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“Cogito ergo sum” o “dubito ergo sum”?

Cartesio ebbe a dire “cogito ergo sum” (penso, dunque sono).

Ma, per cogitare (pensare) bene, occorre dubitare molto.

Cioè sospendere il giudizio fino a quando il pensiero non giunge a idee chiare e distinte.

Ed anche allora non bisogna smettere di dubitare.

Perché un pensiero “vero” può essere sempre messo in discussione e falsificato (come diceva Popper) da un pensiero ancora più “vero”.

In questo senso “dubito ergo sum” è ancora più vero che “cogito ergo sum”.

Perché il dubbio (certo, non il dubbio paralizzante e nichilista!) è il fondamento stesso del pensiero.

Almeno del pensiero moderno.

Ma, in fondo, anche del pensiero antico, quello più vitale e durato nei secoli, che ancora oggi ha qualcosa da dirci e insegnarci.

Penso a quello di Socrate, Platone, Aristotele; ma, in fondo, anche a quello di un Epicuro, di un Seneca, di un Marco Aurelio.

O, per venire a tempi meno antichi e un po’ più vicini a noi, a quello di un Agostino d’Ippona o di un Tommaso d’Aquino.

© Giovanni Lamagna

La grandezza di Giorgio Gaber.

A mio avviso Gaber è stato grande sempre, anche agli inizi, quando faceva il rockettaro.

La sua grandezza ovviamente è stata confermata, anzi accresciuta, dal fatto che nel corso degli anni si è evoluto, ha avuto un percorso, è andato avanti, non è rimasto fermo al rock.

Anche se il suo non è mai stato un rock puro, rozzo, elementare; era un rock colto, mescolato col jazz; e questo sin dagli esordi.

Gaber è stato, oltre che un cantante meraviglioso, dalla voce calda e profonda, melanconica e allegra, dura e romantica allo stesso tempo, un formidabile uomo (anzi, animale) di spettacolo: cantava e parlava col volto e col corpo, oltre che con la bocca.

Lo si è visto subito, sin dalle sue prime apparizioni televisive; e, infatti, ha avuto da subito un grande successo.

Anche se il Gaber che resta di più nei miei ricordi e che ha segnato la mia vita negli anni ’70 è il Gaber del teatro-canzone; qui Gaber ha dato, secondo me, il meglio di sé, anche grazie alla collaborazione col grande Sandro Luporini.

Di questo Gaber, poi, in modo particolare ricordo (ed è questo il Gaber nel quale più mi riconosco) la capacità di denunciare – e la forza, il coraggio, l’anticonformismo con cui lo ha fatto – le derive involutive di una certa sinistra movimentista, quella che in una prima fase si era riconosciuta in lui e che lui a suo modo aveva rappresentato e che, infatti, cominciò a contestarlo, perché completamente priva di spirito autocritico, mentre Gaber, al contrario, era uno che si metteva continuamente in discussione.

La capacità di denunciare gli ideologismi, le astrattezze, la violenza (verbale e fisica), la cecità rispetto al dato personale e concreto (“voglio parlare di Maria”), il rivoluzionarismo parolaio, la finta democrazia assembleare; in questo ricordava – è evidente – il Pasolini degli “Scritti corsari”.

È questo il Gaber – anche se di lui mi piace (quasi) tutto, anche il primo, quello rockettaro – che resterà per sempre maggiormente nei miei ricordi e che ieri mi ha fatto ancora una volta piangere e commuovere, mentre vedevo il film documentario che gli ha dedicato Riccardo Milani a venti anni dalla sua morte.

© Giovanni Lamagna

Chi è il filosofo?

E’ una persona come tutte le altre; non necessariamente o particolarmente istruita.

Che, però, a differenza della maggioranza delle persone, anche di quelle molto istruite, sottopone continuamente il suo pensiero ad uno stress-test, che lo porta a valutare le estreme conseguenze delle sue ipotesi di partenza, per verificarne (testarne, appunto!) la valenza, la validità teorica.

