sulla verità e la confessione di sé, sull’estro ma anche sulla routine e la noia, sulla vecchiaia ma anche sulla giovinezza e, perfino, sull’infanzia e l’adolescenza.

E’, insomma, un film sulla varietà della commedia umana, sui suoi aspetti di luce e sulle sue ombre.

Un film, a mio avviso, non riuscitissimo, ma da vedere.

Giovanni Lamagna