Il filosofo, quindi, è uno abituato a dialogare continuamente con l’Altro da sé, che ne mette in crisi, in discussione, continuamente non solo i pensieri, le idee, ma anche le pulsioni, le emozioni, i sentimenti.

Il filosofo, insomma, è uno che interroga continuamente sé stesso e si fa interrogare dagli altri.

E su questi interrogativi e sui tentativi di dare loro risposte forma, plasma la sua stessa esistenza, il suo stile di vita.

Come mi ha insegnato Pierre Hadot, specie nel suo “La filosofia come modo di vivere” (Einaudi 2008).

© Giovanni Lamagna

Possiamo fare a meno di una nostra visione del mondo?

Krishnamurti, nel suo libro “La quiete della mente” (Ubaldini, Editore; 2021), a pag. 100, così scrive: “… i sistemi non purificano la mente e non liberano il cuore dalle cose della mente.”

Per “sistema” egli intende “un metodo”, “un ideale”, “un credo”, una “fede”, “un particolare modello di attività”.

Cosa penso di una tale tesi?

Penso che – in linea teorica e di principio – Krishnamurti abbia ragione: i sistemi in qualche modo ci limitano, ci ingabbiano, ci condizionano.

Allo stesso tempo, però, ritengo che non possiamo fare a meno dei “sistemi”, cioè di una certa visione del mondo; non possiamo prescinderne.

D’altra parte, in fondo, lo stesso Krishnamurti porta avanti, propugna una sua particolare visione del mondo, quindi un suo sistema di vita.

E allora?

Credo che la parte di verità di quello che dice Krishnamurti stia in questo: ciascuno di noi non può fare a meno di avere un suo sistema di vita, una sua visione del mondo.

Non deve però chiudersi in questo sistema e diventarne prigioniero.

Il suo sistema deve rimanere aperto ai cambiamenti, sempre.

Deve essere disponibile ad evolvere, financo, se è il caso, a negare sé stesso.

La vita è, infatti, movimento.

Pertanto tutto ciò che contribuisce a fermarla, bloccarla (anche le cose che per un certo tempo e fino ad un certo momento ci hanno reso felici) è negativo, perché interrompe o, quantomeno, ostruisce il nostro flusso vitale.

Bisogna avere (è impossibile non averla) una propria visione del mondo; senza di essa deraglieremmo come un treno uscito fuori dai binari, oscilleremmo come una canna al vento.

Ma la nostra visione del mondo deve essere e restare sempre aperta, disponibile ad essere messa in discussione in qualsiasi momento.

© Giovanni Lamagna

Il filosofo.

Il filosofo, per sua natura, mi verrebbe di dire anche per definizione, è uno che non accetta le convenzioni, cioè il modo di pensare consolidato e il modo di vivere della maggior parte della gente, ovverossia la doxa, l’opinione corrente.

Perché il filosofo è chi mette tutto in discussione, per passarlo al vaglio della ragione e, quindi, della consapevolezza.

Il filosofo, allora, è per definizione un anticonformista.

Oppure filosofo veramente non è.

Tutt’al più è uno studioso della filosofia.

Non un vero filosofo.

© Giovanni Lamagna

La mia verità e LA VERITA’

Quando dico “la mia verità” io sto relativizzando e allo stesso tempo non sto relativizzando.

La mia verità è per me una verità autentica, non “una verità tanto per dire”.

Tanto è vero che io in base ad essa oriento la mia vita.

E non la baratto facilmente con altre verità.

A meno che non mi si dimostri che esse sono più vere della mia.

Allo stesso tempo non sono un fanatico della “mia verità”.

Conservo sempre un margine di dubbio, che mi consente di dialogare con altre possibili verità e di mettermi in discussione.

Diffido, ho imparato a diffidare, di coloro che non solo affermano di possedere una loro verità, ma che la loro è LA VERITA’, la sola verità.

Costoro sono dei fanatici, che fanno solo danni.

A se stessi (perché si accontentano di una visione parziale del mondo) prima che agli altri.

© Giovanni Lamagna